1
Leonie Hayes si guardò intorno furtiva mentre si metteva in coda. Sapeva che era ridicolo, ma aveva il terrore di imbattersi in qualcuno di Dublino, che avrebbe potuto riconoscerla e domandarsi cosa facesse lì. Be’, la risposta era ovvia (non facevano tutti la stessa cosa?), ma lei non aveva voglia di dare spiegazioni. Non che qualcuno le avrebbe chieste, ma era sempre meglio essere sicuri. Sganciò il fermaglio di coccodrillo e si sciolse sulle spalle i lunghi capelli rossi.
«Circolare… da questa parte, prego… non fermatevi» disse l’addetto alla sicurezza mentre la lunga fila avanzava lenta.
Cosa ci faccio qui?, si domandò Leonie in un lampo improvviso di incertezza. Era davvero troppo tardi per girare sui tacchi e tornare alle cose rassicuranti, normali, familiari? Poi ricordò che ormai le cose erano cambiate e che a casa non c’era più niente di rassicurante, né tantomeno familiare. Era tutto diverso.
Lo squillo acuto del cellulare nella borsetta interruppe le sue riflessioni. Tirò fuori il telefono e guardò il display.
Grace, di nuovo.
Il battito del cuore le accelerò. Era la terza chiamata della sua migliore amica in tre giorni e, nonostante sapesse che avrebbe dovuto rispondere, non se la sentiva di parlare con nessuno. L’avrebbe investita con una raffica di domande, ma lei stessa non capiva i propri pensieri, figuriamoci se poteva spiegarli a qualcun altro. Perciò no, non era il caso di parlare con Grace, non per il momento, almeno. L’amica si sarebbe preoccupata, certo, ma non sarebbe stata ancora più in ansia se avesse scoperto dove si trovava lei adesso, o cosa stava facendo?
No, molto meglio aspettare che correre il rischio di agitarla ancora di più, così si impose di ignorare i trilli del telefono.
Si zittirono dopo poco, ma il breve silenzio fu interrotto dal doppio bip della casella vocale. Leonie ascoltò il messaggio.
«Lee, sono ancora io» disse Grace tra gli strilli dei gemelli in sottofondo. «Dove sei? Sono giorni che ti cerco. Ho provato anche sul fisso, ma non rispondi nemmeno lì» aggiunse delusa. «Spero vada tutto bene, e soprattutto che tu stia bene. Lo so, è stato un weekend difficile, ma… Ascolta, richiamami quando senti questo messaggio, okay? Sono qui tutto il giorno, come tutti i giorni» concluse con una punta di sarcasmo. «Fatti viva, per favore. Allora a presto… ciao.»
Leonie chiuse il cellulare di scatto. Avrebbe dovuto parlarle; era comprensibile che Grace fosse agitata. Ma non aveva immaginato che l’avrebbe cercata nell’appartamento, e trovava interessante (anche se non sorprendente) che non le avesse risposto nessuno.
Be’, se ne sarebbe preoccupata più avanti. Ora doveva smettere di rimuginare e arrivare all’inizio della fila prima di cambiare idea. Anche se ormai era decisamente tardi, giusto?
Naturalmente avrebbe parlato con Grace, ma solo quando fosse stata pronta, e soprattutto quando avesse avuto la certezza matematica di poterlo fare senza correre rischi. Però, rifletté mordicchiandosi il labbro, non era giusto lasciare che nel frattempo Grace si tormentasse senza motivo. Aprì il telefono e compose il numero della sua casella vocale. La scappatoia dei codardi, ma meglio di niente, date le circostanze.
«Grace, ciao, sono io. Scusa se non mi sono fatta sentire prima, ma le cose si sono messe malissimo…» Suo malgrado aveva la voce rotta e un groppo in gola. Deglutì a forza e fece un bel respiro. «Volevo solo dirti che sto bene e ringraziarti per l’interessamento. Prometto che ti racconterò ogni cosa appena possibile ma, se non ti dispiace, adesso ho bisogno di stare un po’ da sola. Per favore, non preoccuparti. Sto bene e mi farò viva al più presto.»
Inspirò a fondo, spense il cellulare e se lo mise in tasca. Il messaggio sembrava convincente.
Ed era la verità , più o meno. Aveva davvero bisogno di stare da sola e avrebbe raccontato ogni cosa a Grace al momento opportuno.
Dopo qualche altro minuto di attesa, l’addetto alla sicurezza le indicò un cubicolo libero. Con una certa trepidazione, Leonie si avvicinò e fece un debole sorriso all’omone serio che sedeva dietro la scrivania.
Lui non fece una piega. «Documenti, prego.»
Li studiò a lungo, spostando lo sguardo dalle scartoffie a Leonie e viceversa mentre lei, quasi d’istinto, abbassava lo sguardo. Non avrebbe saputo dire perché. Era sempre così, in certe situazioni, no? Odiava quando la mettevano a disagio; le era successo anche prima, passando sotto il metal detector. Perché certi posti ti facevano sempre sentire come se stessi tramando qualcosa?
«Come si guadagna da vivere, signorina Hayes?» chiese il funzionario in tono distaccato.
