PARTE SECONDA
LA CADUTA DEI MEDICI
1492-1495
29
Nel centro del vicolo un rigagnolo d’acque sporche aveva dato forma ad alcune pozze. Niccolò lo scavalcò e si accostò alla casa. Bussò piano. Da dentro non ebbe risposta. Nel vicolo non c’era anima. Né sulle altre soglie né alle finestre. Solo un gatto pisolava acciambellato al principio d’una scala. La luce dell’alba spuntava sopra la curva della terra.
Niccolò era cresciuto in altezza e s’era allargato di spalle. Di quel tanto che bastava per considerarsi uomo. Nel viso asciutto si muovevano occhi neri e vivaci. Occhi da faina.
Il gatto si stiracchiò e si allontanò dal gradino. Da qualche parte, nel vicolo, si spalancò un’imposta.
Niccolò appoggiò una spalla e l’uscio cedette. Era soltanto accostato. Entrò scuotendo la testa. Le aveva ripetuto un sacco di volte di non lasciarla aperta.
Spostò una delle due sedie e s’accomodò al tavolo. Poi tirò fuori dalla bisaccia mezza pagnotta. Prese un coltello e ne tagliò una fetta. Il pane era morbido, ancora tiepido di forno. In uno stipo trovò un orcio con dell’olio. Tenne ferma la fetta di pane e ce ne passò sopra un filo. Aveva sapore di terra asciutta.
La stanza era umida, coglieva luce solo da un’apertura che dava su un canale fetido. Niccolò mangiò il pane a grandi morsi. Poi si coricò sul pagliericcio. Veniva da una notte insonne, sciupata a un tavolo di tric trac. I dadi l’avevano malvoluto fin dal principio.
Il sonno arrivò presto, come un’onda di vuoto sugli occhi affaticati.
Lo svegliò il rumore del vicolo che la porta schiusa lasciò entrare nella stanza. La Moretta appoggiò l’uscio e lo fermò con il paletto.
«Bentornata.»
«Lasciatemi perdere. Vengo da una notte che mi è stata matrigna.»
«Perfida è la notte che non presta orecchio al dolore dei suoi figli.»
La Moretta lo guardò di traverso. «Non ho voglia di scherzare. Voi uomini, quando vi ci mettete, siete peggio delle bestie.»
Niccolò si sollevò dal pagliericcio. «Ho portato del pane.»
La Moretta si lasciò cadere su una sedia. Poi strappò qualche boccone dalla pagnotta e lo infilò in bocca. Lo sguardo fisso sul bordo del tavolo.
Niccolò disse: «Anche con me la notte è stata ingrata».
«Avete perso molto?»
«Abbastanza da tenermi lontano dal tavolo fino al mese che verrà .»
La Moretta gli sorrise. «Lontano anche da me?»
«Da voi mai.»
Niccolò l’avvicinò da dietro, le scostò i capelli e la baciò sulla nuca, andando poi a cercare dentro lo scollo il tiepido dei seni.
La Moretta gli trattene la mano. «Fatemi dimenticare l’amaro della notte.»
Niccolò la baciò con ingordigia e la trascinò sopra il pagliericcio. Si disfecero degli abiti. Poi s’accapigliarono, fino a che lei non lo serrò tra le cosce, inastata sopra di lui come una torre.
Niccolò le fasciò i fianchi con mani ferme e cercò di dare governo al suo ardore. La trattenne. La spronò. E dopo corsa impudente, entrambi si abbandonarono, come la pioggia quando prosciuga le nuvole. La penombra della stanza si ricompose come uno specchio d’acqua a tempesta sedata.
La Moretta gli rovinò sul petto, il respiro a mezzo. Niccolò chiuse invece gli occhi, cercando bonaccia nel mare dei propri pensieri.
Niccolò disse: «Vi amo».
«L’amore è niente.»
«È l’amore che dà sale ai giorni.»
La Moretta lo colpì sul petto con la mano chiusa. «Non si ama una puttana. Le puttane si usano. Ogni buco, la sua tariffa.»
Niccolò si alzò dal pagliericcio. «La bassezza non vi dona.»
«State scambiando egoismo per amore. Credete di amarmi. In realtà mi vorreste solo per voi. Io invece con l’amore mi pago il pane e l’olio e i pochi mobili che tengo qua dentro. Con l’amore ci campo.»
«Penserei io a voi.»
«Come no? Con il denaro che guadagnate al tavolo da gioco oppure con il poco che vi passa vostro padre?»
Nella luce smorta della stanza la pelle della Moretta pareva splendere.
Niccolò aggiunse: «Eppure io vi amo».
La Moretta si girò su un fianco, per riprendere a dormire. «Come preferite. Non sarò io a dissuadervi. Con la scusa dell’amore però non dimenticate di lasciare sul tavolo quello che mi spetta.»
30
Papa Sisto era morto. Avevano eletto un altro papa. E poi un altro ancora. Era la vita. Nulla resisteva alla corrosione dei giorni. Il tempo spianava amori e odi, svuotava di senso le passioni.
Lorenzo de’ Medici fece voltare il suo destriero. Il giovane bosco odorava d’autunno. Un colpo di vento, sceso dall’alto dei monti, rimestò le fronde.
Del nuovo papa, il Borgia, girava voce che si fosse assicurato le chiavi di Pietro con fiumi di denaro. Corruttore lui e corruttibili gli altri. In aggiunta aveva fama di donnaiolo. La sua amante, Giulia Farnese, era per di più una donna sposata. Ma per papa Alessandro VI non pareva costituire impedimento. La riceveva nei palazzi apostolici tutte le notti, come una concubina. E lei si coricava nuda in lenzuola di seta nera, per dare risalto al biancore della sua pelle immacolata.
