1
Potevi passeggiare per il nostro quartiere senza nemmeno accorgerti che esisteva. Un alto muro merlato in terra battuta lo separa dal boulevard dove un flusso ininterrotto di macchine fa un rumore infernale. In quel muro avevamo scavato fessure simili a feritoie dalle quali potevamo contemplare a piacere l’altro mondo. Il nostro gioco preferito, quando ero bambino, consisteva nel versare ciotole di piscio sui ricchi e restare in silenzio mentre quelli, guardando il cielo, imprecavano e lanciavano insulti. Mio fratello Hamid era il nostro capo. Raramente mancava il bersaglio. Lo guardavamo in azione trattenendo le risate che esplodevano irrefrenabili subito dopo la doccia dorata. Esultavamo rotolandoci come cuccioli nella polvere. Dal giorno in cui un sasso lanciato da una vittima furibonda mi ha colpito in testa, non sono stato più lo stesso. Almeno è quel che pensa chi mi sta vicino e quel che non hanno smesso di ripetermi fin da piccolo. Ho finito per accettarlo e, alla lunga, ci ho preso gusto. A causa di questo handicap ogni mia bravata o scappatella mi veniva per metà perdonata. Eppure, non sono più stupido degli altri.
A calcio, tutti possono confermarlo, sono il miglior portiere del quartiere. Il mio idolo si chiamava Yashin. L’illustre Yashin. Non l’ho mai visto in azione, ma si raccontano tante storie sul suo conto... Dicono che fosse capace di bloccare un pallone sparato da un cannone Krupp e che il suo corpo sfuggiva alla legge di gravità . Quanto alla sua morte prematura, sarebbe stata provocata dagli attaccanti internazionali umiliati dal suo talento. Comunque sia, volevo essere Yashin o niente. Così, ho cambiato nome per adottare il suo. Yemma non ne era affatto felice, ma siccome mi rifiutavo di rispondere al nome per il quale un agnello era stato sacrificato davanti alla nostra baracca, si era rassegnata a chiamarmi come gli altri. Solo mio padre, che è sempre stato vecchio e testardo, insisteva nel suo appellativo arcaico: Moh. Con un nome simile, non si va molto lontano. Del resto non l’ho trascinata a lungo la vita, perché non c’era granché da fare. E ci tengo a dirlo: non rimpiango che sia finita. Non ho la minima nostalgia di quei diciott’anni e rotti di miseria che mi è stato concesso di vivere. Anche se all’inizio, subito dopo la mia morte, non era stato facile rinunciare a una di quelle gallette di burro fermentato che preparava mia madre, ai dolci al miele o al caffè alle spezie. Tuttavia, questi bisogni terreni si sono a poco a poco dissolti, e anche il loro ricordo, consumato dalla mia nuova condizione di spettro, ha finito per svanire. Se ancora mi capita, in certi momenti di debolezza, di pensare alle carezze di Yemma quando mi frugava nei capelli per ammazzare i pidocchi, mi dico: «Andiamo, Yashin, la tua testa si è frantumata in mille pezzi. Dove vuoi che si annidino i pidocchi se non hai neanche più i capelli?». Insomma, sono contento di stare lontano dai tetti di lamiera ondulata, dal freddo, dalle fogne sventrate e da tutti i miasmi che hanno abitato la mia infanzia. Non vi descriverò il luogo dove mi trovo attualmente perché lo ignoro io stesso. Tutto quel che posso dire, è che sono ridotto a un’entità che, per adottare la lingua di laggiù, chiamerò coscienza; cioè il calmo risultato di una miriade di pensieri lucidi. Non quelli, oscuri e miseri, che hanno costellato la mia breve esistenza, ma pensieri dalle sfaccettature infinite, iridati, a volte accecanti.
