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Un rumore aveva svegliato Fiammetta Renzi poco dopo l’alba, così, invece di restare a letto, aveva deciso di vestirsi e uscire.
Si era diretta verso un giardinetto a metà strada tra casa e scuola. Aveva camminato per un po’ cercando di svuotare la testa dai pensieri ma era turbata. Non avrebbe saputo spiegare da cosa esattamente. Era uno di quei momenti in cui si credeva allo stesso tempo forte e insicura, e detestava questa sensazione che, alla fine, le lasciava addosso solo una profonda solitudine.
Abbandonò il vialetto tra le aiuole e posò un piede sul prato. Il contatto col manto erboso le procurò un immediato benessere. Girò la testa a destra, a sinistra; tese l’orecchio per sentire se qualcuno si stesse avvicinando e poi, sollevando di poco la gonna, allentò entrambe le giarrettiere. Si guardò di nuovo intorno e con un gesto veloce si sfilò le scarpe e le calze. La rugiada sui fili d’erba le bagnava la pelle e la frescura si irradiava lungo il corpo. Socchiuse gli occhi e sospirò godendosi la piccola gioia ma subito la sentì svanire. Strizzò le palpebre per non lasciarla scappare, come faceva con i sogni del mattino nel momento in cui stava per tornare cosciente, poi scosse la testa, l’abbassò e si fissò le dita bianche sul verde. Si rimise le calze e le scarpe e riprendendo il cammino si rassegnò al fatto che ci sono pensieri così riposti nei recessi della mente da non riuscire a dar loro un nome pur avvertendone il peso.
La signorina Renzi aveva appena finito di dettare il titolo del componimento e se ne stava seduta dietro la cattedra, col mento alto e la schiena tesa, come per puntare lo sguardo molto lontano da sé.
Da uno dei finestroni alla sua destra, entrava la luce di aprile. Si girò e, per quanto l’aula desse sul cortile interno della scuola, provò a immaginare di poter allargare la vista sui tetti di Firenze. Le parve addirittura di sentire una fragranza di fiori, avvertì il ronzio degli insetti e, forse, qualche verso lontano di uccelli. Pensò al bagliore dei palazzi riscaldati dal primo tepore, alle logge fiorite.
Amava il modo in cui la cupola di Santa Maria del Fiore sbocciava in quella stagione sull’azzurro vago del cielo, soprattutto al mattino, quando il sole non era ancora alto e l’umidità che saliva dall’Arno dava alla città un aspetto mollemente lattiginoso. Nei giorni di festa, Fiammetta si sedeva alla finestra, scostava la tendina e osservava il mutare dei colori quando piano piano, colpito dai raggi, il capolavoro di Brunelleschi diventava di un rosso matto che sembrava fatto apposta per aprirle il cuore. A volte restava così per ore, con la tazza del latte ormai freddo tra le mani, assaporando il gusto dolce di qualche fantasticheria. In quei momenti, non pensava ai bambini, ai loro progressi e agli insormontabili problemi che un compito poteva rappresentare per i meno diligenti. Ma i loro volti affioravano poi, facendosi spazio dentro un sogno qualsiasi, e si ritrovava spesso a considerare il fatto che i piccoli affidati alle sue cure erano comunque tra i fortunati non costretti a vivere nell’indigenza e nell’ignoranza, perché quello era ciò a cui i più erano destinati.
Sospirò, rilassò i muscoli e, col mento poggiato sul palmo della mano, rifletté che forse sarebbe dovuta tornare alla carica col preside. Se avesse insistito, sarebbe riuscita a ottenere il permesso di portare gli alunni in gita. Nulla di troppo ardito naturalmente, niente che avrebbe potuto irrigidire il coriaceo professor Rossetti, giusto una passeggiata sul Lungarno: un po’ d’aria avrebbe fatto bene a tutti. Sarebbe stata un’ottima occasione per una di quelle esercitazioni alle quali lei teneva tanto. “Osservo e scrivo” le aveva battezzate e pensava fossero utili per stimolare anche la fantasia dei più pigri. Le piaceva come i ragazzini architettavano storie mettendo insieme l’invenzione col vero. Stava infatti insegnando ai suoi dodici allievi a scrutare i volti dei passanti, a notare se fossero soli o in compagnia di qualcuno, ad analizzare il modo in cui vestivano, l’incedere distratto o quello di chi si guardava intorno o la maniera di chi andava serio, concentrato su un certo pensiero. Con quella manciata di elementi tra le mani, li spingeva ogni volta a trovare una storia che calzasse bene addosso agli sconosciuti. E un tipo grasso e severo diventava in un istante un medico burbero o un padre inflessibile, un garzoncello poteva essere un innamorato, una vecchia macilenta sarebbe divenuta una nonnina amorevole e di una donna giovane e sola gli allievi avrebbero deciso inevitabilmente si trattasse di una maestra. Erano così affascinati dalla loro insegnante e dal suo sorriso pieno di dentini piccoli e lucidi che, mentre si figuravano le mamme sempre in casa a cucire o preparare il pranzo o accudire i fratellini in fasce, le signorine sole e piuttosto carine per loro erano maestre come lei.
