Capitale infetta
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Capitale infetta

Si può liberare Roma da mafie e corruzione?

  1. 262 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Capitale infetta

Si può liberare Roma da mafie e corruzione?

Informazioni su questo libro

"Sapevo che mi sarei dovuto confrontare con sepolcri imbiancati e farisei, con lecchini di corte e adulatori falsi come i soldi del Monopoli, con criminali in giacca e cravatta e con i loro pavidi servi, con funzionari corrotti e dirigenti ignavi o con dirigenti corrotti e funzionari ignavi. Però credo sempre che valga la pena di provare a cambiare questo Paese." Così suona il bilancio di Alfonso Sabella, il giudice che nel dicembre del 2014, pochi giorni dopo la prima serie di arresti legati all'inchiesta Mafia Capitale, Ignazio Marino nomina assessore alla Legalità. In questo diario di viaggio Sabella descrive la città che ha incontrato: da una parte la malavita che tratta alla pari e spesso controlla la politica e la burocrazia e, dall'altra, le difficoltà dei rappresentanti dell'amministrazione che, anche quando non sono corrotti, mancano degli strumenti necessari a cambiare. Un libro che, con un linguaggio schietto e appassionato, è allo stesso tempo una dichiarazione d'amore per la capitale e un racconto della miscela esplosiva che da decenni alimenta il malaffare: dalla mafia del litorale alle truffe sui beni confiscati, dalle mani sull'ambiente agli affari sulle commesse pubbliche. E sembra che la fragilità della politica sia incapace persino di comprendere le proporzioni di questo verminaio. Un'analisi lucida di quello che Sabella ha fatto, o avrebbe voluto fare se ne avesse avuto il tempo, per cambiare le cose, e di qual è la direzione da seguire per uscire dalle sabbie mobili della corruzione.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2016
Print ISBN
9788817087940
eBook ISBN
9788858683361