2
Molto tempo prima della democratizzazione delle antenne paraboliche, fiorivano sui tetti della nostra città ingegnosi marchingegni fatti con le pentole per il cuscus che permettevano la ricezione dei canali stranieri. In realtà le immagini erano sfocate, quasi criptate, ma le sagome si indovinavano lo stesso e il suono era più o meno a posto. Per il calcio seguivamo in particolare i canali spagnoli e portoghesi, quelli tedeschi per i porno (e la cattiva qualità dell’immagine aveva il merito di trasformare la bestialità in erotismo), e infine i canali arabi per la nostra dose quotidiana di conflitto israelo-palestinese e misfatti dell’Occidente cannibale. Poiché la televisione a colori restava inaccessibile alla maggior parte dei sudditi di Sua Maestà , disponevamo di una pellicola di plastica colorata che si applicava allo schermo: tre strisce orizzontali, azzurro-blu per la parte superiore, che evocava poeticamente il cielo, giallo pallido al centro, verde prato per la parte inferiore. Per farla breve avevamo diritto a barlumi di immagini sotto una plastica variopinta, spesso rigata e sporca. Inoltre, a causa della sordità di mio padre, alzavamo il volume così tanto che, per non confonderci, eravamo costretti a vedere lo stesso canale dei vicini. E malgrado ciò, ci riunivamo tutte le sere, grandi e piccini, attorno a quella lanterna magica aperta senza vergogna sulle meraviglie del mondo.
Se fosse mai esistito un libro dei record a Casablanca, Yemma si sarebbe piazzata bene: quattordici gravidanze in quattordici anni! Chi poteva batterla? E undici erano sopravvissuti. Tutti maschi. Se i gemelli non fossero stati falciati dalla meningite all’età di tre anni, avremmo potuto formare noi soli una squadra di calcio, orgoglio della città . Le Stelle di Sidi Moumen. Di certo avremmo fatto tremare tutte le baraccopoli dei dintorni. E Yashin, vostro umile servitore, portiere titolare, ne sarebbe stato il bastione invalicabile. Saremmo stati così famosi che persino gli abitanti dei quartieri alti avrebbero trovato il coraggio di scavalcare la muraglia per venirci ad applaudire. Chissà , la discarica pubblica sarebbe forse diventata un campo da calcio. Non dico erboso come gli stadi delle grandi squadre; ma se non altro uno spazio vuoto, sgombro dalle immonde colline di detriti. E tanto peggio per chi, con quell’immondizia, si guadagna da vivere. Andassero a rovistare altrove. Non mancano certo le discariche. Detto ciò, hai voglia a essere poveri, Yemma ci vietava di lavorare alla discarica. Nessuna possibilità di sfuggire alla seduta di annuso quando si rientrava a casa la sera. E guai a chi puzzava d’immondizia! Mia madre si era fatta un terribile frustino che teneva appeso all’entrata. E portarsi qualcosa a casa? Nemmeno per sogno, Yemma si divertiva a distruggere l’oggetto all’istante. Eppure se ne trovavano di cose alla discarica. Hamid era il solo a sfidare mia madre. Incapace di fare a meno dell’hashish, si era rassegnato a pagarne quotidianamente il prezzo. E, benché avesse cura di lavarsi da cima a fondo alla fontana pubblica, continuava a puzzare. Yemma poteva anche pestarlo, non sarebbe cambiato niente. Aveva bisogno della sua dose di hashish, tabacco biondo e cartine. Di quanti frugavano nella discarica, posso dirlo senza presunzione, mio fratello Hamid era il più dotato. Aveva una specie di sesto senso per scovare la perla rara. Il suo fiuto animalesco, accompagnato a un’intelligenza vivace, lo rendeva di gran lunga il migliore. Sapeva con esattezza da quale quartiere provenivano i camion di rifiuti. Non lesinava regali agli autisti che fornivano informazioni. Così, piuttosto che cercare alla cieca come la maggior parte delle persone, la sua indagine era mirata. A dodici anni aveva già ingaggiato un ragazzino per aggiustare e pulire il suo bottino, e un altro per rivenderlo al mercato delle pulci al prezzo che fissava in anticipo. Mi affascinava, mio fratello Hamid. Mi proteggeva, mi viziava, e diventava violento se qualcuno se la prendeva con me. Una sera, lo ricordo come fosse ieri, ammazzò di botte un vicino che mi aveva trascinato