Non che le insegnanti della scuola fossero tutte garbate e amabili, anzi. La signorina Izzo, per esempio, era arrabbiata dal tempo in cui il fidanzato l’aveva abbandonata sull’altare, davanti ai parenti al gran completo arrivati da Livorno. L’episodio risaliva ormai a circa vent’anni prima, eppure lei, entrando in classe, metteva immancabilmente un bambino in castigo dietro la lavagna senza alcun motivo apparente. I piccoli erano terrorizzati. Su di lei, un occhio molto accorto avrebbe potuto scorgere ancora un brandello di femminilità, ma di sguardi attenti la zitella non ne incontrava più da tempo.
C’era anche la signora Algisa Bortolozzi, che insegnava in seconda A ed era molto temuta. Aveva un corpo grasso e informe avvolto da vecchie sottane sulle quali spiccava un crocefisso d’oro e aveva anche un brutto neo nero proprio sul mento, che pareva una mosca incollata su uno sbaffo di marmellata. Sulle mani dei bambini, senza alcuna remora, usava la bacchetta, la stessa che la signorina Fiammetta, quando doveva indicare qualcosa alla lavagna o sulla cartina geografica, chissà perché, non riusciva mai a trovare.
La maestra si scosse dai suoi pensieri e vide Italo Poggi, seduto al primo banco, intento a scrivere furiosamente, con le gote rosse e un pezzetto di lingua che per la concentrazione faceva capolino da un angolo della bocca. Notò poi che Berti si baloccava col foglio di carta senza convinzione e Guerrini, in terza fila, non stava scrivendo. Era immobile e fissava la punta ormai asciutta del pennino, come se aspettasse che le parole venissero fuori per magia dal mozzicone di metallo aguzzo.
Fiammetta Renzi si alzò senza far rumore per non distrarre i bambini e raggiunse il piccolo. Si chinò su di lui e sussurrò un incoraggiamento. Michelino alzò la testa, la vide sorridere e gli occhi gli si illuminarono. Fece un cenno convinto col capo e, mentre lei camminava tra le file con le braccia conserte, intinse il calamo nell’inchiostro per cominciare il componimento.
La donna percorse l’aula due volte prima di tornare a sedersi, quindi trasse dalla cartella un vecchio portadocumenti di cuoio su cui si intravedeva un’impressione in oro ormai scolorita del giglio di Firenze. Indossò l’occhialino di tartaruga che, alla maniera degli uomini, teneva sul petto infilato tra due bottoni del corsetto. Si era abituata a usarlo per la lettura, più per il gusto di stupire che per un reale bisogno: trovava le desse un’aria più adulta. Dunque fissò un cartoncino color avorio e lesse.
La conferenza del grande poeta era prevista per l’indomani e lei sentiva già una certa agitazione. Conosceva ogni verso di Valastro, molti li aveva imparati a memoria e l’idea di sentirlo parlare, di vederlo di persona la eccitava. Uno scrittore sconveniente, senza dubbio, pensò ridendo tra sé e riflettendo sul fatto che forse il suo interesse per lui sarebbe potuto risultare poco opportuno agli occhi di una donna severa e religiosa come la Bortolozzi. E di sicuro anche a quelli del preside, che avrebbe condannato seccamente quelle frequentazioni letterarie da parte di una signorina, concluse con una certa soddisfazione.
Di tanto in tanto, la Renzi amava stupire con atteggiamenti poco convenzionali, mai disdicevoli però inusuali per una giovane a modo. Non voleva necessariamente apparire controcorrente ma apparteneva a quella ristretta schiera di sue simili che non si accontentano di quanto il destino ha riservato loro, che non hanno come unico scopo nella vita il trovar marito e diventare madri, che non fanno nulla per compiacere l’altro sesso senza motivo e dunque finiscono col condurre alcune piccole battaglie, spesso silenziose, per affermare un’indipendenza considerata da molti eccessiva. Il mondo, pensava Fiammetta, stava cambiando. E molto in fretta, si diceva, perché anche se in Italia i movimenti delle donne erano pochi e disgregati, dall’Inghilterra giungeva notizia di una vera e propria organizzazione attivista femminile sempre più forte. Erano passati quattro anni da quando il globo aerostatico si era alzato sul cielo di Firenze con a bordo l’aeronauta Emile Julhes, e prima o poi l’uomo sarebbe stato capace di andare dappertutto, pensava lei, forse persino sulla luna! E quel giorno pure le donne sarebbero salite su moderne macchine volanti, le avrebbero addirittura guidate e avrebbero ottenuto un posto nella storia. Occorreva essere pronte perché la vita, ne era convinta, si preparava a offrire anche a loro nuove possibilità.