Sbucando dal bosco, Lorenzo scorse la villa di Cafaggiolo. Un gruppo di cavalieri stava varcando il portone d’ingresso. Alla testa del drappello riconobbe Piero.
Il figlio, senza la guida di Clarice, si era fatto superbo. Gli piaceva mettersi in mostra e circondarsi d’adulatori. Pretendeva di ottenere subito ciò che si prefiggeva. Ogni contrarietà lo mandava in bestia. Come se non potesse tollerare che qualcosa nel mondo gli fosse avverso.
Lorenzo aveva smesso da tempo di riprenderlo per quei modi vanesi ed eccessivi. Ogni pianta prendeva la sua piega. Padre e figlio non erano fatti dello stesso legno. Negli affari e in politica Lorenzo aveva infatti imparato a tessere la propria tela e ad attendere con pazienza. A volte anche per anni. In quel modo era riuscito ad avere anche la testa di Girolamo Riario. Un passo alla volta. Senza mai esporsi.
Una volta morto papa Sisto, Lorenzo e Clarice avevano fatto in modo di dare in moglie la figlia Maddalena a Franceschetto Cybo, figlio di Innocenzo VIII, il nuovo pontefice. Inediti e più saldi legami d’interesse avevano allora stretto i Medici al papato e riassestato gli equilibri italiani. Poco a poco Girolamo Riario era stato isolato. Era diventato vulnerabile. Esposto all’odio e agli attacchi dei suoi avversari. Fino a quando gli Orsi non avevano colpito, sicuri di dare la morte. La vendetta si poteva conseguire anche per interposta persona, senza sporcarsi le mani.
Niente di più però di una soddisfazione pallida, gelida come l’acqua dei torrenti del Mugello e magra come il costato di una capra sul finire dell’inverno.
Consegnato il cavallo alla scuderia, Lorenzo s’avviò adagio per i giardini. La gotta, il male di suo padre, non aveva avuto riguardi nemmeno per lui.
Al principio del frutteto, accomodato all’ombra di alcuni faggi, un raduno di persone. Gli andarono incontro Piero e Giovanni. In coppia. Come al tempo in cui erano bambini. Non si mosse invece Alfonsina, la moglie di Piero, in attesa del primo figlio.
Anche lei era una Orsini, ma di Clarice portava solo il nome di famiglia. Non avevano nient’altro in comune, benché Lorenzo avesse sperato a lungo il contrario. Alfonsina era d’umore capriccioso e non teneva in alcun conto il popolo. Non s’era integrata a Firenze e, anziché placare le smanie di Piero, le aveva accentuate.
Una moglie che non sappia compensare il marito porta l’uomo alla rovina, ripeteva sempre Clarice.
Piero disse a Lorenzo: «Ho bisogno di parlarvi».
«Non ora… Questa sera, nel mio studiolo.»
Lorenzo prese posto tra gli alberi, mischiandosi ai presenti. Giovanni si sedette accanto a lui. Il giovane indossava gli abiti cardinalizi.
«Che si dice a Roma del nuovo papa?»
«Quello che si dice ovunque. Il Borgia ha reputazione d’uomo devoto più all’oro e alle sottane che al gregge del Signore.»
Lorenzo commentò: «Alla fine, un papa vale l’altro. Noi dobbiamo solo agire con prudenza per non perdere con Alessandro quello che siamo riusciti a ottenere con Innocenzo.»
«Questo è un papa più scaltro. Non basterà un po’ di Trebbiano delle nostre terre per manovrarlo.»
«Peccato.»
«Il Borgia non è personaggio del quale ci si possa fidare.»
«Finora è stato di parola. Ciò che vi ha promesso in conclave per avere il vostro voto è stato mantenuto.»
«Forse avrei potuto ottenere di più, ma ero troppo giovane per pretenderlo. Avete anche certificato il falso nei libri del battesimo per farmi più vecchio d’un paio d’anni…»
«E lo rifarei mille volte… Adesso che siete cardinale, i Medici non sono più soltanto ricchi mercanti, buoni per far prestiti a quelli che contano, ma essi stessi principi della chiesa.»
Giovanni sorrise quasi con condiscendenza e guardò verso un anziano poeta che andava declamando i versi di Virgilio sulla tragedia di Didone.
Lorenzo raccolse un grappolo d’uva bianca da un cesto e ne mangiò qualche acino. L’uva era dolce, si scioglieva in bocca come miele.
Il raduno nel giardino gli rammentò i soggiorni a Cafaggiolo di un tempo, quando cavalcava per ore con Giuliano e riposava insieme a Clarice all’ombra di bianchi teli, mentre i figli si rincorrevano liberi nei prati. Quindi, ascoltando di Didone che s’immolava tra le fiamme, si volse verso Alfonsina. La fanciulla nell’espressione raccolta, rapita dal dramma virgiliano, gli rammentò qualcosa di Clarice. Forse in una piega della bocca o nella sfumatura di una gota. E i ricordi gli bruciarono nelle viscere.
Clarice aveva camminato dal duomo al palazzo dei Medici stringendosi al petto il libro delle orazioni. Nel tragitto si era però fermata due volte. Tra le dame che l’accompagnavano, anche la figlia Maddalena. Questa le aveva poggiato una mano sulla fronte. Scottava, come se fosse stata a lungo accanto a un fuoco acceso.
Maddalena allora l’aveva condotta a casa. Le serve l’avevano presa in custodia e l’avevano messa a letto.
Quando Lorenzo era rientrato, lo avevano informato dell’accaduto. Maddalena g...