lontano, dietro la discarica, dalle parti delle fogne. Eppure stavamo solo giocando a imitare gli eroi dei film di Bollywood. Morad si divertiva a mordicchiarmi le orecchie bisbigliando parole strane. La sua lingua rasposa mi dava i brividi. Mi aveva fatto prigioniero bloccandomi le braccia a terra. I suoi capelli ricci profumavano d’olio d’oliva. Ne avevano anche il sapore, ne avevo la bocca piena. Ridevo tanto per il solletico di Morad che non sentii i passi di Hamid che era apparso come un fantasma. Ma invece di gettarsi nella mischia, rimase in piedi, rigido come un palo. Non notai la pietra che teneva in mano perché la notte era nera. Quando Morad gridò, pensai stesse ancora cantando. Non so perché Hamid l’abbia colpito tanto forte alla testa. Il sangue gli colava abbondante sul viso e ho avuto così tanta paura che volevo urlare. Ma non ci riuscivo. Le mie grida restavano mute, risucchiate nello stomaco. Inutile spalancare la bocca, non ne usciva nulla. Inebetito, guardavo mio fratello che stringeva i pugni e tremava. Sapevo che non mi avrebbe risparmiato. Coi suoi temibili stivali con i ramponi, recuperati alla discarica, mi piantò un calcio nel sedere dandomi del frocio e altri insulti che non oso ripetere. Stavamo solo giocando, gli dicevo, non facevamo male a nessuno. Ma lui era folle di rabbia. Nell’oscurità la sua collera sembrava uno squadrone di diavoli che brandivano le forche, pronti a trafiggermi. Sì, a volte mio fratello poteva essere ingiusto. E tuttavia, mi amava. Avrebbe fatto qualunque cosa per me. Gliene ho voluto per Morad, ma tutto questo appartiene al passato. Da allora, non mi sono mai più avvicinato alle fogne. Non potevo più frequentare Morad perché non era sopravvissuto alle botte di mio fratello. L’avevamo sotterrato nella discarica. Hamid ne conosceva ogni anfratto. Nessuno frugava più da quel lato. Era la vecchia immondizia, mille volte passata al setaccio della miseria. Io mi rifiutavo di credere che il mio amico fosse morto. E poi, ho finito per dimenticarlo. Insomma, non proprio. Le rare volte che incassavo un gol quando facevamo una partita e andavo a recuperare il pallone, non potevo fare a meno di dare un’occhiata al luogo esatto dove il mio amico si stava decomponendo. Una sera, ho preso coraggio e sono andato a vedere se fosse sempre là . Avvicinandomi alla collinetta contrassegnata dalla carcassa bianca di un cane smembrato dalla canicola, rimestai con un bastone il sudiciume sotto cui l’avevamo sepolto. Forse Morad era sopravvissuto ai colpi di mio fratello. Forse aveva fatto il morto sperando che Hamid smettesse di picchiarlo e si era alzato appena ce ne eravamo andati per fuggire dalla bidonville. Forse era scomparso unicamente per spaventarci e punirci. Allora ho scavato prima con il bastone, poi con le mani, che era più comodo. L’odore naturale della discarica copriva quello della carogna. Quando ho visto un dito spuntare dal fango tra due scatole di conserva, me la sono data a gambe levate, senza voltarmi perché avevo la sensazione che lo spettro di Morad mi stesse inseguendo. Mi sono fermato soltanto quando sono arrivato al negozio di Omar, il carbonaio. Una lampada a petrolio formava un’aureola dove erano accucciati gli ex soldati per giocare a dama. Avevo il cuore in gola e tremavo tutto. Al solo pensiero, se ne avessi ancora una, mi verrebbe la pelle d’oca. Da allora decisi di fare come tutti: credere che Morad fosse scappato dal nostro quartiere per provare a cavarsela in città , come tanti ragazzi della sua età . E che sarebbe tornato un giorno con le tasche così piene che i genitori avrebbero dimenticato presto la sua fuga, incoraggiandolo addirittura a ripartire e continuare a cavarsela da solo. Ora che sono distante, da quassù non ce l’ho più con mio fratello Hamid. Mi dico che, in qualche modo, ha fatto un favore a Morad, così come Abou Zoubeïr l’ha fatto a me; con la differenza che lui non mi ha picchiato con un sasso. Le sue armi erano ben più terribili. Ma di questo parleremo dopo. Perché Abou Zoubeïr, lui sì, è ancora vivo, e se ne sta sempre in un garage con altri morti di fame come me.
