ALLEGORIA E DERISIONE
Et le parabole non bastano et
questa metaphora più non mi serve.
Niccolò Machiavelli
1935
1. Il presente vince sempre. Esso è termine di paragone e guida nella ricerca della verità. L’azione che io compio, il pane che mangio, la persona che bacio, l’idea che elaboro, la realtà che per il fatto stesso di esistere rappresento, accadono nel tempo e nella storia, sono tempo e storia. Così si collocano nella storia e nel tempo sia una cellula organica sia l’intero genere umano, dalla società più remota, il mistero da cui emergono i miei avi Marsili, alle moderne dittature. L’oscurantismo medesimo, anziché antistorico, va considerato come l’indispensabile reagente alla precipitazione della storia. Nondimeno è chiaro che la storia si convoglia tutta nel presente e non può rendere leggibile l’avvenire dove, al contrario, il tempo vi è sempre proiettato. Come dire che il tempo è spazio e la storia è luce. Che la storia è dinamica, cangiante, alternativa e il tempo statico, inalterabile. Che il tempo dunque e non la storia, non l’uomo, è l’eterno presente? O piuttosto che la storia, parallelamente e a specchio della filosofia, è conoscenza e il tempo, non so, non so molte cose, questo è il guaio, vent’anni e un’educazione disordinata mi lasciano continuamente allo scoperto. Debbo provvisoriamente concludere che tempo e storia si identificano nel senso che l’uno contiene l’altra e che il tempo si concretizza perché la storia, col suo farsi, gli dà spessore e prospettiva. L’uomo chiude il tempo nel pugno e riaprendolo ne libera la storia. L’uomo è quindi manipolatore di tempo e produttore di storia. Macché. Volevo indagare sulla nozione di tempo secondo le differenti capacità fantastiche, emotive e della memoria. Una misura insomma, non una categoria. E al solito, come dice Ebe, ho deviato.
2. “La logica non è il tuo forte” mi ripeté una delle ultime sere, alle Cave, e la luna piena, da rossa, enorme, era diventata normale: la sua luce orientata su di noi attraverso l’intrico dei cipressi e dei pini, conferiva al viso di Ebe, alle labbra specialmente, le guance il collo, qualcosa di funerario.
«Vorrei ti vedessi, sei miracolosa.»
«Lascia stare, non importa lo specchietto, ci credo, non aprire la borsa ti dico, non lo troveresti, sai che dentro cotesta borsa ci ficco la casa. Tu piuttosto, sembri uno spettro.»
«Tu un cadavere squisitissimo, se lo vuoi sapere.»
«La logica» lei disse «non è il tuo forte. Certo, l’uso dell’analogia rivela lo scrittore! E il discorso torna sempre, basta interpretarlo. Giusto una morta può fare miracoli. Io viva posso dirti soltanto: m’hai stufato. Oppure: non mi dai un altro bacio?»
Così involuti e banali raramente lo siamo stati. E così ipocriti. La ragione c’è: questa volta lei parte sul serio e non vogliamo ammettere che ci dispiace. «Sei triste?» «No, pensavo.» Cosa, non si domanda. Ci mascheriamo di sufficienza e da un pretesto si sviluppa una teoria. Forse perché parole importanti da dirci non ne abbiamo più e quelle che ci siamo dette non hanno fruttificato abbastanza da meritarsi lo strappo di una separazione. Tacitamente si conviene di essere appena rammaricati, e invece di sorriderne ce ne doliamo. Se davvero ce ne doliamo. È durato quanto? Era metà maggio, al Ristorante Metropolitano della stazione, lei sullo sgabello accanto, poi a casa.
«Lo studio di un pittore che non sei tu, è Vieri. Tu nasci operaio, anzi è stata una scelta, un’elezione, ma ti sei stancato presto e ora vorresti scrivere, ho capito.» Come se mandasse a memoria, ironizzando, formidabile, le notizie di me che, tra pastasciutta e caffè, le avevo comunicato. «L’atelier è di là, è chiuso a chiave, peccato perché ci sono due divani, uno grande come un letto a due piazze, tu qui, in questo rez-de-chaussée con la porta sul giardinetto, sei ospite, disponi solo di una brandina, funzionale però, è la tua mansarda, il tuo retiro, cos’è?»