1

Il business del dolore

Dossier Politiche sociali

I più grandi affari di Buzzi e Carminati

È il mio primo, e sarà pure l’unico, Natale da assessore e il mio telefono non squilla solo per i tradizionali auguri. Alessandro, un mio amico dai tempi dell’università, non mi chiede nemmeno come sto: «Ma chi cazzo te l’ha fatto fare? Sei il solito coglione. I politici ti useranno e poi ti butteranno via, come hanno fatto con me. Come fanno con tutti. Roma è in un mare di merda e tu ci annegherai».
Provo a balbettare qualche giustificazione ma Alessandro non mi ascolta nemmeno. «Cosa credi che ti faranno fare? Sei troppo onesto e perbene per i salotti romani. Rischi pure di farti ammazzare.»
«Non mi hanno fatto paura Riina, Brusca e Bagarella e mi dovrei preoccupare di questi quattro mafiosetti di Roma?» gli rispondo con il tono dello spaccone. «Qui non sanno nemmeno come si spara.»
Vengo puntualmente smentito ventiquattro ore dopo. Giusto la notte di Santo Stefano alcuni balordi, a bordo di due scooter, passano davanti al campo nomadi di Acilia, agglomerato urbano che si sviluppa tra la Cristoforo Colombo e la via del Mare, a metà strada tra il lido di Ostia e il centro di Roma, ed esplodono diversi colpi di pistola esattamente ad altezza d’uomo, puntando sulle baracche.
Francesca Danese, neoassessora al Sociale, come si deve dire adesso in nome della parità dei sessi, mi chiede di accompagnarla sul posto per un sopralluogo. Mi sembra di essere tornato pubblico ministero mentre esamino i fori nel legno di quelle casupole a un metro, un metro e venti di altezza da terra, e spiego a Francesca che hanno usato almeno due pistole diverse, forse una 7,65 e una 38 special o una 9 millimetri, se non addirittura una 44 magnum: armi che uccidono. Leggo il terrore nel volto del più anziano dei rom quando mi fa vedere il divano sul quale era seduto con i nipotini e i punti delle pareti da dove erano passati una mezza dozzina di proiettili. Con noi al campo nomadi è venuta anche l’assessora al Welfare del Municipio di Ostia, Emanuela Droghei, moglie dell’ex capogruppo del Pd in consiglio comunale Francesco D’Ausilio, dimessosi da un paio di mesi dopo aver commissionato e fatto pubblicare sui giornali romani un sondaggio contro lo stesso sindaco Ignazio Marino.
Ci siamo tutti insomma a verificare cos’è successo e a portare solidarietà a quei disgraziati, vivi per miracolo. Del resto sono in una giunta di sinistra. È normale preoccuparsi dei più deboli, delle persone meno integrate nel contesto sociale.
Giro per il campo e parlo con la gente, provando a difendermi come posso dal vento gelido di quel pomeriggio. Non che dentro le baracche si stia molto meglio. I riscaldamenti non funzionano, dai rubinetti esce un filo d’acqua e la corrente elettrica salta spesso. Mi dicono che i lampioni dell’illuminazione pubblica sono fulminati da tempo immemorabile, che non passa nessuno a prendere i bambini da portare a scuola e che i cumuli di rifiuti abbandonati ai margini del campo sono lì da anni. Del resto quello, mi spiegano, è un campo tollerato e non autorizzato. In altre parole è un insediamento abusivo che il Comune non sgombera ma che, appunto, tollera; però lo tollera ufficialmente!
Sono passate appena novantasei ore da quando sono, si fa per dire, entrato in politica e ragiono ancora con le rigide categorie mentali del magistrato: se una cosa è legale si tutela e si protegge, se è illegale si elimina. A bassa voce dico quello che penso alle due assessore (plurale di assessora, giusto, no?).