Quando al suono della campanella gli allievi le sfilarono davanti, lasciando sulla cattedra i componimenti e indirizzandole saluti educati e un po’ timorosi per l’esito della prova appena svolta, lei rimase ancora seduta qualche minuto prima di sistemarli nella cartella.
Osservò i fogli. Poggi aveva riempito ben tre facciate con una scrittura fitta fitta, precisa e minuta. Sul compito di Landi come sempre c’erano patacche d’inchiostro e sbavature d’ogni genere, mentre Berti sembrava si fosse dato parecchio da fare per riuscire ad arrivare a metà della prima pagina. Innocenti era di nuovo assente e la Renzi pensò che avrebbe dovuto trovare il modo per parlare col padre: ogni volta che il bambino rientrava in aula con la testa bassa e qualche livido sul viso, lei chiedeva spiegazioni e il piccolo rispondeva sempre di essere caduto dalle scale. A quelle scuse, Fiammetta non aveva mai creduto.
Mise con cura i compiti uno sull’altro provando una certa tenerezza, li posò nella cartella e la richiuse. Si alzò per indossare la mantella grigia che aveva poggiato sulla spalliera della sedia, quando sentì un timido picchiare alla porta.
Il maestro Stefano Pucci se ne stava sulla soglia, un po’ pallido e quasi spaesato.
«Entrate, maestro, vi prego» lo invitò con un sorriso dolce.
«Non vorrei trattenervi, stavate per andare» disse Pucci con la voce resa stridula dall’emozione, mentre le orecchie cominciavano a diventargli vistosamente rosse.
Fiammetta indossò la mantella e raggiunse la porta.
«Usciamo insieme, dunque, mi direte lungo la strada» rispose sistemandosi il nastro sotto un modesto cappellino fuori moda da diverse stagioni.
Stefano Pucci veniva dalla provincia e la vita di città, sebbene fossero trascorsi cinque anni dal suo arrivo a Firenze, lo frastornava ancora. Ogni cosa lo faceva sentire inadeguato. Per questo cercava di non dare nell’occhio. Ma con le sue cravatte démodé, i calzoni un po’ corti e le giacche troppo scure, finiva per essere notato ancora di più. Era un uomo colto, un buon insegnante e un fine latinista ma la sua pelle chiara, i ciuffetti biondi che si gonfiavano sopra le orecchie, i piccoli occhiali tondi, che puliva di continuo con un fazzoletto bianco sempre pronto nella tasca della giacca, non facevano di lui un uomo attraente. La signorina Renzi lo stimava come insegnante: era severo ma giusto, non impartiva punizioni immotivate e non picchiava gli allievi. Avrebbe addirittura potuto considerarlo gradevole se solo, dopo ogni conversazione, non fosse tornata a casa con la spiacevole sensazione che il maestro nutrisse nei suoi confronti un interesse particolare. Quel tipo di attenzioni però, almeno per ora, lei era certa di non poterle ricambiare e per questo si premurava sempre di trovare scuse credibili ai suoi inviti impacciati per una passeggiata domenicale, per un concerto o per andare a prendere una cioccolata in centro. Poi, quando le loro discussioni minacciavano di avvicinarsi al campo delle confidenze, lei riusciva ad astenersi dalle risposte. Non desiderava in alcun modo trovarsi nell’imbarazzo di dover rifiutare un’eventuale proposta di Pucci, ammesso che lui avesse mai trovato il coraggio per dichiararsi.
Attraversarono in silenzio i corridoi già vuoti e, scendendo i gradini d’ingresso della scuola, lei si fermò un attimo, fissandolo.
«Eravate venuto per chiedermi qualcosa?» provò a dire col tono più amichevole ma nello stesso tempo distaccato che le riuscì.
«Immagino» esordì lui «che abbiate saputo della conferenza del Valastro.»
La frase gli era venuta fuori in maniera buffa, era cominciata imperiosa e assertiva e si era spenta lentamente, restando quasi sospesa. Pucci se ne sentì molto insoddisfatto. E dire che l’aveva pensata, provata e riprovata più volte.
Il viso della signorina Renzi si aprì a un nuovo sorriso.
