veva tre fratelli e tutti e tre erano morti. Il maggiore si chiamava Ravi, e un giorno era partito a caccia della tigre. I battitori avevano stanato la belva e l’avevano inseguita nella giungla per tre giorni: Ravi apriva la pista in groppa al suo elefante da guerra, finché quello aveva scartato all’improvviso e Ravi era caduto ed era stato calpestato. Il giovane era un cacciatore esperto, lui e l’elefante erano cresciuti insieme. Tutti dissero che la sua morte era un tragico gioco del destino.
Il secondo fratello si chiamava Bodhan e, anche se era solo un ragazzo, rivaleggiava in sapienza con i filosofi, e nei suoi occhi brillava la saggezza degli yogi. Si ammalò all’improvviso di una febbre brutale che trasformò il suo volto in cera. Il re suo padre chiamò a palazzo medici e santoni, e tutti provarono i loro rimedi più efficaci e i riti più potenti. Ma non ci fu niente da fare, e Bodhan morì in pochi giorni. Il ragazzo aveva un fisico flessuoso come un ramo di bambù, e gli esercizi lo avevano reso sano e vigoroso. Tutti dissero che la sua malattia era volontà degli dei, che lo volevano con loro.
Il terzo fratello infine si chiamava Kumar, ed era il più amato dal re perché era forte e bello, con il sorriso che brillava di intelligenza. Passeggiava da solo nei cortili della reggia quando una freccia sfregiò l’aria e gli si conficcò nel petto. Nessuno seppe mai chi l’aveva scoccata, e il re ordinò di giustiziare tutti gli arcieri del palazzo. Perché una fatalità può capitare a un figlio. A tre, no di sicuro.
Ma anche questa follia non servì a nulla. Ravi, Bodhan e Kumar erano morti. Restava soltanto l’ultimo figlio del re, il più piccolo. Il principe Dakkar.
E Dakkar da quel giorno rimase solo.
Prigioniero nelle stanze dorate del suo palazzo.
ici che dovremmo svegliarlo?»
«Io dico di sì.»
«Ma è stato sveglio per tre giorni di seguito, e proprio ora…»
«Ashlynn, stiamo precipitando!» gridò Daniel.
«Non stiamo precipitando! Stiamo solo scendendo… un po’ troppo velocemente.»
«Ashlynn!»
La signorina Ashlynn Taylor Woodsworth tirò su col naso e si rassegnò.
Aveva dodici anni e lunghi capelli biondi che le si annodavano sulla testa in una specie di folta criniera, e in quel momento indossava soltanto un paio di ampi mutandoni di cotone stretti alle caviglie da un elastico, una camicia bianca lunga fino ai piedi, un bustino rigido di stecche di balena e un’ampia sottoveste che nascondeva tutto il resto.
La vecchia precettrice di Ashlynn, la signorina Walsh, sarebbe inorridita vedendola così, mezza svestita. Ma la signorina Walsh era molto, molto lontana, così come il collegio Paimboeuf, alle porte di Parigi, la preside, gli insegnanti, e tutte le persone che fino a qualche giorno prima avevano riempito la vita di Ashlynn.
Ora, invece, a riempire la sua vita c’erano solo due ragazzi più o meno della sua età , di cui uno addormentato e uno profondamente agitato.
«Sveglialo, ti ho detto» insisté Daniel.
«Sì, sì, basta, ho capito.»
Poi c’era Nautilus. Era un cane, per la precisione un mastino tibetano color cenere, ma a una prima occhiata si poteva tranquillamente scambiare per un leone albino. In effetti era proprio grande come un leone, con zampe robuste e spalle massicce, e una testa così grossa che Ashlynn faticava a stringerla fra le braccia.
Il grosso cane grigio stava sdraiato a pancia in giù sul pavimento della cabina e occupava quasi tutto lo spazio a disposizione. Era lui che, più di tutto il resto, in quel momento riempiva la vita di Ashlynn.
«Potresti spostarti, bestione!» borbottò la ragazza, e visto che Nautilus non sembrava intenzionato a obbedirle, si risolse a scavalcarlo.
