La casa del colonnello
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La casa del colonnello

  1. 216 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La casa del colonnello

Informazioni su questo libro

Sono imponenti come cattedrali, le bianche pareti delle cave sulle Alpi Apuane. La polvere di marmo ricopre le braccia abbronzate dei cavatori, attenuando i contrasti sotto il sole che batte senza pietà. In mezzo a loro sta un uomo e osserva lo scorcio di mare che, ai piedi delle montagne, si confonde con il cielo. Ha appena compiuto cinquantacinque anni e sente che è arrivato il momento di guardarsi indietro. Così, la sera, tira fuori da un cassetto una vecchia scatola di latta colma di fotografie, e il diario scritto tanto tempo prima da suo padre. Sfiorando quelle immagini e quei racconti, insegue i ricordi dell'infanzia a ritroso in un'epoca magica in cui realtà, sogno e leggenda si mescolano. Dalla memoria riaffiorano rumori, oggetti, volti e storie: come quella del colonnello che lassù costruì una grande casa per accogliere la sua amata, una nobildonna veneziana; o della vedova che al tramonto ballava con la sua mucca. Per l'uomo, rivivere quelle emozioni genera stupore e domande sul mistero della vita, sul tempo che tutto travolge eppure mantiene inalterato il senso di appartenenza a una comunità orgogliosa e felice. Innamorato della sua terra e della sua gente, Alvise Lazzareschi ha scritto un romanzo corale, intimo, che ci conduce proprio lì, in quel piccolo mondo antico dove la montagna mostra la sua materia e, come d' incanto, ci si sente più vicini al cuore delle cose.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2016
Print ISBN
9788817086868
eBook ISBN
9788858684122

