Il gran diavolo
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Il gran diavolo

I signori della Guerra Vol.II

  1. 352 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il gran diavolo

I signori della Guerra Vol.II

Informazioni su questo libro

I colpi d'artiglieria sovrastano il fracasso del metallo delle armature e le grida dei soldati all'attacco. Della guerra e della morte, però, non ha paura Giovanni: lui è un Medici, nelle sue vene scorre sangue nobile, ma combattivo e fiero, e ogni giorno affronta il nemico alla testa delle più feroci truppe mercenarie d'Italia, le Bande Nere.Il campo di battaglia è grigio, freddo, immerso nella nebbia, eppure i suoi uomini lo seguirebbero anche all'inferno. Tra questi marcia Niccolò, un giovane soprannominato il Serparo per l'inquietante abitudine di tenere tre o quattro serpenti avvolti intorno al braccio. Custode di una sapienza antica, si affida loro per conoscere il futuro. Perciò gli altri soldati lo tengono a distanza, ma presto conquisterà la fiducia del Capitano, riuscendo a penetrarne lo sguardo severo. E dove Giovanni lo avesse posato, là Niccolò si sarebbe fatto trovare, al suo fianco, in mezzo alla mischia. Sempre. Sacha Naspini, con una lingua affilata che si misura con il dolore, il male, la morte, racconta di un'amicizia e di quello scorcio di '500 che fu uno tra i momenti più tumultuosi della Storia d'Italia, quando ogni cosa stava cambiando, e tutti tradivano tutti. E lo fa attraverso un personaggio che incarna perfettamente il suo tempo, quel Gran Diavolo disposto a tutto per dominare la sorte e gli uomini. E continuare a combattere. IL SECONDO EBOOK DELLA SERIE 'I SIGNORI DELLA GUERRA'. AMBIZIOSI, CORAGGIOSI, SENZA SCRUPOLI. SONO LE ANIME NERE DELLA STORIA D'ITALIA: CONDOTTIERI, POLITICI, SOLDATI AUDACI E SPREGIUDICATI MOSSI DA UN'INARRESTABILE SETE DI POTERE. Gli altri titoli della serie: - Il crociato infedele, di Davide Mosca - Il falco nero, di Mauro Marcialis - Il principe del male, di Francesco Ongaro

