Cercando Alaska
eBook - ePub

Cercando Alaska

  1. 231 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Cercando Alaska

Informazioni su questo libro

Miles Halter è affascinato dalle ultime parole di personaggi famosi ed è stanco della sua vita a casa. Parte quindi in collegio per cercare il suo "Grande Forse", come ebbe a dire il poeta François Rabelais in punto di morte. Alla scuola di Culver Creek lo aspetta, tra gli altri, Alaska Young. Intelligente, spiritosa, svitata e molto sexy, trascinerà Miles nel labirinto della sua complicata esistenza, catapultandolo nel mondo dei Grande Forse. Un esordio che in pochissimi anni è diventato un classico della narrativa per ragazzi (e non solo), arricchito di contenuti speciali in occasione del decimo anniversario della sua pubblicazione.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Cercando Alaska di John Green in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Letteratura e Letteratura generale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2016
Print ISBN
9788817088114
Prima

centotrentasei giorni prima

La settimana prima di lasciare la mia famiglia, la Florida e tutto il resto della mia vita da ragazzino per andare in un collegio dell’Alabama, mia madre insisté per infliggermi una festa d’addio. Dire che non mi aspettavo granché sarebbe sottovalutare clamorosamente la realtà. Ero stato più o meno obbligato a invitare tutti i miei “amici di scuola”, cioè l’accozzaglia di svitati del laboratorio di teatro e di secchioncelli intellettuali con cui condividevo, per esigenze sociali, la squallida mensa del mio liceo pubblico, ma sapevo che non sarebbe venuto nessuno. Eppure mia madre si incaponì, cullandosi nell’illusione che in tutti quegli anni io le avessi nascosto la mia immensa popolarità. Preparò una ciotola di salsa di carciofi formato piscina. Appese in salotto festoni verdi e gialli, i colori della mia nuova scuola. Comprò due dozzine di candeline pirotecniche e le dispose intorno al bordo del tavolino del soggiorno.
E alle 16:56 di quell’ultimo venerdì, quando i miei bagagli erano quasi pronti, si sedette sul divano del salotto insieme a mio padre e a me, e si mise ad aspettare pazientemente l’arrivo del Battaglione “Addio, caro Miles”. Detto battaglione si rivelò composto da due persone due: Marie Lawson, una biondina smilza con gli occhiali rettangolari, e il suo fidanzato Will, un tipo che definirò cicciottello per carità di patria.
«Ehilà, Miles» disse Marie, sedendosi.
«Ehilà» dissi io.
«Come ti è andata l’estate?» chiese Will.
«Bene. A te?»
«Non c’è male. Abbiamo fatto Jesus Christ Superstar. Io ho dato una mano per le scene, Marie curava le luci.»
«Che figata» approvai con aria competente, e con questo gli argomenti di conversazione erano praticamente esauriti. Avrei potuto chiedergli qualcosa su Jesus Christ Superstar, sennonché: 1) neanche sapevo cosa fosse, 2) non mi importava saperlo e 3) fare conversazione non è mai stata la mia specialità. Comunque, la mamma era capace di chiacchierare per ore intere, e tamponò l’imbarazzo riempiendoli di domande su come avevano organizzato le prove, com’era andato lo spettacolo e se era stato un successo.
«Direi di sì» fece Marie. «C’era un bel po’ di gente, direi.» Marie era il tipo che “direbbe” un sacco.
Alla fine, Will disse: «Be’, abbiamo solo fatto una scappata per salutarti. Devo riportare Marie a casa per le sei. Divertiti in collegio, Miles».
«Grazie» dissi, sollevato. L’unica cosa peggiore di una festa con solo due persone è una festa con solo due persone immensamente e abissalmente insignificanti.
Se ne andarono. E così rimasi seduto con i miei genitori a fissare la tivù spenta. Avevo una gran voglia di accenderla, ma sapevo che non era il caso. Sentivo i loro sguardi su di me, pronti a vedermi scoppiare a piangere o cose del genere, come se non avessi saputo dal primo momento che sarebbe andata proprio così. Ma lo sapevo, io. Avvertivo la loro commiserazione mentre intingevano le patatine nella salsa di carciofi destinata ai miei amici immaginari, ma erano loro quelli da commiserare, non io. Io non ero deluso. Le mie aspettative si erano realizzate.
«È per questo che vuoi andartene, Miles?» domandò la mamma.
Ci pensai un momento, sforzandomi di non guardarla.
«Oh… no» risposi.
«E allora perché?» chiese lei. Non era la prima volta che sollevava la questione. La mamma non faceva i salti di gioia all’idea di mandarmi in collegio, e non l’aveva mai nascosto.
«Lo fai per me?» domandò papà. Lui era stato a Culver Creek, la scuola alla quale mi ero iscritto, c’erano stati i suoi due fratelli e tutti i loro figli. Credo che gli piacesse l’idea di vedermi seguire le sue orme. Gli zii mi avevano raccontato un sacco di storie su quanto era famoso papà in quella scuola. Era quello che faceva più casino, e anche quello che prendeva i voti migliori in tutte le materie. Molto meglio della vita che facevo io in Florida. Ma no, non lo facevo per lui. Non proprio.
«Aspettate un attimo» dissi. Andai nello studio di pa pà e cercai la sua biografia di François Rabelais. Mi piaceva leggere le biografie degli scrittori, anche se (come nel caso di Monsieur Rabelais) non avevo mai letto le loro opere. Sfogliai il libro verso la fine e scovai la frase segnata con l’evidenziatore. (NON USARE MAI UN EVIDENZIATORE SUI MIEI LIBRI, papà me l’aveva detto mille volte. Ma conoscete un altro modo per trovare subito ciò che cercate?)
«Ecco, c’è questo signore» dissi, affacciandomi sulla soglia del salotto. «François Rabelais. Poeta. E le sue ultime parole sono state: “Vado a cercare un Grande Forse”. Ecco perché voglio andare via. Così non dovrò aspettare di essere in punto di morte per mettermi in cerca di un Grande Forse.»
Questo li mise a tacere. Stavo inseguendo un Grande Forse, e sapevano quanto me che non l’avrei certo incontrato sotto forma di Will e Marie. Tornai a sedermi sul divano, in mezzo a mamma e papà, lui mi mise il braccio intorno alle spalle, e rimanemmo lì a lungo, vicini, in silenzio, finché non parve più fuori luogo accendere la tivù. Cenammo con la salsa di carciofi e guardammo History Channel, e per essere una festa d’addio sarebbe potuta finire anche peggio, questo è certo.

