1
Se lei l’avesse visto, se la donnina che scivolava distratta per via della Moscova l’avesse scorto mentre ricalpestava le sue orme come un segugio affamato, con una mano chiusa a pugno nella fodera del giaccone stretto intorno a chissà cosa, il suo destino avrebbe preso un’altra piega. Le sarebbe bastata un’occhiata, la semplice percezione di quell’uomo nel suo campo visivo, come una mosca in un bicchiere di latte, e forse, in un certo senso, si sarebbe salvata. L’avrebbe notato, come lo notavano adesso tutti gli altri registrandone la bizzarria – giaccone chiuso fin quasi al collo e berretto calato sulla fronte, con trenta gradi all’ombra e un’umidità da bagno turco – per poi tirare dritto. In lei, però, nella testa della donna, sarebbe scattato un allarme. Avrebbe capito di essere una preda. E il cacciatore, molto probabilmente, avrebbe fallito.
Per ora sudava come un condannato, con la maglietta che gli si appiccicava addosso e le prime chiazze che già affioravano sul giubbino come muffa sull’intonaco. I tacchi della donna picchiettavano sul marciapiede con la cadenza di un cuore accelerato, e gli sembrava di riuscire a isolarli, in mezzo al frastuono del tardo mattino, di silenziare tutto il brusio così che dal suono pastoso filtrasse soltanto quel tac, tac, tac. Poteva anche sentirne l’odore, o almeno così credeva: un lieve profumo di miele e cannella che lasciava una scia indelebile, come un tracciato fra lui e lei, un solco argenteo che s’insinuava strisciando fra i piedi noncuranti della gente.
Sarebbe stato un incontro galante. Molto, molto galante.
Strinse la presa intorno al regalo, sotto il giaccone. Si ferì un dito. Dal polpastrello dell’anulare sbucò una piccola sfera scarlatta, che in un attimo divenne goccia e iniziò a scendergli sull’avambraccio senza che lui se ne accorgesse.
La donna si girò di scatto, richiamata da qualcosa. Un presentimento, forse. Per mezzo secondo ebbe la possibilità di scorgerlo, e di salvarsi. I suoi occhi chiari, tagliati stretti, incisi sulla buccia di una pesca matura come sul volto di una splendida geisha, percorsero una curva che toccò il punto in cui si trovava l’uomo un attimo prima che quello scomparisse dietro la colonna di un porticato. Ricominciò a camminare, la sua gonnella a svolazzare, diretta verso casa.
Lui fece lo stesso, pregando che non durasse ancora tanto, perché ormai i vestiti gli si incollavano al corpo come stracci inzuppati nel brodo. Si schiacciò il cappello sulla testa, calando un po’ la visiera, con la sua preda che lo staccava di trenta metri.
Quando lei rallentò, sfilando dalla borsa il cellulare che squillava, l’uomo preferì attraversare la strada piuttosto che fermarsi attirando di nuovo l’attenzione. Certe vie milanesi, in certi orari, sono come degli scivoli. Non ti ci puoi fermare neppure per un momento. Se lo fai, anche solo per allacciarti le scarpe, ti ritrovi su un palco, protagonista di uno spettacolo improvvisato. La gente ti scruta, si chiede perché. Il tuo diventa un atto di ribellione, e come una ribellione desta clamore.
Così adattò i passi a quelli della donna, che discuteva agitando una mano mentre con l’altra teneva il telefono incollato all’orecchio. Sembrava arrabbiata. Poco ma sicuro, stava parlando col marito. Nessun problema, pensò lui. Se tutto fosse andato secondo i suoi piani, non lo avrebbe mai più rivisto.
La donna svoltò in una traversa, chiuse stizzita la conversazione e ricacciò malamente il cellulare nella borsa, da cui estrasse un mazzo di chiavi. Infilò la chiave in un portone di ferro coi vetri spessi e la fece girare. L’uomo bruciò la strada in quattro ampie falcate; ora soltanto una decina di metri lo separava da lei.