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Informazioni

Anno
2014
Print ISBN
9788817072069

1522-1524

24

Sulla strada per Passignano, gennaio 1522

L’aria era ferma, ma il gelo terribile, tanto che il respiro stesso doleva in petto. Niccolò Durante incedeva sul lato esterno del solito gruppo, il cappuccio abbassato. Dall’altra parte c’era un soldato con cui non aveva mai scambiato una parola né un cenno di saluto. Ne ignorava perfino il nome di battaglia, anche se era una faccia che aveva trovato nelle bande fin dal suo arrivo. Questo combattente sconosciuto sembrava voler fomentare la polemica, parlando in modo da farsi ascoltare dai compagni. Rischiando inoltre che le sue parole giungessero alle orecchie dei capisquadra che guidavano i quadrati. Il tema era delicato, la buona stella di Giovanni che si stava spegnendo a poco a poco, come tutti potevano vedere. Gli ultimi eventi, con la morte di papa Leone, parlavano chiaro. E, peggio, l’eredità che quel pontefice lasciava ai posteri.
«Dicono che in otto anni di regno abbia speso quattro milioni e mezzo di ducati.» Il combattente aveva la parlata della bassa. «Me lo immagino, già si presentano i banchieri, ben disposti a batter cassa. E noi qui, ad aspettare una paga che non arriverà mai.»
Anche Niccolò aveva assistito da lontano al conclave, apprendendo insieme agli uomini delle bande l’evolversi degli eventi. Le scommesse vedevano tra i favoriti Giulio de’ Medici, cugino del papa defunto. C’erano comunque due fazioni in campo: coloro che erano a favore e coloro che erano contro quella casata. Il 30 dicembre le quote del parente di papa Leone si erano impennate.
Il nome del nuovo pontefice era stato rivelato solo il 9 gennaio: Adriano di Utrecht, un uomo del compromesso, fuori dalla mischia in atto. Era salito al trono di Pietro assumendo il nome di Adriano VI.
Molte famiglie avevano appreso con entusiasmo quella notizia. Tra queste i Della Rovere, i Malatesta, i Baglioni. Significava la sconfitta dei Medici, la casata odiatissima che li aveva estromessi dai loro possedimenti di Urbino, Rimini, Perugia. E per riconquistarli, le tre dinastie non avevano esitato a prendere le armi. Nello stesso mese di gennaio, le bande di Giovanni erano state mandate a contrastarne i piani.
Il soldato dal nome sconosciuto aveva una borraccia che di tanto in tanto tirava fuori dal mantello per dare copiose sorsate. A causa della sbronza stava perdendo il controllo della voce. Più di un compagno d’arme lo intimava di smettere con quella cagnara. Rischiava di essere accusato di sedizione.
«Già molti combattenti hanno abbandonato queste schiere» ragliava, instabile sulla sella. «Il patto che abbiamo fatto al momento del nostro arruolamento viene meno. Da una parte si è rispettato l’impegno di onore, coraggio e fedeltà, ma dall’altra tarda il compenso. E di battaglie ne abbiamo combattute, molto sangue è stato versato. Ci dicono che il Capitano Giovanni continua a inoltrare messaggi a Firenze, ma la risposta è sempre la solita, avere pazienza.» Il soldato scoppiò poi in una risata becera. «Pazienza? Nessuno ci ha parlato di pazienza al momento del contratto! E adesso eccoci a vagare ancora per queste terre come dei poveracci.» Ormai era fuori di sé. «Nel freddo assassino, e con la prospettiva di rischiare la vita senza che ci venga dato un soldo. E peggio sarà più avanti» continuava, «visto che il nostro grande Capitano non gode più delle attenzioni di un parente papa!»
Erano i latrati di un combattente colto dalla sbronza e dallo sconforto. Ma le sue parole risuonavano nelle pance dei soldati, i quali si limitavano a incedere in silenzio. Niccolò non escluse che l’animo di quel mercenario fosse in realtà l’animo dei più. Tuttavia, i suoi lamenti non aiutavano gli uomini a recuperare uno straccio di fiducia.
Ci fu un improvviso spostamento di soldati, come un’ondata. Alcuni cavalli andarono a toccarsi gli uni con gli altri, agitandosi. Quando Niccolò Durante si voltò a guardare l’origine di quel tumulto, vide Luzzasco. Si era fatto spazio tra gli uomini con un manipolo di venturieri. Adesso teneva le briglie della bestia montata dal mercenario ubriaco. Creando un po’ di scompiglio nel quadrato, Luzzasco tirò via quel combattente che, alla vista del Luogotenente, aveva subito smesso di vociare. Anzi, adesso implorava. Fu fatto scendere da cavallo in malo modo. Gli vennero tolte le armi e il mantello. Gli furono prese le scarpe. Intanto la compagnia continuava ad avanzare. Ma le grida del mercenario si alzavano, come il più perfido malaugurio. «È questo il ringraziamento? È così che vengono trattati i venturieri di Giovanni?» Nessuno lo degnava di uno sguardo, passando oltre. Gli occhi dei combattenti restavano bassi, mentre l’uomo, inginocchiato sulla terra nuda, insisteva: «Almeno abbiate il coraggio di ammazzarmi, senza lasciarmi qui, nel niente e nel gelo, a crepare da solo!».
Poi la sua voce si perse alle spalle del contingente.