«Il luogo dove ti farò la festa» le dico. Le porgo la sigaretta accesa, lei è seria, un po’ teatrale.
«Sono venuta per questo. Se ho rinunciato a prendere il treno quando ero col piede sul predellino, vuol dire che l’attrazione è stata forte, niente da bere?» Mentre si spoglia considera le mie letture. «Dante Boccaccio, pochi classici in fila, non vedo Ariosto, non vedo Tasso, c’è puzzo di campanile. E i francesi: Stendhal Flaubert Mérimée Balzac Vigny, una certa confusione. Ti manca Nerval. E ti manca Radiguet, è fondamentale. Quelli della “NRF”. Anche Claudel, Péguy perché? Li apprezzi? Sarà diversa la statura, non so, ma sono entrambi dei retori, non trovi? Péguy è morto in guerra, e con questo? La guerra si è presa anche Alain-Fournier.»
Un esame curioso, lei nuda fino sui fianchi, disinvolta, che scorre i titoli dei libri sopra lo scaffale. S’era tolta le scarpe ed era incredibilmente abbassata, un donnino snello, biondo, i capelli sciolti e il bel seno, il rossetto quasi viola, le mutandine celesti, le giarrettiere nere. «Ah i russi, ascolta. Dostoievskj o Tolstoi, non è questione di grandezza ma d’affinità, rispondi, se scegli Fiodor puoi sperare.» Le ero andato vicino e la baciavo. «Oh io mi sono laureata quest’anno da fuori corso su Gozzano. Quando presi la tesi, consigliata dal professore, per me il massimo contemporaneo era Manzoni. Poi, poi ho subìto lo scalpo.»
T’immagini una sciagurata delle tre di notte alla stazione che trascina il suo ragionevole fascino si capisce per quale china, e scopri la donna più inattesa che sa, s’eccita, dibatte, ragiona, tutt’altro che una lesbica coi drammi della psiche, ci vai a letto e prima e dopo l’amore, leggi e discuti della Jeune Parque, della Bauhaus, di Leopardi e di Campana, dello stato delle cose in letteratura e in arte, della storia che in questo momento, più di Tozzi e di Gide, è il tuo pallino, e dei Marsili. Di Bronte, una sera.
3. Garibaldi sbarca combatte avanza, «una specie di passeggiata» battezza la Sicilia terra italiana e la distribuisce, lotto per lotto, ai contadini.
«Siamo ancora a Garibaldi, ho capito.»
Non ridere, guarda dietro la facciata. «Invidio perfino il vento che ebbe la fortuna di percorrere lo spazio e incontrare i peli della sua barba.» No, non l’ho scritto io, rendimi il braccio, sul deltoide sì, ti ci puoi appoggiare. La barba. Dietro la barba del Generale, Bixio, contornato dalla sua Ceka, annulla la spartizione, toglie i picchetti e restituisce i feudi agli eterni baroni. Il Biondo in camicia rossa sconfessato dai suoi gerarchi, come oggi il Nero, forte d’un diverso potere, ammetterai. Sia salvo l’ideale. Ma sussista la proprietà. Come le frontiere la famiglia la chiesa, essa è sacra e inviolabile.
«È giusto sussista» lei dice. «In forma moderna, certo, non basata sulla miseria altrui.»
Un capitalismo aperto alla tecnica, agli investimenti, suppongo, alla produzione dei beni di consumo e condizionato dal parlamento, dall’opinione pubblica, dai sindacati? Bene, sta’ attenta: la tecnica e il progresso rientrano nell’ordine naturale, non vanno confusi con la civiltà cui si accompagnano senza illuminarla. L’umanesimo e la scienza procedono su linee parallele e a distanza di secoli si gettano dei ponti dall’una all’altra riva. La conoscenza è inarrestabile come la vita.