«E dove la mandi questa gente? E dove trovi i soldi per fare lo sgombero? Quella dei campi nomadi è una vera emergenza» mi rispondono quasi in coro.
Esatto un’emergenza, ma un’emergenza che dura da decenni. Quella stessa che trasuda dalle carte di Mafia Capitale e che ha dato vita al sistema-Buzzi: in assenza di alcuna programmazione d’interventi da parte della pubblica amministrazione, aveva preso piede la logica dell’emergenza e per questa c’erano sempre presenti le cooperative della holding di Salvatore Buzzi, pronte a risolvere ogni problema.
«Salvatò, sono arrivati altri cento transitanti a Messi d’oro, ci pensi tu?»; «Pronto Salvatore! C’è da pulire subito piazza Vittorio che domani ci va il sindaco»; «Dottor Buzzi, ci sono disordini al campo nomadi di Castel Romano. Che facciamo?» E Salvatore correva con le sue cooperative di ex detenuti e poveri cristi simili. E i problemi svanivano d’incanto.
Dal 1993 al 2001, con le giunte di Francesco Rutelli, la sola Coop 29 giugno di Buzzi si era aggiudicata undici appalti per oltre cinquecentomila euro. Tra il 2001 e il 2008, con Walter Veltroni sindaco, gli appalti per la 29 giugno erano diventati sessantacinque, per un totale di oltre tre milioni e mezzo di euro. Ma erano giunte di sinistra, l’attenzione per il sociale e il recupero dei lavoratori svantaggiati era nei loro programmi elettorali, doveva essere nel loro Dna politico.
È decisamente più singolare che, dal 2008 al 2013, quando arrivarono Gianni Alemanno e la destra in Campidoglio, Buzzi, sempre con la sola 29 giugno, senza contare le altre coop del suo gruppo, si spolpi più di cento appalti per oltre otto milioni di euro. Otto milioni. Ma quei balordi che hanno sparato al campo nomadi «tollerato» di Acilia non dovrebbero essere di destra?
Già, destra e sinistra: ordine e disciplina contro uguaglianza ed equiparazione sociale, nazionalismo e tutela dei patrii lidi contro integrazione e accoglienza, capitalismo ed efficienza contro cooperazione e solidarietà. Di queste cose sentivo discutere mio zio e mio padre quando ero bambino. Ma ormai è tutto confuso. Solo voti, clientelismo e, specialmente, affari: tanti e lucrosi.
E non c’è nulla che lo racconta meglio di un sms che lo stesso Salvatore Buzzi invia ai cellulari degli amici per il Capodanno del 2013: «Speriamo che il 2013 sia un anno pieno di monnezza, profughi, immigrati, sfollati, minori, piovoso così cresce l’erba da tagliare e magari con qualche bufera di neve: evviva la cooperazione sociale». Tra i destinatari del messaggio c’è anche l’allora direttore del dipartimento dei Servizi sociali Angelo Scozzafava, lo stesso che, interrogato dal gip, poi dirà di essere in «quota centrodestra».
Un programma d’intenti, quello di Buzzi, e il bilancio di un impero chiariti ancora meglio in altre intercettazioni, come quella registrata il 20 aprile 2013: «Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati. Tutti gli altri settori finiscono a zero». E ancora, giusto per chiarire: «Tu ci hai idea di quanto ci guadagno con gli immigrati? Il traffico di droga rende meno».
La parola magica è sempre emergenza: emergenza immigrati ed emergenza freddo, emergenza foglie ed emergenza rom, emergenza rifiuti ed emergenza alloggiativa. E ancora emergenza buche, tombini e caditoie, emergenza guano, emergenza… Mancando alcuna pianificazione a Roma tutto diventa emergenza, auspicata e, soprattutto, programmata.