3
Coi suoi capelli castani e i suoi occhi chiari, Nabil sarebbe dovuto nascere altrove. Assomigliava così poco a noi. Libero dai suoi stracci, nei giorni di festa, avresti giurato che veniva da un altro mondo. Un clandestino al contrario; uno di quei cristiani sbarcati dal Nord per mischiarsi alla nostra miseria come un hippy. Eppure era a tutti gli effetti uno dei nostri. Eravamo cresciuti sulla stessa merda, avevamo sguazzato nello stesso fango. La bellezza gli veniva da sua madre Tamou, una puttana che aveva deciso di consacrare le sue grazie ai fannulloni di Sidi Moumen; una pasionaria del sesso a buon mercato, investita, per così dire, di una missione di servizio pubblico, che praticava tariffe quasi comuniste. Tamou godeva di un rispetto particolare sia dalle nostre parti sia nelle bidonville vicine. Alcuni affermano che avrebbe potuto officiare ovunque; anche nei quartieri alti se si fosse preoccupata di organizzarsi per tempo. Ravvivata da una dentatura dorata, la fisionomia luminosa di Tamou sprigionava un fascino carnivoro. Al suo passaggio, i suoi ottanta chili di carne lattiginosa che riempivano le djellaba di raso rendevano folli gli uomini. Esercitava anche il mestiere di cantante occasionale alle cerimonie di matrimonio, circoncisione o battesimo. Era così brava che, a dispetto della loro diffidenza, le donne della città finivano per ricorrere ai suoi servizi. Senza portare rancore e conscia del proprio talento, Tamou accettava volentieri di esibirsi nelle catapecchie più ostili. Se c’era da animare una serata lei era unica, si lanciava corpo e anima tra i commensali, col tamburello sotto il braccio, dimenando le natiche come attraversata da una corrente elettrica; sbattendo le palpebre come le ballerine indù, stendendo un maschio dopo l’altro, mentre la sua voce acuta si dispiegava dagli altoparlanti piantati sul tetto, spargendo felicità in tutte le baracche dei dintorni.
Nabil viveva solo con sua madre in un gurbi isolato, dalle parti della fontana pubblica. Passava la giornata fuori perché sua madre riceveva i clienti a casa. Ecco perché era il primo a presentarsi alla discarica e se ne andava solo al calare della notte. Lavorava per conto di mio fratello Hamid che lo trattava come si deve. E lo proteggeva. Guai a chi osasse trattarlo da figlio di puttana! Hamid, che sapeva fare a pugni, sistemava subito il colpevole. Così, dopo la scomparsa di Morad, io e Nabil eravamo diventati inseparabili. A volte gli davo una mano alla discarica per la raccolta di ossa, pezzi di vetro e altri oggetti metallici. Scovavo le corna di montone, molto apprezzate al suk perché ci si fabbricavano i pettini. Mi incaricavo anche di spellare il caucciù dei fili elettrici per recuperarne il rame. Se mi prestava il coltellino facevo dieci gomitoli al giorno. Nabil doveva riempire i tre sacchi in tela di juta che mio fratello gli forniva al mattino. E ci riusciva alla grande; col vento o con la pioggia, i sacchi erano pronti al crepuscolo, legati come si doveva. Trascinata da un mulo scheletrico, una carretta di legno guidata da un vecchio con un occhio solo girava per la raccolta. Hamid non si preoccupava nemmeno più di venire a verificare se il lavoro era stato fatto secondo le regole stabilite. Gli dava fiducia. Diceva che Nabil non era un imbroglione, al contrario degli altri ragazzacci che se la prendevano comoda e passavano il tempo a sniffare la colla. Benché Nabil fosse meglio retribuito degli altri, le mani bucate non gli permettevano di risparmiare. Mi invitava spesso a spartirci la sua scatola di sardine, il pane d’orzo e una bottiglia grande di Coca-Cola. Ci sistemavamo in una baracca di tavole e cartoni che aveva fabbricato e ci offrivamo un festino parlando della città che saremmo andati a visitare un giorno. Sua madre gliela aveva descritta con una ricchezza inaudita di dettagli. Non credo mentisse. La sola volta che ho potuto andarci è stata l’ultima. I ricordi di allora sono tutti confusi nella mia mente.