Lei entrò nel palazzo, lasciandosi dietro il portone che pigramente, rallentato dal meccanismo di chiusura, cominciò a stringersi poco alla volta. Non poteva sapere, la preda, che mentre lei prendeva il corridoio a destra, verso l’ascensore, il suo inseguitore allungava un braccio per infilarsi in quei venti centimetri di portone aperto, un attimo prima che battesse sullo stipite col solito clang. Voltata a guardare la pulsantiera dell’ascensore, non poteva neanche accorgersi che, mentre l’ascensore scendeva lento, in un ronzio di funi e carrucole, l’uomo imboccava l’altro corridoio e divorava le scale a quattro gradini alla volta, come un indemoniato, per anticiparla.
Quando la luce del terzo piano diventò rossa e le porte dell’ascensore si spalancarono come le quinte di un teatro di posa, ciò che la accolse sullo zerbino di casa le fece schizzare il cuore in gola. Un mazzo di rose bianche come la neve d’alta montagna, coi petali orlati di una brina celeste, come fresca rugiada.
S’inginocchiò, lo raccolse, aprì il biglietto: “Trenta rose per un tuo sorriso. Per il tuo cuore, il mondo intero”.
La bocca le si distese in un’espressione beata. Gli occhi, prima tristi e sottili come semi di sesamo, le si velarono di uno stupore candido. Si sentì amata. Corteggiata. Importante.
Se avesse osservato per bene il gambo più esterno, dove, per errore del fioraio, era rimasta un’unica spina appuntita, avrebbe scorto una macchiolina rossa. Il rosso del sangue di quel disgraziato che adesso, in un gesto liberatorio, si sbottonava il giaccone sgattaiolando, zuppo di sudore, per le strade affollate della città distratta.
2
«Riesce a parlare?» domandò il maresciallo dei carabinieri al mucchio di bende arrotolate che giaceva nel letto sfatto.
«Forse sarebbe meglio…» tentò il primario alle sue spalle.
«Riesco» sibilò il mucchio di bende.
Il maresciallo si voltò verso il medico, che alzò le mani in un gesto di resa. «Prendiamogli un po’ d’acqua» disse al brigadiere alla sua sinistra. «Magari con un po’ d’acqua è meglio. Si schiarisce la gola, si rinfresca… no?» cercò conferma negli occhi del primario, che rimase impassibile. Il maresciallo osservò meglio la mummia sul letto, avvicinò il volto a quello che pareva un pallone di stracci bianchi, pezzato di rosso qua e là e messo sul cuscino pronto per essere calciato. «Ma riesce a bere?» domandò quasi sussurrando.
«Riesco» sibilò ancora il mucchio di bende.
«Se ha detto che riesce…» arrivò dall’altro lato della stanza.
Il carabiniere si girò di scatto e fulminò con gli occhi una tizia panciuta e riccia come un’insalata.
«Ma proprio qui dobbiamo farlo?» chiese al primario. «Possibile che non c’è un altro posto, un’altra stanza? E poi…» accennò con la testa all’altra paziente, «quella lì… È normale?»
«In che senso, scusi?»
«È una donna. Di solito si tengono i maschi coi maschi e le femmine…»
«Non la possiamo trasferire.»
«Ah.»
«È amica della caposala.»
«Ah. E a noi che ce ne frega?»
«Maresciallo, lei non sa quello che dice. Ognuno fa il suo lavoro, lei fa il…»
«E il signore qui, allora? Trasferiamo lui.»
«E dove vuole che lo portiamo? Muoversi, non può muoversi. Le altre stanze sono tutte piene. O aspetta che si riprenda, oppure che le devo dire…»
Il maresciallo scosse la testa. Non poteva aspettare che si riprendesse, che fosse di nuovo in grado di camminare. Ammesso che lo sarebbe stato, fra l’altro. Afferrò una sedia da un angolo della camera e la trascinò davanti al letto con un frastuono insopportabile. «Bene.» Si tolse il cappello e lo poggiò sul comodino, quindi si sedette. Prese la penna dal taschino, ma poi ricordò che il blocco coi fogli su cui stendere i verbali ce l’aveva il brigadiere mandato a prendere l’acqua. «Bene» ripeté guardando la mummia, che non ravvisando nulla di bene in ciò che era accaduto e stava accadendo, non ritenne di dover annuire.