«Lavoro per un’agenzia di organizzazione eventi.» Quella mezza verità le uscì dalle labbra con nonchalance. L’uomo annuì soddisfatto.
«Sia così gentile da appoggiare l’indice sinistro su questo dispositivo.» Accennò all’aggeggio per le impronte digitali sulla scrivania. Leonie obbedì, poi lui la invitò a fare la stessa cosa con la mano destra. «Grazie. Adesso faccia un passo indietro e guardi la macchina fotografica… qui…»
Lei lo accontentò. Non vedeva l’ora di togliersi il pensiero.
L’uomo ricontrollò i documenti, digitò alcuni dati nel computer, timbrò i documenti due volte. «Okay, signorina Hayes.» Sorrise allungandole il passaporto e il visto. «È tutto in regola. Benvenuta negli Stati Uniti.»
2
Tre settimane dopo
«Devo confessarle una cosa.»
Leonie ebbe un sussulto. Avrebbe dovuto immaginare che non poteva essere così facile, non in quel periodo. «Sì?»
L’agente immobiliare sorrise. «L’unità abitativa non è ancora libera, ma lo sarà a breve, ed è per questa ragione che gliela sto mostrando.»
«Oh, okay.» Si guardò intorno, simulando indifferenza, ma la verità era che si era già innamorata della casa. Quelle viste nelle ultime due settimane non reggevano neanche lontanamente il confronto.
L’appartamento era all’ultimo piano di una dimora vittoriana ristrutturata in Green Street, una graziosa via alberata nel cuore di San Francisco, a un tiro di schioppo dai caffè, dai ristoranti e dalla miriade di piccole boutique e gallerie che fiancheggiavano le strade laterali.
Aveva soffitti di quercia intagliata, un caminetto elegante, bovindi enormi, un’atmosfera calda e accogliente, e personalità da vendere. Dalla finestra del salotto si distingueva (se ci si spostava sulla destra, alzandosi in punta di piedi) il Golden Gate a cavalcioni sull’acqua, mentre da sinistra si scorgeva un minuscolo angolo dell’isola di Alcatraz. Più in basso, i tetti delle case digradavano verso la baia, dove le barche a vela scintillavano leggiadre sotto il sole.
Panorama da cartolina a parte, le antiche residenze avevano sempre esercitato un certo influsso, su di lei. L’esterno era un incanto: bianco e turchese, cornici e modanature, alti bovindi e un portico di legno ad archi. Tanto per accentuare la magia, le tinte pastello delle altre abitazioni – rosa, verde e giallo – le facevano sembrare tante case delle bambole messe in fila. Era un contesto che riproduceva in pochi metri lo stile architettonico tipico di gran parte della città , e uno dei motivi per cui Leonie adorava San Francisco. Se fosse riuscita ad assicurarsi l’appartamento, avrebbe fatto i salti di gioia.
D’accordo, l’interno era vecchiotto e un tantino sporco, ma per rimediare bastava un po’ di olio di gomito. Doveva solo tirare a lucido il parquet di quercia, ravvivare il salotto con qualche tappeto colorato, trovare dei cuscini originali per il divano scialbo e appendere dei quadri alle pareti. Il cucinino era piccolo ma funzionale, e la camera ampia e luminosa, con un armadio capiente (anche se non l’avrebbe riempito tutto, almeno per il momento). Ma più di ogni altra cosa l’appartamento era mille volte meglio della minuscola stanza all’Holiday Inn, e poi non sarebbe stato splendido avere una vera casa in città ?
«Ho pensato di mostrarglielo perché gli altri non le erano piaciuti» disse l’agente riportandola alla realtà . «È un ottimo quartiere, molto sicuro, e, come avrà visto entrando, c’è anche il vantaggio di un ingresso privato.»
A quanto aveva capito Leonie, la casa era divisa in tre alloggi separati, ciascuno con la propria entrata. Quello al pianterreno era accessibile da una porta laterale accanto a un garage sul livello della strada, invece per raggiungere il «suo» appartamento bisognava salire alcuni gradini, superare una delle due porte sotto il portico, e prendere le scale fino all’ultimo piano.
«Ha ragione, è assolutamente perfetto.» Non riuscì a dissimulare l’entusiasmo. Era un vero peccato che non fosse già libero. «Ci vive ancora qualcuno, ha detto?»
Strano, perché non era quella l’impressione che dava. Anche lasciando perdere la polvere sui mobili e la mancanza di tracce recenti di presenza umana, il posto sembrava disabitato, se non addirittura abbandonato.
«Esatto. In realtà non avrei neppure dovuto mostrarglielo» confermò l’agente con un luccichio nello sguardo, «perché sarà disponibile solo alla fine del mese, ma…» Si girò verso di lei. «Personalmente lo considero speciale. Green Street è un quartiere favoloso, e queste vecchie dimore vittoriane non si trovano tutti i giorni. Vanno a ruba in un batter d’occhi, perciò, se ritiene di essere interessata…»
«Può giurarci» replicò Leonie senza pensarci un secondo di più. L’appartamento era magnifico, e grazie al cielo era la prima persona che lo vedeva. Poteva essere destino o una semplice coincidenza, ma in ogni caso aveva la sensazione che finalmente qualcosa cominciasse ad andare per il verso giusto. «Quando posso entrarci?»