Nabil sognava di trasformare la sua baracca in una vera e propria casa. Aveva già la piantina in testa: due camere, un angolo cottura e un salone. Per quanto riguarda il bagno, si sarebbe servito della discarica come facevano tutti. Ma un progetto del genere per il momento era difficile da realizzare. Ogni volta che raccattava una lamiera ondulata o una trave in buono stato gliele rubavano. E tuttavia non perdeva la speranza. Così gli avevo promesso di dargli una mano il giorno in cui avrebbe cominciato seriamente a progettare i lavori. Allo stesso modo mio fratello gli aveva detto: «Tra businessmen ci si deve aiutare». Gli aveva indicato una catapecchia disabitata dove stoccare i materiali: plastiche, ramaglia, mattoni, putrelle, insomma tutto ciò che avrebbe potuto aiutarci a costruire un tetto impermeabile all’umidità , alle raffiche di vento e altre forti intemperie. Nabil fantasticava. Diceva che, il giorno in cui avrei sentito il bisogno di volare da solo con le mie ali, potevo trasferirmi da lui. Avremmo avuto un braciere e una bella pentola dove far cuocere a fuoco lento delle succulenti tajine. Era solo una questione di tempo. A forza di lavoro e di perseveranza, ci saremmo riusciti. Da allora anch’io ho cominciato a sentire la mia casa troppo stretta. Dormivamo in sei in una stanza grande come una cantina. Non sopportavo il russare degli altri, né quel cocktail di tanfi appena identificabili: odore di scarpe, di sudore, di mutande sporche, di DDT che Yemma si affannava a spruzzare tutte le sere sotto le stuoie di rafia che ci facevano da letto. Sì, ho finito per mettermi a sognare anch’io una stanza tutta per me. Un letto vero con una rete a molle che nessuno scorpione avrebbe mai potuto scalare, né nessun’altra bestia; salvo forse le zecche, ma quelle non mi hanno mai davvero infastidito. E in ogni caso le preferisco di gran lunga all’odore soffocante degli insetticidi. Non ci sarà nemmeno la naftalina nella mia stanza. Non so perché Yemma si preoccupasse tanto per le tarme; possedevamo così poca lana, così pochi vestiti che il nostro tugurio sarebbe stato l’ultimo posto dove quelle bestiole avrebbero potuto ingozzarsi. Ma Yemma era così. La donna più pulita, più previdente che mi sia mai capitato di incontrare. Ogni mattina presto cominciava con lo svegliare uno di noi per andare a prendere l’acqua alla fontana. Tuttavia risparmiava i più piccoli. Erano necessari molti viaggi per riempire la grande giara. In una sorta di combattimento quotidiano contro la polvere, Yemma aspergeva il cortiletto. Poi innaffiava i vasi di basilico sistemati all’entrata delle stanze per cacciare le zanzare. E per ultimo riempiva il bollitore che scaldava per le abluzioni e si dava da fare per preparare la colazione che dovevamo fare insieme. Amava guardarci mangiare. Si prodigava e vegliava su di noi come una gallina sui suoi pulcini. Nove ragazzi robusti e il loro padre, che aveva deciso di essere vecchio anzitempo, accovacciato in un angolo a sgranare eternamente il suo rosario d’ambra. Pregava seduto dicendo di non avere più la forza d’alzarsi. Lui, il vecchio minatore, era diventato così magro, così scarno, a immagine di questa terra incolta che un tempo era stata la zona industriale, e dove aveva sempre vissuto. Yemma gli serviva la sua zuppa bianca e gli sistemava i cuscini dietro la schiena senza dire una parola. In seguito passava in rassegna le nostre tenute come un caporale col suo drappello: un bottone che mancava a una camicia, un calzino o un maglione bucati, e partiva con una valanga di proteste: «Allora? Volete farmi prendere in giro dai vicini!» oppure «Questa te la levi subito, non sono ancora morta!». E s’impadroniva della macchina da cucire gridando «Yachin, vieni a infilare quest’ago, tu che hai gli occhi buoni». Ero così contento di avere qualcosa meglio degli altri in quella casa. Bagnavo il filo tra le labbra e lo facevo scivolare al primo colpo nella cruna. Yemma mi sorrideva. Amavo vederla sorridere.
Alcuni giorni Nabil spuntava all’alba sulla soglia della porta. Appena Yemma lo sentiva fischiare (era il suo modo di chiamarmi), immergeva un pezzo di pan...