Parte seconda
18
Il bianco sembrava un motociclista con le gambe lunghe, come se, invece di trovarsi all’interno di quelle mura col filo spinato in cima, fosse comodamente seduto su un chopper in autostrada, con le gambe lunghe distese e gli stivali sui pedalini cromati. Aveva morbidi capelli castani e occhi sottili. I baffi lo facevano assomigliare a un lupo. Era pallido e grosso e quando camminava ondeggiava sui piedi come il pistone di un motore – su e giù – col mento sempre alto, un ottavo di sangue cherokee, cognome Turner.
Era in cortile con un gruppo di fuorilegge di basso rango che dicevano che potevano trasferirti ovunque nel sistema dei gulag, da uno Stato all’altro, e farti finire in isolamento. Lo scandalo per gli abusi sui prigionieri di Abu Ghraib era appena scoppiato sulla CNN. Dicevano, Avete dichiarato guerra allo Stato dell’Indiana, noi abbiamo dichiarato guerra agli Stati Uniti. Questa organizzazione è più grande degli Stati Uniti. Ce ne andiamo fuori, a tremila/quattromila chilometri da qui. Questa è una struttura. Come Al Qaida. Ci danno l’ergastolo, due ergastoli, senza possibilità di chiedere la libertà condizionata. Lo Stato mette i nostri capi in isolamento, senza contatti ventiquattr’ore su ventiquattro, e loro continuano a fare i loro giochi politici, le loro operazioni, qualunque cosa. Chi mangia e chi no. Lo Stato si porta via tutto quello che può e noi andiamo avanti come per magia.
Controlliamo la droga, controlliamo le persone. Controlliamo noi stessi. La gente ha paura di noi, qui e sulla strada. Controlliamo la nicotina, dicevano.
Jimmy, fumando una sigaretta sotto il cielo azzurro, annuiva.
Aveva un accento laconico del Queens. Non era lì da sempre, aveva incominciato a Rikers. Ho fatto la gavetta, diceva all’assistente sociale. Ci sono passato, da Rikers, per piccole condanne. Avevo una vita, più o meno. Non ho saputo cogliere le occasioni.
E fra le cose che fai, qual è quella a cui dovresti stare più attento?
La droga. Sicuramente la droga.
L’assistente sociale era una bionda obesa con l’espressione limitata a una piccola zona al centro della faccia.
Io non sono come questi altri, le diceva lui, e la guardava per vedere se la sua faccia si rilassava e si apriva un po’.
Positività , diceva.
Era stato un quindicenne con una chitarra elettrica appesa sul torace pallido e piatto, che andava avanti e indietro a piedi nudi, i capelli lunghi, stendendo la gamba come per sferrare un calcio, facendo smorfie e producendo suoni con la bocca mentre lo stereo suonava i Led Zeppelin. Faceva disegni con l’inchiostro blu indelebile sui jeans, si toglieva i jeans e disegnava direttamente sulle gambe nude. Quando gli chiedevano perché se li fosse fatti, rispondeva, Perché è una cosa artistica.
Erin disse alle sue amiche, Io so che l’ha rubata lui.
Lui non sapeva suonare, ma diceva che stava imparando da solo, come certi musicisti. I simboli volevano dire che non si sarebbe dato all’alcol come i suoi genitori.
Jimmy crebbe indossando una camicia a quadri, standosene immusonito con la bocca chiusa, una traccia di baffi sul labbro, in attesa che Patrick dicesse, Dammi la chiave inglese. Allora Jimmy prendeva la chiave inglese dalla cassetta rossa degli attrezzi e gliela dava, nello scantinato di una casa del quartiere, a due passi dallo scaldabagno e dai montanti.
Patrick era un uomo di dimensioni eroiche. Sembrava uscito da un film sulla Seconda guerra mondiale. Prima di tutto, era grosso. Aveva una grossa faccia piatta da sergente maggiore col sigaro fra i denti. Si diceva che potevi entrare in qualunque bar di Belfast e ti avrebbero detto che Patrick Murphy era un uomo molto, molto forte. Era un giocatore di hockey. Aveva la mano più energica che ti sarebbe mai capitato di stringere – una presa stritolante, mani spesse che si animavano e si trasformavano in pietra generando una pressione spietata. Doveva essere sui centoquindici chili, tutto compreso, forse di più. Meglio non farlo arrabbiare. I capelli ferrigni, sale e pepe, erano ben appiattiti all’indietro sulla testa con un’ondulazione lieve e disciplinata dove il pettine li aveva costretti a piegarsi, un piccolo rigonfiamento, alla pompadour, ma tagliati precisi sulle orecchie e sulla nuca rosso mattone, cosa che gli dava un aspetto all’antica.