«È sinonimo di libertà» lei dice.
Sciocchezze, sono menzogne antiche. Dante è un fuoruscito, come Foscolo, e nel secolo di Galileo, c’era l’Inquisizione. Industria pesante e latifondo come pilastri del consorzio civile. Il timore di Dio e del padrone. La schiavitù attualizzata. Invece delle piramidi i cuscinetti a sfera.
«Non necessariamente» lei dice. E ripete: «Guarda l’Inghilterra, la Francia, due aspetti della libertà ugualmente positivi».
Ma no no no, abbasso la libertà, te la regalo. La tua libertà di opprimermi non è la mia di subire. Che diritto ha la tua forza economica di punire con pane e lenticchie la mia nullatenenza? O il tuo ingegno di umiliare la mia scarsità intellettuale? Ci siamo forse mossi alla pari perché sia possibile stabilire la potenzialità del tuo talento e del mio? Non basta che io esegua, e a mio modo inventi, ogni volta che giro una vite, e quindi faccia esistere, per te per me per tutti, ciò che il tuo cervello, adeguatamente coltivato ha, com’è suo dovere, progettato?
«Ma la libertà significa il raffronto delle idee. E consente.»
Di darti del ladro quando non ho i mezzi per impedirti di rubare? Accendine una anche a me, fumo le Gloria perché sì, dunque è libertà condizionata, come per i delinquenti passibili di rieducazione. Liberalismo, non libertà. Democrazia. Démos popolo e krátos potere, una sentina il cui scolo è arrivato a corrompere perfino la filologia! La libertà, tesoro, o è totale, e allora viva l’anarchia, ci sto, o discende da una dittatura che regola e impone questo e quello nell’interesse generale, suscitata dal basso, “è in basso l’onore d’Italia” e alimentata da un’élite. Per la società moderna non c’è altra strada. Il capitalismo tu non lo uccidi, né strangoli l’oligarchia delle grandi famiglie, se prima non lo immobilizzi e non gli cavi gli occhi, non gli tagli la lingua, non lo eviri, non lo riduci a pezzi e non lo dai in pasto ai maiali boccone per boccone. Dei maiali così pasciuti farai prosciutti che appenderai a un rogo le cui ceneri spargerai al vento dalla cima dell’Himalaya. Fuori parabola, bisogna ripartire di là dove il socialismo ha fallito a causa della sua ignoranza e della sua ignavia: un lungo discorso, certo, lo affronteremo. Comunque oggi la strada è il fascio che nonostante le sue strozzature, dovute agli individui e da rimuovere, s’irradia dall’Italia.
«Sole che sorgi, ho capito.»
Sei una provocatrice. Niente tradizione. L’impero dell’intelligenza multiforme giustiziera sbaraccatrice d’ogni nazionalismo, d’ogni regime coloniale, d’ogni sopraffazione materialistica. Il mito dantesco non la soggezione augustea. La romanità è un’idiozia, una delle strozzature, il papavero che addormenta gli imbecilli.
«Li mobilita direi.»
Chi? Le coorti degli universitari inneggianti al fuoco di Vesta su per le scale dei casini? Mentre si tratta di rovesciare i valori se vogliamo possedere non una puttana ma la vita, la storia che magari è fatta anche di puttane ma immense, paradigmatiche e sublimi come la Grosse Margot, la Malabaraise o la Genovese opulenta matrona. Scavalcare le età di transizione e aprirsi un varco nel Medioevo. Traguardo una società comunale del ventesimo secolo dilagante fin dove c’è terra che gira. Se l’Abissinia ci continua a punzecchiare e questa volta la invadiamo sul serio sarà, come in Libia e Somalia, per educarla al diritto e alla ragione non per sfruttarne le risorse, se ci sono. Ora gli inglesi e i francesi.
«Si capisce, i francesi, gli inglesi.»