«Certamente, e non mancherò in nessun caso» rispose riprendendo a scendere i gradini.
«Pensavo che potremmo…» fece lui fermandosi subito dopo per controllare il tono delle parole.
«Non credo proprio» lo anticipò scuotendo la testa.
«… andare insieme» concluse sconfitto e con poco fiato, mentre le guance cominciavano ad assumere un imbarazzante colore rosso.
«Per l’appunto. Ma purtroppo quel giorno ho programmato una visita a una vecchia amica e nulla esclude, maestro, che lei voglia seguirmi alla conferenza» improvvisò ad arte compiacendosi della destrezza con la quale aveva trovato una ragione di rifiuto che non suonasse offensiva.
«Capisco» disse l’altro superando il cancello della scuola.
Fiammetta si sentì in colpa.
«Ma non mancheranno certo occasioni future per passare del tempo insieme, non pensate?» aggiunse pentendosi subito dell’affermazione.
Il maestro si accese di moderata aspettativa e la salutò con un cenno del cappello, imboccando la via che si apriva davanti alla scuola.
Era da tempo che Fiammetta riempiva quaderni su quaderni di poesiole garbate, versi ben quadrati, sonetti per lo più. Ammirava oltremodo il poeta ed era certa che, se mai avesse trovato il coraggio per far leggere a qualcuno le sue poesie, quello sarebbe stato certamente Mario Valastro. Riteneva il suo arrivo un segno e non voleva rovinarsi la giornata con la compagnia del collega.
Il discusso artista arrivava niente meno che dalla Sicilia. Aveva studiato presso un istituto religioso e, mente acuta e polemica, aveva sviluppato nei confronti dell’istituzione religiosa un sentimento di decisa intolleranza. Infatti, dopo le prime e meno note prove con odi a carattere sacro, delle quali non amava parlare, aveva pubblicato un poemetto amoroso e, subito dopo, una serie di canti dedicati a Catania, sua città natale, in cui emergeva una chiara denuncia della società borghese.
La fama nazionale però era arrivata da pochi anni. Alla soglia dei quaranta, infatti, Mario Valastro aveva dato alle stampe, per la Libreria Editrice Brigola di Milano, un poema ispirato alla figura di Satana. La veemenza con cui aveva rappresentato il demonio e gli assunti a tratti blasfemi che gli aveva messo in bocca avevano acceso una polemica nel mondo culturale e Valastro si trovava spesso invitato a tenere lezioni, prolusioni e conferenze nei più importanti centri culturali della penisola. Quindi erano venuti alla luce anche altri suoi scritti. Un carme su Lesbia, ad esempio, così carico di sensualità che se ne sconsigliava la lettura alle donne. O ancora quello su Paolo e Francesca, in cui il realismo nella descrizione dell’amplesso dei due amanti aveva fatto arrossire più d’una lettrice. E la signorina Renzi naturalmente aveva consumato con avidità ogni sua riga.
Fiammetta procedeva verso casa chiedendosi cosa avrebbe pensato dei suoi versi un uomo dotato di tale potenza evocativa. A volte si scopriva timorosa ma era certa che per arrivare da qualche parte occorresse puntare in alto. E in quel momento Mario Valastro sembrava essere nel suo periodo migliore.
A che sarebbe servito affidare le poesiole a uno stampatore locale, si chiese, senza che un maestro degno di questo nome le avesse prima indicato i punti deboli e l’avesse consigliata al meglio? Alla signorina Renzi serviva una guida e lei aveva scelto il siciliano.
Fiammetta era talmente immersa nei suoi pensieri che persino Firenze intorno a lei scolorì. Non badò all’Arno, che scorreva benevolo alla sua sinistra gorgogliando in mulinelli o piegando i giunchi sugli argini, non fece caso ai passanti, non sentì né il tintinnio di finimenti che producevano le carrozze passandole accanto né il canto di un carrettiere che avanzava sull’acciottolato col cavallo al passo, intonando una quartina piena di uccelli senza penne e giovanotti senza dama. Non notò che un vento profumato si era alzato dalle campagne e investiva la città con un aroma di albicocco in fiore e di bella stagione. Affrettò il passo verso casa e decise che avrebbe dedicato il pomeriggio alla trascrizione di alcuni sonetti ritenuti da lei i migliori. Avrebbe tenuto fuori quelli che alla prima rilettura aveva trovato troppo romantici, poi li avrebbe copiati con la sua bella grafia sui fogli puliti acquistati giusto la settimana prima dal signor Conti, il cartolaio che ogni mattina la salutava con un inchino vedendola passare. Il corsivo non doveva essere troppo lezioso – un poeta di tale forza non avrebbe certament...