25

Passignano, gennaio 1522

L’armata aveva già circondato la muraglia. I soldati erano in assetto. E in attesa della risposta dopo l’intimazione di resa lanciata.
Tra i fanti, Niccolò Durante. Aveva Barbagelata al fianco, che teneva su il solito muso lungo. Ma il gigante non era l’unico del gruppo ad aggirarsi con aria afflitta. Anche il Gattamorta Pistoiese rispondeva cupo agli ordini degli ufficiali, da qualche linea indietro.
Venne passata la voce che i Baglioni avevano rifiutato la resa. La notizia fu accolta bene: presa la fortezza, c’era la speranza di un saccheggio sostanzioso. Il Capitano indicò con impeto il drappello dei mercenari svizzeri che resistevano tra le bande. Ordinò loro di disporsi per il primo attacco.
Passarono alcuni istanti di immobilità. Istanti incredibili, in cui gli uomini dell’armata videro i Grigioni rimanere fermi. Non obbedivano ai comandi di Giovanni.
«Che fanno, ci pensano?» fece Barbagelata.
Niccolò scosse la testa, senza dire niente.
Il grosso combattente continuò, con poca voce: «Vuoi vedere che…».
Intanto tra i venturieri già cominciavano i primi commenti. Gli svizzeri davano al condottiero la loro spada e il loro coraggio, nonché la vita, ma se adesso Giovanni de’ Medici aveva intenzione di avvalersi delle loro forze, bisognava tirare fuori le paghe, compresi tutti gli arretrati.
«Non ci credo» sbottò Barbagelata, e cominciò subito a sghignazzare.
Niccolò Durante osservava la scena. C’era il Capitano, là, eretto sul suo destriero. Aveva una faccia dura, fissava il manipolo degli appiedati svizzeri. I quali, d’un tratto, abbassarono le armi, disperdendosi nelle retrovie. Tra i soldati si levò un mormorio. Dai camminatoi della fortezza, grida di scherno.
I combattenti presero a guardarsi. Niccolò si aspettò di vedere altri venturieri fare come quei loro compagni che provenivano dal cantone di Berna. Eppure le fila tenevano. Il Serparo capì che era arrivato il momento in cui le truppe del condottiero rivelavano la loro indole. Chiunque se ne sarebbe potuto andare, ma i guerrieri non si muovevano. Ecco cosa aveva guadagnato il Capitano, immolando la propria vita alla costruzione di un esercito: la fiducia, nonostante gli stenti. Da un punto dell’armata giunse una voce: «Facciamo vedere a questi Baglioni come si conquista una fortezza!». Altri cori subito la seguirono.
Giovanni de’ Medici guardava i suoi uomini con ammirazione. Quella vista parve fargli dimenticare immediatamente l’abbandono dei Grigioni. E sguainò la spada, su cui erano incise le parole che tutti i soldati conoscevano: Non mi snudare senza ragione. Non mi impugnare senza valore. Nell’attimo in cui la lama di Giovanni vibrò nell’aria gelida, tutte le armi furono levate al cielo. Poi il condottiero si volse, gli occhi puntati alla fortificazione.
Era il 28 gennaio. La presa di Passignano costò la vita di trenta nemici. Una volta dentro, i mercenari di Giovanni divennero belve, saccheggiando, prendendo le donne.
L’impresa arrivò all’orecchio di Carlo V. L’imperatore diramò un messaggio: a suo avviso, quel Giovanni de’ Medici era certamente il miglior soldato esistente in Italia.
La notizia sorprese i combattenti delle bande. Di colpo, nonostante le paghe continuassero a non arrivare, gli uomini parvero risollevarsi nel morale: il magnifico Carlo V, sovrano sul cui regno sterminato non tramontava mai il sole, aveva definito il Capitano Giovanni come il principale portento in circolazione. E loro avevano l’onore di seguirlo, di partecipare alle sue imprese. Che già cominciavano a diventare leggenda.