Ti rispondo, che popoli che cultura che storia. Dici Francia e t’accorgi che noi stessi siamo ancora dei pidocchi annidati nella parrucca di Robespierre. La barba del Biondo se la sono mangiata le tignole! Come finirebbe il Nero se indietreggiasse invece di avanzare. Quel pelliccione che esibisce sul petto e si fa fotografare gocciolante dopo “la gran nuotata sopra il mare amaro” è un endecasillabo?, strappandoglielo pelo per pelo, lo faremmo marciare. O lo faremmo fuori, io personalmente toccasse a me, ti giuro. La ruota della storia a volte ha bisogno di lubrificarsi col sangue di Cesare mescolato a quello di Bruto.
«Delirium juvenile» lei dice, «Shakespeare per i poveri» e mi gela.
L’amore come un assalto, il desiderio di farle male e il suo corpo che resiste e consente, ci sfianca e ci riconcilia. Sotto la doccia scherziamo. «Al solito, autodidatta ed entusiasta, ergo superficiale, hai deviato.» Certo, signorina Felicita, cattiva signorina, ma la strada è giusta e m’è entrata una fame, pensiamo come trovare venti lire. That is the question. Vieri non c’è, è sulla laguna: per un quadruccio Circo in periferia marcio di Chagall e del Picasso azzurro e rosa, che gli hanno accettato, d’un tratto la Biennale è diventata importante. “Sono accanto a Giorgione Secondo” mi scrive, “Sala Trentottesima, stessa parete.” Immagino tra il pisciatoio e l’uscita. Sentendosi gonfio d’onore, non si rende conto dell’offesa che hanno fatto a Morandi. Rosai non è stato nemmeno invitato, e neanche Marino perché ne parlano bene i francesi.
«Questi francesi!»
Colossi, bella, da duecent’anni mantengono l’egemonia. Ma oggi, gli eredi veri vivi germinanti dell’Ottantanove e del Novantatré, si trovano al di qua o al di là delle Alpi? Traversa pure la Manica, se pensi India cosa vedi: Gandhi e la vacca sacra? E i cugini, senza il loro Marocco, il loro Alto Volta, Madagascar, Indocina, la loro Algeria.
«I loro intellettuali, il loro Pas-de-Calais e la loro Renault, se sei su questa strada.»
È come tu dicessi Ansaldo e Fiat, amore, come tu dicessi noi. Perciò non puoi associare libertà e ricchezza, miseria e libertà. Sono equazioni dolose. Piattaforme borghesi. E cattolicesimo. Notte dell’uomo. La sola libertà indiscriminabile, l’unica cosa giusta che hai detto, riguarda le idee. Le idee non fanno paura a chi ne ha. Quando non sono morte e consumate, o non appestano col loro liquame l’aria che si respira, generano sangue e vita. Anche il bolscevismo è una idea positiva. “Qui si fa l’Italia o si muore.” Bixio annuisce, ma se qualcuno di quei cafoni s’è persuaso che la terra è ormai sua com’è stata sua finora la fatica e la fame, ed alza la voce e si ribella, lo si fucila, lì sulla soglia del suo tugurio, “tra le zagare e le solfare”. Il Condottiero, lui è sempre avanti, ignaro combatte, libera, sparte, pronuncia detti memorabili, cavalca, saluta e s’inchina, a metà d’un ponticello, davanti al sovrano. «Ti sembra ci sia molto di cambiato?»
«Ah no» lei dice. «Scusami, non mi va di uscire, ne approfitto per sistemare la doccia. Delle sigarette e un panino? Straordinario! Ma prima mangia te, ti prego. Aspetta, forse in fondo alla borsa qualche spicciolo si riesce a pescare, è una incognita, abbi fede.»
4. Ebe cara. Il seno troppo grosso, «non è un’ubbia, è spaventoso, e non so che fare»; gli occhi chiari da gatta, «questo complimento speravo tu me l’avresti risparmiato» che negli istanti più forsennati non si chiudono mai, s’invetriano. E quando aspira la sigaretta come se l’azzannasse, e racconta di sé, sembra costruire un personaggio, invece è tutto vero: aspettava un treno fra mezz’ora, e lo prenderà, ma dopo due mesi, diretta a Parigi. Il suo biglietto è valido novanta giorni, «a differenza dei quattrini».