Aveva partecipato ai Troubles naturalmente e aveva patito la fame da giovane. Adesso faceva l’idraulico e lavori di medie dimensioni e cose così, niente di troppo impegnativo. Mentre strisciava per terra controllando un tubo, un ciuffo di capelli gli ricadeva sulla fronte, come a Elvis.
Jimmy si era fatto tatuare un trifoglio sulla mano quando aveva quindici anni. Ma la sua mano non era forte come quella di Patrick. La sua mano scivolava sulla chiave inglese, e allora Patrick gliela prendeva e faceva lui finché il tubo si apriva.
Un’insegnante a Cardozo gli disse di fronte alla classe, Tu non sei registrato come Jimmy Murphy. Non so cosa dirti.
Pensava di essere sul punto di svelare il mistero nascosto nelle parole di una canzone, perciò la fece ripartire sullo stereo nella sua cameretta, guardando fuori dalle veneziane rotte.
La casa era piena di strani biglietti della lotteria, uno sull’altro, attrezzi da giardino e vinili. Con indosso una vestaglia, sua madre sedeva nel soggiorno con le tende di pizzo, i piedi sollevati.
Perché sono registrato come Turner? le chiese Jimmy.
Lei girò la bella faccia verso di lui e disse, Vieni qui, ti racconto una storia. Era in grande imbarazzo e la storia parlava di tutt’altro.
La casa comprendeva due abitazioni. Al piano terra c’erano le tende di pizzo e la plastica sul divano, la cucina aveva un orologio a cucù alla parete e c’era un dipinto su velluto nero di Elvis in posa da fico sopra il divano dove stava seduta sua madre. Nel giardinetto c’erano santi ed elfi. Le stanze al piano di sopra erano un caos di vestiti e rifiuti in cui sua madre ed Erin vivevano fra flaconi di profumo e shampoo e carte dei tarocchi e ferri per arricciare i capelli e maxi assorbenti e lattine di birra vuote e sigarette e album di fotografie. Potevi aprire il cassetto di un comò rotto e trovare un mazzo di Polaroid di gente e scene irriconoscibili, poi guardarti allo specchio e chiederti a chi assomigliavi. Un barbecue degli anni Settanta, sole e campi verdi e motociclette. Potevi riconoscere tua madre in una delle facce colte dall’obiettivo, gli occhi scintillanti, che alzava una birra, di venti chili più giovane.
Patrick era più grosso del suo vero padre, che aveva passato la vita in prigione e adesso stava morendo di AIDS a Morristown.
Ti do la macchina per andare a trovarlo, se volessi farlo, disse sua madre. Mica te lo proibisco. Non chiedermi di venire con te, però. Le si ruppe la voce. Per questo, non sono pronta. Si premette la mano sugli occhi e controllò il palmo in cerca di lacrime. Si strinse nella vestaglia e nella maglietta e nei pesanti pantaloncini con coulisse e passò dal salotto alla cucina in cerca della bottiglia di whisky. Dopo essersi allacciata la cintura, si appoggiò al bancone e cercò il figlio con gli occhi, nella stanza. Lo individuò. Non la stava guardando.
L’occhio, disse, tracciando una linea laterale sulla propria faccia con un dito. Lo zigomo. La mascella. Questo dente – si afferrò il labbro e lo sollevò per mostrare il canino mancante.
Cosa vuoi dire?
Voglio dire, non chiedermi di venire con te.
Ma se lei intendeva dire che era stato il padre di Jimmy, Jerome Turner, a picchiarla, Jimmy ricordava una storia diversa. Lui ricordava Patrick che litigava con lei in quella stessa casa non più di tre anni prima. Lottavano come due orsi sulle zampe di dietro, appoggiati l’uno all’altro, afferrandosi la testa, finché lui non l’aveva buttata per terra.
Avrebbero sistemato il seminterrato per trasformarlo in un appartamento dove qualcuno potesse abitare.