Qualche ora dopo telefonò a Grace.
Quando aveva sentito l’amica per la prima volta dopo la partenza, Grace, com’era prevedibile, era rimasta sbalordita nel sentire che si trovava niente meno che negli Stati Uniti.
«Allora vuoi andare fino in fondo, eh?» le chiese ora, mogia.
«Credevi scherzassi?»
«Posso capire che tu abbia sentito il bisogno di cambiare aria, ma perché sei voluta andare così lontano? Cork non ti bastava? O qualcosa del genere? Almeno avremmo potuto vederci, ogni tanto. Io San Francisco non so nemmeno individuarla sulla cartina!»
Pareva risentita, e Leonie provò una fitta di rimorso. Ovvio, Grace era ancora arrabbiata perché lei aveva lasciato Dublino senza salutarla per bene; ma non aveva avuto il coraggio di affrontarla per paura che la dissuadesse dai suoi propositi.
«Mi dispiace» mormorò. «Mi mancano le nostre chiacchierate, ma non avevo scelta.»
«Lo capisco, ma una decisione così drastica… Alla lunga, scappare non serve a niente.»
Leonie si sentì chiudere la gola. «Forse, ma per ora è l’unico modo che conosco per gestire la situazione.»
«Però di sicuro sarebbe meglio se tu fossi qui a Dublino, con le persone che ti vogliono bene, anziché tutta sola in una grande città dove di te non frega niente a nessuno.»
«Ti sbagli, qui la gente è simpatica.» Leonie ripensò all’agente immobiliare e a Carla, la receptionist dell’Holiday Inn, con cui aveva stretto una specie di amicizia nell’ultima quindicina di giorni. «Sono stati tutti molto gentili.»
Si sentiva a suo agio, da quand’era arrivata in città tre settimane prima. Il fantastico cielo azzurro e lo splendido sole della California le avevano risollevato subito il morale, e nonostante San Francisco fosse trafficata e caotica come qualsiasi metropoli, aveva anche una rilassata atmosfera bohémienne. Perciò sì, ogni tanto soffriva di solitudine e aveva nostalgia delle cose e delle persone che aveva lasciato in Irlanda, ma in parte era quello lo scopo.
Il pomeriggio stesso aveva firmato i documenti per la locazione dell’appartamento e si sarebbe trasferita alla fine del mese.
«Quanto tempo pensi di fermarti?» domandò Grace.
«Il contratto d’affitto dura sei mesi con possibilità di rinnovo, perciò non saprei. Per il tempo necessario, immagino.»
«Sei mesi?»
«Credevi sarei rimasta per quindici giorni? Che senso avrebbe?»
«Io non potrei mai piantare baracca e burattini e mollare tutto di punto in bianco. Non fraintendermi» si affrettò ad aggiungere Grace, «so che hai un’ottima ragione, ma è una scelta talmente… radicale.» Siccome Leonie taceva, continuò: «È solo che di solito sei così calma, pacata. Probabilmente non mi aspettavo che reagissi in questo modo».
«Calma e pacata quando il problema ce l’hanno gli altri, forse» ribatté Leonie. Quando si trattava di se stessa, infatti, era sempre stata una frana. E sì, forse partire era stato un gesto impulsivo, ma le era sembrato l’unico possibile.
«Hai trovato casa, allora. È fantastico. Se non altro saprò dove sei per i prossimi sei mesi. Ma adesso cos’hai intenzione di fare? Non puoi mica startene rintanata in un appartamento.»
«Adesso mi cerco un lavoro.»
Subito prima di lasciare Dublino, Leonie si era licenziata dalla Xanadu Event Management e aveva rifiutato la premurosa offerta del suo capo di conservarle il posto fino al suo ritorno, semplicemente perché non era sicura che sarebbe tornata. Aveva messo da parte un bel gruzzolo, ma sapeva che se voleva voltare pagina e ambientarsi sul serio doveva trovare un lavoro.
«È incredibile…» disse piano Grace, e Leonie riuscì quasi a immaginarla, in cucina, mentre scuoteva la testa bionda, circondata dai giocattoli dei gemelli. «E in America, per giunta…»
«Anche questa è casa mia, in un certo senso.» Leonie si riferiva al fatto che era nata negli Stati Uniti, anche se i suoi genitori, irlandesi, erano tornati a Dublino poco dopo. E dopo la separazione si erano trasferiti ancora: adesso suo padre viveva a Hong Kong e sua madre in Sudafrica con un nuovo compagno. Sarebbe potuta andare da lei, ma non voleva essere di peso, e soprattutto, se voleva buttarsi il passato alle spalle, aveva bisogno di stare da sola per un po’.
«Ascolta» mormorò Grace dopo una lunga pausa, «tanto vale che te lo dica: l’altro giorno ho incontrato Adam. Non sa che te ne sei andata.»
Per poco il cuore non le si fermò. «Non gli avrai…?»
«Certo c...