I residence dei disperati

L’emergenza storica di Roma è quella abitativa. Un esercito di sfollati, sfrattati e senzatetto che chiede aiuto al Comune oppure paga qualche migliaio di euro a chi gestisce le occupazioni abusive di immobili, pubblici e privati, non abitati, altro sistema totalmente illegale ma tollerato, anzi tolleratissimo, nella Capitale.
Nel 2005, con Walter Veltroni sindaco, si provò a mettere un po’ d’ordine nella questione e si cominciò a dare vita ai Caat, i Centri di assistenza alloggiativa temporanea. L’idea era quella di dare una sistemazione provvisoria alle famiglie più bisognose nell’attesa, invero un po’ troppo ottimistica, che trovassero l’indipendenza economica. L’operazione, direttamente gestita da Luca Odevaine che, in quel momento, era vicecapo di gabinetto del sindaco e che il 2 dicembre 2014 finirà tra gli arrestati di Mafia Capitale con l’accusa di corruzione aggravata, fu in parte conclusa durante il mandato del prefetto Mario Morcone, commissario straordinario nei due mesi compresi tra le dimissioni di Veltroni, candidato a Palazzo Chigi poi sconfitto da Silvio Berlusconi, e le nuove elezioni.
Con quella, quasi inconsapevole, ironia dei romani i Caat sono oggi conosciuti come i residence, vocabolo anglosassone che nell’accezione commerciale italiana dovrebbe equivalere, come dice anche la Treccani, ad «abitazioni signorili o di lusso formanti un complesso omogeneo».
In realtà si tratta per lo più di palazzoni frettolosamente costruiti nelle più remote periferie romane talvolta solo per ospitarvi uffici e attività commerciali e poi, grazie all’emergenza abitativa, trasformati in complessi di miniappartamenti con contestuale e lucrosissima, per i proprietari ovviamente, autorizzazione al cambio di destinazione d’uso, in barba a qualsivoglia piano regolatore, strumento di programmazione o di sostenibilità urbanistica. E con valore commerciale dell’immobile almeno raddoppiato. Ma c’era l’emergenza alloggiativa, non era il caso di andare tanto per il sottile.
E altro che lusso e signorilità! Un paio di stanzette scrostate e umide con angolo cottura, spigolo letto e vertice bagno, collocate ai margini del Gra, il Grande raccordo anulare, e pagate dal Comune fino a tremilanovecentocinquanta euro al mese, come se fossero residence, appunto, nei quartieri centrali e di pregio di Flaminio o dei Parioli e non stamberghe a Val Cannuta.
Una vera manna per i costruttori e gli immobiliaristi romani. E anche per il magnifico duo di Mafia Capitale. Proprio le cooperative di Buzzi e Carminati, infatti, avevano ottenuto in affidamento diretto, senza gara, la gestione dei residence, e con loro, giusto per la par condicio, anche quelle riconducibili a Comunione e liberazione come Domus caritatis con le loro sfilze di coop collegate e controllate. Come fossero gruppi imprenditoriali di società per azioni.
Fornivano la cosiddetta accoglienza alloggiativa o quel servizio chiamato pomposamente «portierato sociale», che apparentemente non è una brutta idea. Nei comuni del Nord Italia il portierato sociale offre mediazione linguistica e culturale, informazioni e aiuto nell’orientamento ai servizi pubblici e privati, svolge anche corsi d’italiano e di alfabetizzazione, aiuta nel rapporto con i servizi sociosanitari, nel rilascio di documenti, nella ricerca di attività lavorative, ha uno sportello di ascolto per i residenti, organizza momenti di incontro con gli altri abitanti del territorio, promuove e agevola la formazione del senso civico e la conoscenza delle regole di civile convivenza; insomma favorisce l’integrazione e aiuta chi vi si rivolge a sentirsi meno solo e parte di una comunità che non è soltanto quella degli abitanti di un Caat.
In realtà il portierato sociale di Buzzi & Co. nella migliore delle ipotesi non era nient’altro che un semplice servizio di portiere con la differenza che costava almeno dieci volte tanto.
In questi dormitori vivono più di millesettecento nuclei familiari, oltre quattromila persone, quasi tutte senza speranza o reali possibilità di uscire da quei ghetti o da quel circuito di disperazione. Impaurite per il loro futuro e timorose di perdere anche quel fragile tetto che hanno sulla testa, da cui sovente passano infiltrazioni di acqua piovana o perdite dei bagni dai piani superiori senza che alcuno se ne preoccupi. Altro che integrazione sociale, recupero di indipendenza economica, possibilità di costruire un futuro diverso almeno per i figli.