19
Erin diceva sempre che lei era la sacerdotessa. Il suo campo era la magia. Fece il ritratto di una donna che assomigliava a Elvira con un mantello, in piedi nel vento sotto la luna, con un lupo al fianco. Lo mostrò alla sua amica e poi disse, Secondo Maria è uno sballo. Nessun uomo può toccarla, diceva della donna del disegno. Perché ha addosso un incantesimo. E in piedi all’angolo dell’Utopia con le sue amiche, in autunno, diceva, Mio padre può andare affanculo. A sedici anni, diceva, smetto di fumare. Non vado più alle feste. Ascoltava le L7 sul walkman. Un anno più tardi diceva che dopo aveva intenzione di fare la scuola d’arte, per i miei disegni. Parlò con un ragazzo di LaGuardia che frequentava il Fashion Institute of Technology. Aveva una copia del Calice e la spada. Era diventata molto grossa e alta e c’erano cose che non aveva mai provato. Sono la sacerdotessa suprema, diceva. Non usciva più di casa. Un ragazzo che conosceva aveva dei problemi con un’altra ragazza e lei fece l’amica che ci teneva. Una volta accese delle candele per lui e gli predisse il futuro al buio, tenendogli le mani. Sapeva che non sarebbe successo nulla, perché dovevano rispettare la loro amicizia. Ti uccido se ti lasci sottomettere da lei, gli disse. Evitava Patrick, suo padre, anche quand’era sobrio. La televisione andava in pieno giorno e al posto di lei, che gli voltava le spalle, parlava la donna nel programma di Jerry Springer, che urlava, urlava, piangeva e urlava, Sei un pezzo di merda! La censuravano coi bip, bip su bip. Jerry diceva, Oh cavoli. Non si può fare così. Finse di essere tutta presa dalla magia nera, dalla magia bianca. Si imbatté in Maria dopo un anno che non la vedeva ed era diventata mamma, si era sposata con un pompiere, Kevin, e a diciannove anni stavano mettendo su casa. Io non sono brava con i bambini, disse Erin, che era vestita di nero e pesava sui cento chili coi piedi bianchi nudi e gelati sulla bilancia dietro casa. Il silenzio teso, deprimente, carico in cui viveva, decifrando i suoni, il modo in cui gli scarponi risuonavano quando lui entrava dalla porta, fino a che punto era ubriaco e fino a che punto era arrabbiato. Era l’amica di sua madre, ma non la migliore. L’aiutava a sistemare le statuine in giardino per la stagione. Posizionava il Gesù a torso nudo. Faceva arrivare i sandwich o la torta dalla 162nd Street se accadeva qualcosa di speciale a qualcun altro, se qualcuno cambiava vita. Sapeva le novità degli altri. Faceva parte della Wicca, faceva parte dei suoi poteri. Una volta disse alla sua amica, C’è un altro lato della vita, un’altra dimensione. Come faceva a saperlo? Perché quand’ero più giovane ho tentato di uccidermi. E così ho visto. Appese dei campanelli a vento – un cerchio di metallo, un cerchio dentro un cerchio – al cornicione della casa. Quand’era giovane, una volta rientrò da scuola tutta eccitata e c’era qualcosa di sbagliato. Era sola. Alla fine capì che non lo era affatto. Dal seminterrato emerse una persona. I suoi passi salirono le scale e lei disse, Che cazzo stavi facendo, Jimmy? L’unica cosa che vide furono i lunghi capelli che gli coprivano la faccia sicché non aveva faccia e il pentagramma che si era disegnato sul petto bianco. Lei era soltanto una ragazza grassa. Suo padre le dava della puttana. Il rock di suo fratello rimbombava dal piano di sopra. Fuori le macchine andavano e venivano, sentiva i motori e le grida. Le minacce e i tafferugli e le risse che immaginavi per la strada anche quando non li vedevi. La gente usciva fuori a guardare. Si sentiva l’eco delle grida, l’energia. Qualcosa che cadeva. A volte correvi a vedere o ad aiutare. A scuola aveva picchiato una ragazza in mezzo a una banda di coetanei, tutti coi giubbotti dei Raiders. Le luci rosse dei lampeggianti schiaffeggiavano le finestre. A volte qualcuno bussava alla porta, diceva, Permesso? Polizia. E lei li sentiva entrare per arrestare uno di loro, o per misurare la pressione a sua madre, darle una borsa del ghiaccio, guardarle l’interno del labbro con dei guanti blu e una torcia, e dire, Ha perso un dente. La decorazione di ceramica che sua madre aveva messo sul portico diceva RESPIRA A FONDO, SEI A CASA. La violenza aveva dei cicli, come la luna.
Ma suo fratello venne fuori dal nulla. Quando lei era giovane, mancò poco che finisse in guai seri. Le accuse non vennero mai formalizzate, ma dissero che aveva fatto qualcosa a una ragazza. La ragazza era un’amica di Erin che era venuta a trovarla. Jimmy aveva suonato la chitarra per lei su sua richiesta, nient’altro. In seguito, quando Erin seppe quello che l’amica raccontava in giro, replicò, Dici bugie su mio fratello. La ragazza sosteneva che aveva tentato di violentarla. In teoria, era talmente sconvolta che ne aveva parlato al prete. Invece di denunciare la cosa alla polizia, preoccupato per la privacy, il prete aveva chiamato la madre della ragazza. La madre della ragazza aveva chiamato la madre di Erin piangendo e gridando al telefono e adesso tutto il quartiere lo sapeva e tutta la scuola anche. ...