Frontino, febbraio 1522

Le truppe si trovavano nel Montefeltro. L’assedio proseguiva senza che i combattenti riuscissero a venire a battaglia con gli uomini guidati da un tal Capitano Vandini, affiliato dei Della Rovere. Tutti ormai conoscevano l’indole poco disposta all’attesa di Giovanni che, dopo giorni di accerchiamento senza muovere le armi, cominciava a sbuffare come un toro.
Niccolò Durante se ne stava tra le linee con i soliti personaggi cui si accompagnava. Tra questi, un Guercio Alabardiere stranamente nervoso, e anch’egli scalpitante. Ma non di incrociare le armi col nemico, bensì di togliersi da quel borgo di trecento anime appena. Il Guercio lo espresse chiaro: «Intentare battaglia per questi quattro muri, magari rischiando di lasciarci il sangue…» e detto questo si sporse di lato, sputò.
«Avessimo avuto i soldati del mese scorso, questo posto sarebbe già stato raso al suolo» commentò il Gattamorta.
Intanto, attorno all’insediamento, il Capitano continuava a guidare gruppi di soldati per aprire un varco. Si verificavano piccoli scontri, tafferugli che si esaurivano in pochi istanti. L’ordine era comunque quello di mantenere le schiere. E restare pronti all’attacco.
Fu Barbagelata a parlare: «Affamiamo quattro gatti e nel frattempo affamiamo noi».
Si trovavano di fronte alla porta principale del borghetto fortificato. Davanti ai loro occhi, manipoli di compagni non davano tregua alle mura, cercando di forzare la cittadella. Giovanni non si dava pace, sfiancando il suo destriero, guidando le incursioni che continuavano a portare allo stesso risultato: niente di fatto. Il grosso del contingente restava immobile, le armi in pugno.
Accadde senza preavviso. A seguito dell’ennesimo assalto, la porta del borgo si mosse sotto l’urto dell’ariete portato a braccio. Voci si levarono all’istante, perché finalmente si era aperto un passaggio. Da cui subito fuoriuscì un drappello di nemici.
Luzzasco diede l’allerta ai plotoni. Subito dopo scagliò un primo contingente in appoggio al Capitano, che già combatteva con i suoi. Niccolò Durante vide due uomini cadere sotto la sua furia, che finalmente trovava sfogo. Ma lo spazio era ristretto e anche alcuni compagni persero l’arma, franando a terra, feriti a morte.
Le bande di Giovanni cercavano di spingere, forzando il varco, che comunque teneva. Poi tutto sembrò fermarsi. Di colpo i fragori delle spade cessarono. Il nemico aveva richiuso il passaggio, mantenendo la posizione.
Vennero riformate le linee. Vennero tirati via i morti e i feriti.
Fu il Gattamorta Pistoiese a scuotere l’attenzione dei compagni. «Guardate» disse. Anche gli occhi del Serparo Marsicano si spostarono sul punto che indicava il ragazzo.
Giovanni era furente. In un primo momento Niccolò pensò che fosse stato colpito, ma ben presto capì che le urla del condottiero non erano di dolore. Eppure nessuno dei combattenti aveva mai visto il suo volto così trasformato.
Diradati i soldati, restò sul campo di battaglia Sultano, il fidato destriero. Ancora si muoveva, seppure giacesse sul fianco. Tentava di tirarsi in piedi, ma ecco che crollava di nuovo. Cercava il suo cavaliere, gli porgeva la testa, arrancando con gli zoccoli. Il Capitano non poteva farci niente, la bestia era condannata. L’armata era abituata ai grandi scontri, dove si giocava la vita in pochi istanti. Tuttavia, quando Giovanni affondò la spada nel collo dell’animale, finendolo, furono molti a restare con il fiato mozzato.