«Vuole che io resti o posso andare?» domandò il primario alle sue spalle.
Il carabiniere, come destandosi da un sogno, senza voltarsi alzò la mano destra. «Vada, vada. Grazie.»
Il medico uscì proprio mentre il brigadiere rientrava con un bicchiere colmo fino all’orlo. Si misero di taglio e passarono la soglia sfiorandosi. Il maresciallo prese il bicchiere e lo avvicinò al pallone di stracci, che aveva la testa poggiata su un unico cuscino, inclinata, ma non abbastanza da consentirgli di bere.
«C’è troppa acqua» disse il superiore, seccato, al suo sottoposto. «Dobbiamo toglierne un po’…»
Si guardarono, poi il maresciallo guardò la mummia: «Le fa schifo?» chiese, accostandosi il bicchiere alle labbra.
La mummia chiuse gli occhi.
Non riuscendo a interpretarla come una risposta univoca, il carabiniere bevve comunque. Attraverso il vetro del bicchiere, la grassona sull’altro letto sembrava perfino gradevole, in un gioco di rifrazioni che ne ingentiliva la figura. Finito di bere, di fronte all’evidenza, il carabiniere dovette pentirsi immediatamente per quei pensieri. Tornò con gli occhi all’ammalato, gli porse il bicchiere, ma lui alzò le dita di una mano per rifiutare.
«Ma come?» si stupì il carabiniere.
«Non ha mai detto di avere sete…» giunse dall’altro lato della sala. I due militari conversero sulla grassona, che sbuffò infastidita e si tirò il lenzuolo sulla faccia.
«Va’ a chiamare il primario» ordinò il maresciallo al suo brigadiere.
«No, no, sto zitta.»
«…»
«Sto zitta, sto zitta» li rassicurò da sotto il lenzuolo.
Il maresciallo ci rifletté un po’. Lanciò un ultimo sguardo di ammonimento al letto della donna, sicuro che lo stesse osservando attraverso la stoffa, poi tornò a concentrarsi sulla mummia. «Mi può declinare le sue generalità?»
Pur con la porta chiusa, dal corridoio arrivavano le voci e il calpestio dei parenti degli ammalati nell’orario di visita. Il sole calava addolcendo i colori, la luce tagliava il cielo in uno strano modo, come un coltello messo di piatto, per infilarsi dritta negli occhi. O forse era solo a causa dei vetri sporchi e della polvere sospesa in aria che la camera era invasa da un fulgore tenue, dolciastro e pungente.
La mummia si sistemò meglio sul letto spostando il bacino, sollevò entrambe le braccia scoprendo il sinistro ingessato di fresco e prese a tastarsi con cautela le bende sul volto, quasi a volersi sincerare che il nome che stava per pronunciare appartenesse ancora a lui.
«Signore» sussurrò di nuovo il maresciallo, «facciamo uno sforzo. Ci mettiamo poco.»
La mummia lasciò che le braccia calassero, stanche, sul letto.
«Mi può declinare le sue generalità?» ripeté il carabiniere.
L’uomo sospirò. Con gli occhi al soffitto e la voce rasposa disse: «Sciarrino Ivan, nato a Napoli il sette gennaio millenovecentosettantanove». Tossì e con l’indice della mano sinistra indicò il bicchiere sul comodino.
Il maresciallo glielo porse, ma poi ricordò che non era in grado di sollevare il busto, né la testa, quindi glielo accostò alle labbra e lo inclinò lentamente. Un po’ d’acqua si versò sul lenzuolo. «Tanto si asciuga» tentò di autoassolversi. La mummia chiuse ...