1

La scatola delle fotografie

Domani inizierà la consueta pausa: le ferie che già l’imperatore Augusto, nella sua mirabile arte di governare, concedeva ai sudditi nel tempo più caldo dell’anno.
Quel mare laggiù mi suggerisce di non entrare, stavolta, nei consueti ingranaggi delle vacanze, in quei programmi prestabiliti che affaticano ancor più il corpo e lo spirito lasciando il vago senso del fallimento, e che non hanno altro scopo che quello di far sognare – insipientemente – l’ultima frustrazione della vita: la pensione.
Quest’anno l’itinerario lo decido io, e sarà certo il viaggio più originale finora intrapreso.
Sarà un viaggio nel passato. Un passato appeso in un angolo della memoria e a lungo lasciato lì, per permettere alla baracca di procedere verso gli sconosciuti lidi del futuro.
D’improvviso mi accorgo che il passato, quel passato vissuto nell’inconsapevolezza di un bambino, è almeno altrettanto sconosciuto di quanto lo sia il futuro, o di quanto lo sia una mèta turistica più o meno esotica.
Una cosa sono gli eventi mentre si vivono, altra sono quegli stessi eventi rivissuti e legati alla catena invisibile del senso e del significato.
Ed eccomi, come in un espediente filmico, a cercare la famosa scatola di latta decorata.
È là da sempre, perennemente impolverata e un po’ scolorita, nel ripiano più basso della libreria dello studio che fu di mio padre. È una di quelle scatole di biscotti delle feste, sicuramente il dono natalizio di qualche vecchia zia, a qualche vecchio bambino in un tempo finito chissà dove.
È da sempre, come da copione, il classico ricettacolo delle fotografie di una volta.
Già, quelle fotografie, un po’ sbiadite, dell’era dei rullini, quando le pellicole si portavano a sviluppare in città e si doveva aspettare una settimana per poterle vedere. Un passato che sembra già remoto, ma che in effetti è appena tramontato dietro l’angolo di ieri.
Passo tra le dita alla rinfusa immagini evocanti momenti dell’infanzia o dell’adolescenza. Specchio i miei occhi di cinquantenne dentro quelli di quel bambino che misteriosamente è rimasto appiccicato alla mia pelle. Lo stesso spirito dentro una statura diversa, dentro una coscienza navigata.
Inseguendo reminiscenze antiche, tra quelle foto mi imbatto in una grossa busta gialla, col classico odore della carta stantia.
La apro curioso: ci sono pagine di quaderno, dove riconosco la mia calligrafia, e un disegno, sempre mio, a quanto pare.
Mi incuriosisce, per primo, il testo scritto. Sì, è opera mia, ma non di bimbo, bensì di ragazzino, di adolescente, forse dei tempi del ginnasio.
Non ricordo affatto queste pagine, né mi aiuta il titolo:
Storie di straordinaria normalità.
Inforco gli occhiali e inizio a leggere non senza un certo stupore:
Libero prigioniero di una Terra con i confini curvi, uomo di ieri e di domani, testimone di un frammento di spazio nel balenare rapido di un intervallo di tempo. Lascio all’altrui memoria i ricordi del bambino che ancora oggi si affaccia alla finestra della mia adolescenza per curiosare tra le cose che esistono.
Ciò che io ricordo…
Ciò che conta del tempo e del luogo lo posso descrivere attraverso la memoria, quando questa affiorava appena alla coscienza. Sarà il ricordo dei sensi, esasperati nel continuo stupore quotidiano: le cinque finestre del corpo che senza sapere sentono quello che il sapere non sa.
Ciò che io ricordo della nostra infanzia…
La nostra infanzia, mia e di quelli che, con me, hanno vissuto questo stesso sentire legato a un preciso luogo uguale e distinto da tutti i Luoghi.
Ciò che io ricordo…
I nostri occhi, in estate, vedevano soprattutto il colore bianco e il colore verde: ma se stavamo attenti, il bianco aveva molti colori dentro di sé; ed il verde danzava intorno a mille sfumature, fino a sfiorare i confini del giallo e del blu: toni un po’ isterici come melodie suonate con strumenti a corde troppo tese. I colori sbavavano nelle nostre anime sentimenti di inquieta felicità, come un primordiale inno all’esistenza, un rito pagano al dio di tutte le cose.
In inverno il bianco si incupiva nel grigio ed il verde si inquinava col colore della terra. Il bianco ingrigito ed il marrone trasudavano e colavano liquidi per l’umidità che tutto ammantava e penetrava, come penetrano gli odori delle spezie nel sangue e nella carne.