Ed io? Viaggerei nel tender, in carro bestiame, a cavallo dei respingenti, sotto i vagoni o sullo stemma della locomotiva. Il passaporto non me lo danno perché non ho ancora raggiunto la maggiore età. Mi mancano sette mesi, ho obblighi di leva, se no.
«Ti avrei alle costole, vuoi dire? Resta qui, è il tuo posto per ora, ci sguazzi, puoi inventarti Parigi e il mondo su e giù per Santa Croce e piazza della Signoria.»
«Come quei cafoni.»
«Tu riempi fogli bianchi come loro spingono carriole, è la tua dottrina. Del resto, se prima non fai luce sui tuoi Marsili, ti sentiresti spaesato. È difficile capire cosa vai cercando, certo non la libertà che non ti è cara. Ma insisti; io a modo mio, non mi chieder come, ti ammiro. Ho tre anni più di te, ossia due e mezzo visto che tu conti i mesi, e ti dico: ciascuno ha il suo tunnel da scavare, vedi un po’ tu il tuo dove ti porta, dammi un bacio.»
5. Mai un’allusione, io, alle fiamme che ho attraversato; e lei, come se avesse fatto brillare una mina su tutto un versante del suo passato. La nostra subitanea intimità mi colmava. Quello che lei dice non aggiunge né toglie, le lacune che v’intravedo fanno parte del suo fascino, dell’eccezionalità della nostra situazione; inchiodarla alle sue piccole contraddizioni sarebbe come chiederle quando perse la verginità, una becerata. L’aspettano la madre e il patrigno che gestiscono un emporio nella banlieue, a Montrouge. Ebe già insegna ai bambini di origine italiana. C’è andata appena finito il liceo ed è tornata ogni anno per le sessioni invernali, ultimamente per la laurea che ha dato a Roma dov’era iscritta non a Firenze. Ma lei è aretina. Ossia della provincia. «L’importante è non esserlo, provinciali.» Il luogo comune, sulla tua bocca, Ebe! Si trovava a Firenze quella notte, venendo da Arezzo, dopo aver salutato nonni e zii, e siccome ad Arezzo il direttissimo per Parigi ferma soltanto da giugno a settembre, «in modo da consentire ai turisti di veder Piero la Pieve la loggia e la casa di Petrarca e del Vasari». Spingersi a Sansepolcro, a Cortona, a Città di Castello. Da Michelangelo a Caprese, ad Anghiari. In Casentino. Alla Verna. Sul Pratomagno se gli piacciono l’escursioni. Sono bei posti, cerco di dire, li conosco, la Val di Chiana. «C’è buona la carne, razza chianina. Ma in Valdarno è diverso. Sopra San Giovanni si trova Castelnuovo dei Sabbioni e le miniere di lignite, dentro il paese tre fabbriche.» Un’isola. La vicina Montevarchi vomita fiele. «E per la verità fanno un po’ impressione, operai e minatori là in mezzo ai bifolchi e ai mezzadri. Ti piacerebbe, se quel che pensi lo credi.»
«Credo ciò che penso, non è la stessa cosa. Mi piace la città. Per me, nonostante ci sguazzi, anche Firenze è un paese. San Giovanni mi potrà incuriosire perché ci sei nata tu, e prima di te, all’incirca da quelle parti, c’è nato Masaccio.»
«E gente posata, illeggibile, noiosa, chiudi gli occhi: Benedetto Varchi, Poggio Bracciolini… È sempre, e spaventosamente, Toscana. Ogni pietra una memoria, un capolavoro, una disperazione. L’abbazia di Gròpina è etrusca preromanica e rinascimentale, un rudere dove dicono ancora messa, tra i cipressi e gli ulivi. A San Giovanni, il municipio, arnolfiano. E c’è il tuo Biondo, ritto in piedi, che se lo mira. Lì accanto, ho finito, erede di Masaccio “venne alla luce” Giovanni da San Giovanni. La pietra sulla sua casa ...