Ignazio Marino, bisogna dargliene atto, se n’è occupato subito dopo il suo insediamento. Una delle prime delibere della nuova giunta, nel settembre 2013, che porta la firma dell’assessore Daniele Ozzimo – successivamente rinviato a giudizio nel processo a Mafia Capitale e condannato in primo grado con rito abbreviato a due anni e due mesi per corruzione, malgrado da una più attenta lettura delle intercettazioni non sembra abbia mai preso mazzette da Buzzi –, riguarda proprio la chiusura e il superamento dei residence, tanto che, a chiare lettere, si dice che i contratti di affitto stipulati con gli immobiliaristi e costruttori proprietari degli immobili, contratti che comportavano una spesa all’epoca di oltre trentacinque milioni di euro, non sarebbero stati rinnovati alle singole scadenze.
Marino, con quella delibera quasi inaugurale del suo mandato, avrebbe voluto superare i Caat sostituendoli con il buono casa e con il recupero di immobili di edilizia residenziale pubblica. Il lungimirante progetto politico sarebbe stato integrato nel maggio 2014 con un’altra delibera dove si aggiungevano anche il contributo all’affitto e soprattutto il Saat, ovvero un servizio completo di accoglienza abitativa e non solo dormitori dove stivare il disagio sociale. L’idea era quella di fornire all’ospite oltre all’alloggio anche, appunto, un servizio complessivo di assistenza alla persona, con progetti specifici calibrati sui singoli nuclei familiari, sulle loro esigenze individuali, allo scopo di far superare o comunque ridurre quel gap che li pone ai margini della società civile e di favorire, quindi, una loro completa integrazione nel tessuto sociale ed economico.
Quelle delibere, purtroppo, sono rimaste solo un manifesto politico. Il dipartimento Politiche abitative che avrebbe dovuto tradurre quella decisione in un progetto operativo e in gare per l’approvvigionamento degli immobili e dei servizi necessari, non fece proprio nulla, se non una graduatoria di chi aveva fatto richiesta del buono casa, senza poi distribuirne nemmeno uno che fosse uno. Intanto, i contratti dei residence, un po’ per volta, si avviavano a scadenza.
Lunedì 29 dicembre 2014, più di un anno e tre mesi dopo la prima delibera, sono nella splendida Sala dell’arazzo del Campidoglio dove c’è tutto il gotha del dipartimento. Avevo passato la domenica precedente a discutere con i lavoratori delle cooperative di Buzzi. Avevano occupato pacificamente i locali dell’assessorato Politiche sociali perché volevano garanzie per il loro futuro e perché quel mese non avevano preso stipendi e tredicesime: i conti correnti delle cooperative infatti erano stati bloccati dalla magistratura dopo gli arresti e gli amministratori giudiziari non potevano pagare.
Ero stato giudice a Roma e nella rubrica del mio cellulare c’erano ancora i numeri giusti. Giro vorticoso di telefonate e, nonostante il periodo festivo, almeno un problema era risolto: «Domani, all’apertura delle banche, i conti saranno sbloccati e cominceranno a pagarvi. I contratti in corso con il Comune non saranno interrotti e voi potrete lavorare fino alla naturale scadenza ma, attenzione, niente più proroghe, non le consentirò. Da adesso si fanno le gare. Buon anno a tutti voi».
Si andava avanti così: proroghe su proroghe di contratti scaduti da anni. Me ne ero reso subito conto leggendo l’ordinanza di custodia cautelare per Mafia Capitale. Già alla mia prima riunione di giunta avevo detto chiaro e tondo che era ora di finirla, che le proroghe non si potevano fare, che bisognava fare le gare.
Forse proprio per questo mi avevano invitato a quella riunione in Sala dell’arazzo con Francesca Danese, che oltre alla rogna delle Politiche sociali si era caricata sulle spalle anche quella delle Politiche abitative.
I nodi erano arrivati al pettine: il 31 dicembre scadevano parecchi contratti di affitto dei residence. Le uniche alternative possibili a quel punto erano di prorogare quei contratti o lasciarli decadere e buttare fuori casa un migliaio di famiglie, già il 1° gennaio 2015. Mi sembrava di impazzire. A rigor di legge non puoi prorogare un contratto pubblico senza gara e in più ci sono due delibere di giunta che dicono che proprio quei contratti non devono essere rinnovati e che i residence devono essere chiusi.
Io dovrei fare la parte di Creonte in quella riunione con il dipartimento. Dovrei essere il garante del diritto positivo, affermare la supremazia della legge: «Niente proroghe senza gara e i Caat devono essere chiusi», ma è inevitabile passare dalla parte di Antigone e sostenere la superiorità del diritto naturale, non scritto e non pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale», insomma di quel diritto morale e superiore a qualunque norma degli uomini che non ti consente di lasciare senza un tetto mille famiglie e buttare bambini e anziani in mezzo a una strada. Avevo conosciuto l’insonnia del giudice e ora mi toccava confrontarmi pure con quella del politico.