La spezia è molto più di un odore. La spezia penetra dentro di noi e si impossessa dei più profondi istinti. La cannella è capace di evocare i colori di antiche e gigantesche cucine, oppure quelli del profondo Oriente, le danze di incantevoli fanciulle, le nenie che si levano dai minareti nelle notti calde. Le nostre menti di bambini, anche se libere dai condizionamenti culturali, si risvegliavano ugualmente, con l’odore di cannella, ad un “Oriente mistico”, innato dentro di noi, inscritto come gli altri caratteri nel DNA dell’Homo sapiens. Un Oriente come segno di lontananza dallo spazio, dal tempo e dalla coscienza. Droga benefica che libera la mente dalla persuasione di essere creature indispensabili alle sorti dell’Universo.
Poi c’era l’odore del cuoio. Quel buon odore, come quando i genitori ci portavano in città per comperarci, dietro vetrine luccicanti, le scarpe nuove. E c’era l’odore dell’aglio, rassicurante, eternamente presente in ogni stagione come la buonanotte della sera. La sera era lunga da quelle parti, ma quando compariva la luna piena i nostri occhi potevano vedere il paesaggio trasfigurarsi. E sembrava che tutto brillasse di luce propria. Sembrava anche che quel disco lassù, quella facciona triste e spaurita, si stupisse insieme a noi per come le cose cambiano d’aspetto; e non si sapeva più se la verità del mondo fosse quella lì, strana, della notte o quella abituale che ci appariva alla luce del sole.
Ed ancora nelle narici penetrava l’odore della muffa, soprattutto in autunno, quando le piogge si facevano più insistenti. Quello di muffa è forse l’odore più importante per capire il senso della vita. È lì per ricordarti che la morte non esiste, che addossata a una vita che finisce si aggrappa subito un’altra vita ed il ciclo non può fermarsi mai e la morte sta solo nel mummificare, nel congelare, nella mania moderna di rendere tutto asettico per non voler ammettere che le cose devono finire. A questo noi bambini non potevamo pensare, ma l’odore di muffa con le sensazioni di ribrezzo e di euforia che risvegliava in noi era la lezione più eloquente.
Sempre in autunno c’era l’odore della terra impregnata di vino, come di sangue: il sacrificio della vite per l’ebbrezza dell’uomo.
Del sangue ricordo il sapore di ferro quando, rialzandoci dalle cadute, portavamo istintivamente alla bocca le parti ferite degli arti. E poi c’era il sapore della frutta acerba nelle giornate inquiete, e la sera, infine, quello dolce dello zucchero che conciliava il sonno.
Le nostre tenere carni di bambini provavano freddo e caldo; più spesso il freddo, che si impadroniva delle nostre estremità, dei piedi e delle dita delle mani quando, a sera, finiti i giochi si era obbligati a rientrare in casa. Il caldo vero è solo un ricordo più lontano là dove il sudore accecava nella salita di pietra, nelle estati abbaglianti, quando le foglie un po’ opache degli alberi tremolavano leggermente nell’aria quasi immobile e si stendevano tutte per nutrirsi di quanta più luce possibile; quando le cicale emettevano il loro canto ossessivo che, insieme al respirare ed al camminare, dava l’impressione di una vita rallentata – se non di un tempo vicino a fermarsi, per la stanchezza dell’esistere.
Anche i suoni cadevano ritmati nel sole. Erano suoni incomprensibili, come quando i pescatori antichi tiravano su le reti. Le loro mani prosciugate dal sale, poi, separavano i pesci buoni dalle cose inutili, e le conchiglie vuote le ributtavano in mare. Nella sera i suoni si facevano tristi melodie ed uscivano insieme alla luce fioca e rossastra dai fondi umidi dove si beveva il vino. Infine, nella notte si alzavano suoni di immortali arie melodrammatiche, tempeste che irrompevano nel quieto e sottile rumore del silenzio; e d’improvviso Druidi e Sacerdotesse si mettevano a cantare inni alla notte e alla guerra secondo il belcanto dell’Ottocento italiano.
Era un luogo diverso da tutto. Era un luogo definito, con un limite ben preciso. Era un limite soggettivo, era un luogo incatenato alle origini e circondato da una spessa muraglia di incomprensione e diffidenza. Anche il cielo pareva avere confini limitati. Il suo colore incerto dalle mille sfumature grigio-piombo impediva alla mente di spaziare oltre la decenza consueta.
Soltanto quel piccolo spicchio di mare giù all’orizzonte offriva alla libertà un respiro più ampio…
“Ma guarda” penso, “sono passati forse più di quarant’anni, ma quel ragazzo è ancora lì, tenace, dentro di me, ad assaporare le stesse emozioni di quei sensi in festa.”
Sono ancora più deciso: questo è il viaggio che intraprenderò quest’anno. Le mie ferie vissute in compagnia di me stesso bambino… Ma saranno davvero quel tempo e quel bambino?