26

Sulla strada per Pavia, marzo 1522

L’ingaggio venne da Francesco Sforza, duca di Bari. Le Bande Nere di Giovanni de’ Medici erano chiamate a Pavia, per riprendere il combattimento contro i francesi.
Ancora un’altra marcia estenuante. E i soldati continuavano a ridursi di numero, sdegnati dal trattamento che stavano ricevendo da Firenze, che non inviava armi nuove, né paghe.
Invece altri uomini presero bene la notizia. Tra questi, Barbagelata. «Stavolta, dopo la vittoria, non sentirò ragioni, quant’è vero Iddio: metterò il marchio su ogni piede di terra conquistato, razziandolo.» Non faceva che ripetere queste parole.
La stagione cominciava a rendere più sopportabili le fatiche dei combattenti. Si prospettava un marzo di bel tempo. I soldati si spostavano senza patire le pene del gelo, coricandosi freschi per la notte.
Niccolò Durante incedeva in silenzio. Barbagelata, al suo fianco, continuava a ribadire le sue intenzioni, adesso puntualizzando sul fatto che la sua età non gli avrebbe permesso di darsi a quella vita di guerriero errante ancora per molto, già ne sentiva gli acciacchi. «Di certo non ci si può muovere in battaglia brandendo l’arma come un vecchio. Dopo gli scontri ho le corde del collo che tirano. E a volte continuano per giorni.» Fu in quell’istante che gli uomini delle bande videro giungere un cavallo, che li superò, arrestandosi poi alla testa dell’armata in movimento. Niccolò Durante guardò quel messo parlare prima con Gazissa, e poi spostarsi al cospetto di Giovanni, il quale subito prese il messaggio.
Il Guercio Alabardiere cavalcava intabarrato, nonostante il bel tempo. Niccolò vide quel suo compagno d’arme tenere d’occhio la scena che si svolgeva in punta al battaglione. Il Guercio non spostò lo sguardo neanche per un momento dal messo, che già se ne andava, riprendendo il galoppo.
La morte del Liscio era ormai dimenticata tra gli uomini delle schiere. Non era raro mettersi in marcia con teste che mancavano a seguito di uno scontro. L’unica cosa che si poteva fare era lasciar correre: altre facce si sarebbero presto avvicendate, alla fine cancellando dalla memoria quelle di chi era andato perso.
Eppure Niccolò Durante ricordava. Senza farne parola teneva sotto controllo il Guercio, studiava i suoi movimenti. O spesso lo contemplava. Quel combattente aveva un suo modo di starsene in disparte, ma con gli occhi ovunque, affilati.
Quando venne data la notizia che le truppe quella sera avrebbero alloggiato in un castello dei Pallavicino, non lontano da dove marciavano adesso, il morale degli uomini si alzò di colpo. Tutti non disdegnavano l’idea di trascorrere una notte al coperto, tra mura solide. Tutti non disdegnavano un pasto come si deve, consumato al caldo, spogliati dalle bardature. Tra le schiere già ci si domandava di quale caratura sarebbe stato il vino che quella sera i soldati avrebbero assaggiato volentieri.
Giunsero in vista del castello di Felino con il tramonto. L’armata di Giovanni attraversò il ponte della fortificazione, quindi si diedero subito le stalle alle bestie principali, nella cittadella. Niccolò Durante stava prendendo posto con gli altri nel tamburo centrale del possedimento, riponendo le armi e le sue cose, sfiancato da quell’ennesima giornata di marcia. Ma d’un tratto, appena le porte del castello furono serrate, da un lato della corte si udirono delle grida, che richiamarono l’attenzione di tutti.
Anche il Serparo si mosse per capire cosa stesse succedendo. Giunto nel mezzo dell’ammassamento riconobbe il ragazzo che aveva salvato dal morso di un ragno. Il Crocetta veniva tenuto da due soldati. Cercava di divincolarsi.
Il clamore cessò all’istante quando Giovanni scese dal castello, senza armatura. Al suo fianco, i fedeli Luogotenenti. I tre raggiunsero il giovane piangente. Tutti, nelle schiere a riposo, non credevano ai loro occhi. Perché quel loro compagno era tenuto così, come un prigioniero?
«Sappiate che questo personaggio non è vostro pari» disse Giovanni, guardando i soldati. «Si tratta di un traditore, una spia che i Della Rovere hanno indirizzato tra queste schiere, con il compito d’inviare messaggi sulle nostre tattiche, i nostri spostamenti.» Il Capitano fece una pausa, poi alzò un pugno, in cui stringeva una carta. «Ecco il messaggio che ne dà la prova. È scritto dalla mano di un vostro compagno d’arme, che subdolo ha battagliato al vostro fianco, ma parteggiando per il nemico. E io, con la mia mano, ora lo punisco.»
Il Crocetta lanciò un grido quando, senza esitazione, il Capitano estrasse il pugnale dalla cinta. Ma non ebbe neanche modo di implorare perdono: Giovanni alzò il braccio e fece penetrare la lama al centro del collo del ragazzo. Il quale spalancò gli occhi, perdendo di colpo la parola. Tutti ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Prologo
  6. 1509
  7. 1512-1516
  8. 1517-1521
  9. 1522-1524
  10. 1525-1526
  11. 1527
  12. Nota dell’autore
  13. Ringraziamenti