«Ma questo significa che in un anno e tre mesi non avete fatto una beata minchia.» Per la rabbia non posso proprio trattenere la parolaccia quando mi rivolgo a Luigi Ciminelli, da qualche settimana capo del dipartimento delle Politiche abitative. «Almeno i servizi di assistenza alloggiativa li avete progettati, avete predisposto i bandi di gara?» Balbettano e farfugliano qualche giustificazione, che ci stavano lavorando, che erano quasi pronti, ma quando chiedo di illustrarmi come avevano pensato di superare i Caat mi rendo conto che, in realtà, non avevano fatto nulla, anzi avevano preso a modello proprio un paio di residence gestiti meglio degli altri da Buzzi: in concreto, alloggi dove il portiere dà anche qualche informazione di orientamento e supporto, ma niente di più. In pratica si fotografava l’esistente e si cambiava solo il nome da Caat a Saat. Confesso di aver pensato in quel momento che i dirigenti del dipartimento fossero tutti a libro paga di Buzzi e Carminati: la, peraltro ipotetica, gara sembrava proprio cucita su misura per la 29 giugno e le altre coop della galassia finita dentro Mafia Capitale. Ho addirittura pensato che la gara fosse pronta ma che, dopo gli arresti, si fossero guardati bene dal pubblicarla.
In realtà mi sbagliavo, ma quell’inerzia, determinata principalmente dalla oggettiva incapacità dell’amministrazione capitolina di mutare mentalità e governare i cambiamenti, non poteva che portare all’ennesima proroga di quei costosissimi contratti di affitto. Nella giunta dell’indomani naturalmente votai a favore della delibera che prorogava di altri sei mesi quei maledetti residence: ha vinto Antigone, come era giusto che fosse, e io cominciavo la mia avventura in Campidoglio con una cocente sconfitta perché, con l’eroina di Sofocle, avevano anche vinto gli affaristi e gli sfruttatori di quel business del dolore che continuavano a sguazzare nelle acque torbide che avevano favorito, inevitabilmente, la nascita e lo sviluppo di Mafia Capitale.
Avevo, però, avuto modo di cominciare a conoscere la passione e la competenza di Francesca Danese, una che ci stava mettendo l’anima in quell’area del disagio sociale che conosceva benissimo e a cui aveva dedicato l’intera esistenza. Alla sua festa di compleanno, celebrata quando la nostra esperienza amministrativa si era ormai conclusa, c’era tutto il suo mondo: lavoratori precari e svantaggiati, volontari e operatori del sociale, poveri disgraziati senza casa, portatori di sindrome di Down, perfino uno straordinario complesso musicale formato da diversamente abili e non vedenti. Una festa bellissima, umile e commovente, che mi ha fatto capire quanto fosse delicato il compito di chi è chiamato a gestire e governare il Welfare, e come una parola in più o in meno in un provvedimento legislativo o amministrativo possa cambiare, e per sempre, la vita di tanti esseri umani.
Francesca, mentre i suoi uffici lavorano finalmente alla predisposizione della gara sul Saat, decide di sfruttare quei sei mesi di tempo per puntare decisamente sul buono casa. I soldi in bilancio ci sono e con il buono casa invece di pagare migliaia di euro al mese per l’affitto di un buco a Tor Tre Teste (come nel caso del palazzo della Ten Immobiliare, una delle società riconducibili alla famiglia del capitano della Roma Francesco Totti, amico di Luca Odevaine), il Comune ne avrebbe dati fino a ottocento direttamente alle famiglie oltre a un contributo iniziale di ben cinquemila euro.
Può essere una svolta epocale. Con quella cifra mensile assicurata sfollati e sfrattati per morosità incolpevole avrebbero potuto finalmente cercare e trovare una locazione più dignitosa dei residence. Il vantaggio economico è evidente: a regime i quarantuno milioni di euro che nel 2014 erano serviti per ospitare millesettecento nuclei familiari, tradotti in buoni casa, avrebbero potuto soddisfarne le esigenze di ben più di quattromila. Ma non solo di questo si tratta, buono casa significa soprattutto eliminazione definitiva dei ghetti e naturale avvio di un processo di reale integrazione spostando quelle famiglie in condomini e contesti sociali assolutam...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Introduzione
  6. 1. Il business del dolore
  7. 2. Con disciplina ed onore
  8. 3. Mare nostrum
  9. 4. Roma è al verde
  10. 5. Alluvionati dentro
  11. Conclusioni