2

Il Cudurzin

I ricordi immortalati nella mia adolescenza si mescolano indistinti con quelli del mio oggi. Occorre farli tornare laggiù, all’epoca del disegno che esce, ora, dalla stessa busta gialla.
Tiro fuori quel vecchio foglio. È a quadretti e i segni sono quelli incerti di un bambino che cercava di esprimere qualcosa.
C’è anche una scritta, che spero mi aiuti a ricordare. In una bella grafia rotonda leggo: 19 marzo 1965. Tanti auguri babbo, Alvise.
Ma sì, certo! Lo feci in prima elementare su ordine della maestra. Ritrae un uomo stilizzato di profilo, con un grosso cappello marrone; davanti a lui qualcosa che sembra la vetta di una montagna bianca: una cava, e da questa partono come tanti uccellini che vanno verso l’uomo con il cappello marrone.
Mi sembra di ricordare più distintamente, adesso. Tutti quei piccoli uccellini, nel mio intento di giovane artista, non erano altro che un solo uccellino, ripreso nelle varie fasi del volo, come in una sequenza cinematografica, sì che dalla cima della montagna di marmo andasse verso mio padre.
Osservo il tipo di uccellino che avevo voluto rappresentare. Si vede bene quanto avessi insistito su due particolari: la coda, colorata calcando molto e con forza con una matita rossa, e l’occhio, ben evidenziato con una matita scura, sì da farlo apparire vigile e attento.
È un Cudurzin! L’uccellino dalla coda rossa, in italiano “codirosso spazzacamino”, amico di chi abita queste montagne, che un giorno della mia infanzia avevo dedicato a mio padre cavatore affinché lo proteggesse. Lui che, come tutti noi, sapeva cos’era il suo mestiere, conosceva il valore di ogni giornata, aveva la consapevolezza del pericolo e il coraggio per continuare e per dare un senso a quello che faceva.
Il Cudurzin è l’uccellino nostro, tutti sanno che c’è. Lo sapevo io quando avevo appena sei anni, lo sanno i vecchi più vecchi che attendono la morte, lo sa bene chi vive quelle angosce profonde che paralizzano la vita.
Impossibile vivere senza di te, piccolo e leggero uccellino dalla coda rossa che a differenza di tanti tuoi simili non costruisci il nido tra le fronde degli alberi, ma vivi tra gli anfratti delle rocce, lassù, nelle vette più alte, e vieni verso di noi per portarci un po’ di pace, per proteggerci, sollevare i nostri cuori dalla cappa che a volte li opprime.
Nessuno ti ha mai visto, piccolo uccello discreto e silenzioso. Eppure tutti noi lo sappiamo: lo sappiamo che ci sei!
Perché siamo così certi del tuo esistere? Da quanto tempo si tramanda la tua storia?
Sì, la tua storia che siede leggera in un angolo nascosto della mente di quel bimbo che affiora oggi dentro di me. Non è una favola, nel senso classico, una di quelle storie create da grandi che dall’epoca ellenica ai nostri giorni hanno generato il patrimonio collettivo di ogni uomo che sia stato almeno una volta bambino.
Non è nemmeno una leggenda, una di quelle vicende che appartengono a moltitudini di popoli e formano la loro consolidata identità. E non è nemmeno un mito, anche se gli assomiglia molto, perché il mito, sebbene come la nostra storia appartenga all’intimo di ogni epoca e sbocchi nelle pieghe della psiche, è troppo serio, solenne e universale.
La storia ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prologo
  4. 1. La scatola delle fotografie
  5. 2. Il Cudurzin
  6. 3. Il diario del babbo
  7. 4. La Pina
  8. 5. La Poffana
  9. 6. La pisolanca
  10. 7. Gli spartani
  11. 8. La cava della Luna
  12. 9. Gogietta
  13. 10. La ladra
  14. 11. Manrico
  15. 12. La casa del Colonnello
  16. 13. La Fontana
  17. 14. La Gea
  18. 15. Nonno a novembre
  19. 16. Saulle
  20. 17. Medea
  21. 18. La casa sull’albero
  22. 19. Carlòn
  23. 20. Zapata
  24. 21. Marullo
  25. 22. Aroldo
  26. 23. Il gallettino di marzo
  27. 24. Calaf
  28. 25. La Norma
  29. 26. La straniera
  30. 27. Il disco volante
  31. 28. Blum
  32. Epilogo
  33. Indice