Alle sue spalle, Daniel sbuffava per manovrare le piccole ali di stoffa dell’aeronave. Anche se esagerava come sempre (non stavano esattamente precipitando), era indubbio che il pavimento della cabina era inclinato verso il basso. Il cielo striato di grigio era ormai scomparso dal grosso oblò di prua, e si vedevano solo le cime verdeggianti degli alberi.
Ashlynn completò con qualche difficoltà la scalata di Nautilus e scivolò dall’altra parte, dove stava il terzo membro dell’equipaggio.
Nemo dormiva rannicchiato, con la testa appoggiata alle mani e le ginocchia piegate fino al petto. Mugolava piano, e la pelle color caffè era lucida come cuoio. Forse stava sognando.
«Nemo…» lo chiamò lei, e visto che non ottenne alcun effetto, gli afferrò una spalla. «Nemo!»
Lui le strinse il polso con le dita nodose, all’improvviso, e gridò.
«Ehi! Mi fai male!» gemette la ragazza.
Gli occhi neri di Nemo parvero accorgersi di lei per la prima volta.
«Io… scusa. Stavo facendo un incubo.»
«Se avete finito di chiacchierare» li chiamò Daniel, dall’altra parte della cabina, «vi ricordo che qui c’è un’emergenza!»
«Quale emergenza?»
Nemo schiacciò il viso contro il vetro dell’oblò. Faceva quasi buio, fuori, e nei dintorni non si vedeva nemmeno una casa: solo boschi a perdita d’occhio. Ashlynn si domandò dove si trovavano in quel momento. Di certo non in un punto adatto per atterrare.
«Stiamo perdendo quota» annunciò Nemo.
«Parecchia quota» confermò Daniel.
«E sotto ci sono solo alberi.»
«Parecchi alberi.»
Ci fu un attimo di silenzio.
«È strano» osservò Nemo. «Stavamo cavalcando una corrente di risalita, e bella forte anche… Nautilus! Fammi passare!»
Il cagnone grigio si sollevò sulle zampe, e Nemo strisciò sotto la sua pancia con la grazia sinuosa del serpente. Raggiunse Daniel alla postazione di comando, nel retro della cabina, si drizzò sulla punta dei piedi e aprì il boccaporto sul soffitto.
Da lì si poteva accedere al fornello a gas, che in realtà era diventato un fornello a olio da quando il gas era finito e Nemo aveva operato una conversione di emergenza in una fattoria.
«La fiamma è ancora accesa» disse, sporgendosi a guardare dal foro. «E il serbatoio dell’olio è pieno a metà . In più, fuori fa un freddo da brividi.»
«E questo cosa significa?» domandò Ashlynn.
«Significa che ci troviamo su una mongolfiera, e voliamo finché l’aria contenuta nel pallone è più calda, e quindi più leggera, di quella circostante.»
Ashlynn odiava quando Nemo le si rivolgeva con quel tono da professorino.
«E dunque, perché stiamo precipitando?» chiese.
«Di sicuro c’è una perdita da qualche parte. Una cucitura deve aver ceduto. È per questo che siamo usciti dalla corrente ascensionale e, se non facciamo qualcosa, lo strappo potrebbe compromettere l’intera struttura del pallone.»
«Che significa?» si allarmò Ashlynn.
«Significa che si rompe tutto, e noi cadiamo giù.»
Per un attimo Daniel smise di affannarsi ai remi. Lui era il più grande del gruppo, ed era alto e sottile come una cavalletta, con una zazzera di capelli chiari.
«Cosa facciamo?»
«Vado fuori» disse Nemo.
«Là fuori? Mentre siamo ancora in volo?»
«Sì.»
«Scordatelo» lo interruppe Ashlynn. «Se c’è da ricucire qualcosa, senza offesa, è meglio che lo faccia io.»
Le teste di Daniel, Nemo e Nautilus si voltarono tutte verso di lei.
«Allora? Volete rimanere lì a fissarmi o avete intenzione di darmi una mano?» disse la ragazza.
Ashlynn soffriva di vertigini. Se ne ricordò quando Nemo aprì il portello della cabina e il vento gelido le schiaffeggiò la faccia.
«Farai meglio a metterti un cappotto.»
Nemo le passò il soprabito di lana e la aiutò ad allacciarselo ben stretto addosso, quindi le porse il sacchetto di velluto dove Ashlynn teneva il materiale da cucito. Qua...