centoventotto giorni prima

In Florida faceva un gran caldo, e pure umido. Così caldo che i vestiti ti si appiccicavano addosso come nastro adesivo e il sudore ti sgocciolava dalla fronte negli occhi, a mo’ di lacrime. Ma faceva caldo solo all’aperto, e di solito io stavo all’aperto solo quando mi spostavo da un locale climatizzato a un altro.
Non ero preparato allo specialissimo tipo di calura che mi aspettava venticinque chilometri a sud di Birmingham, Alabama, alla scuola superiore di Culver Creek. I miei avevano parcheggiato il SUV nel prato a pochi metri dalla mia camera, la numero 43. Ma in quel breve avanti-e-indietro dalla macchina per scaricare i miei bagagli, che di colpo sembravano diventati un’infinità, il sole rovente mi trapanava la pelle attraverso i vestiti, con un’implacabile ferocia che mi fece temere di essere finito dentro le fiamme dell’inferno.
Con tre facchini – mamma, papà e me – lo scarico bagagli fu questione di pochi minuti, ma la mia camera, priva di aria condizionata, non si rivelò molto più fresca, anche se per fortuna il sole non ci batteva. La stanza fu una sorpresa: mi aspettavo soffici tappeti, boiserie, mobili vittoriani. A parte l’unico lusso di un bagno privato, era una scatola. Pareti di cemento ispessite dalle imbiancature, pavimento di linoleum a scacchi bianchi e verdi. La stanza su cui avevo tanto fantasticato sembrava una camera d’ospedale. Un letto a castello di legno grezzo con materassi rivestiti di vinile stava di fronte alla finestra che dava sul cortile retrostante. Le scrivanie, le cassettiere e gli scaffali erano fissati lungo le pareti, per scoraggiare eventuali slanci creativi nell’arredamento. E niente aria condizionata.
Mi sedetti sul materasso di sotto mentre mia madre apriva il baule. Prese una pila di biografie, quelle che mio padre mi aveva permesso di portar via, e le sistemò sugli scaffali.
«Ci penso io, mamma» dissi. Papà rimase in piedi. Era già pronto a ripartire.
«Lascia almeno che ti faccia il letto» disse la mamma.
«No, dai. Posso farlo io. Va bene così.» Certe cose non puoi prolungarle all’infinito. Viene il momento in cui devi strappar via il cerotto. Fa male, ma poi passa e ti senti meglio.
«Miles… ci mancherai tanto» disse la mamma tutto d’un fiato. Attraversò il campo minato di valigie per avvicinarsi al mio letto. Mi alzai e ci abbracciammo. Papà ci raggiunse, e formammo una specie di grappolo. Era troppo caldo, e noi troppo sudaticci perché l’abbraccio si facesse lungo. Avrei dovuto spargere qualche lacrima, lo sapevo, ma avevo vissuto con i miei genitori per sedici anni, e quella prova di separazione aveva l’aria di arrivare con un certo ritardo.
«Tranquilla, ma’» scherzai, imitando l’accento dell’Alabama. «Imparerò a parlare come un gentiluomo del vecchio Sud.» Lei rise.
«Non fare stupidaggini, eh?» disse papà.
«Okay.»
«Niente droga. Niente alcol. Niente sigarette.» Quando ci andava lui, a Culver Creek, aveva fatto le cose che io conoscevo solo per sentito dire: feste clandestine, correre nudi per i campi di fieno («tutti maschi» precisava sempre con disappunto), droghe, alcol e sigarette. Gli ci era voluto un po’ per smettere col fumo, ma il capitolo selvaggio l’aveva chiuso da un pezzo.
«Ti voglio bene» proruppero entrambi. Era inevitabile. Ma sentirglielo dire mi mise terribilmente a disagio. Era come spiare i nonni mentre si baciano.
«Anch’io vi voglio bene. Vi chiamerò tutte le domeniche.» Non c’era telefono nelle stanze, ma, su richiesta dei miei, camera mia si trovava vicino a uno dei cinque telefoni a scatti che Culver Creek metteva a disposizione degli allievi.
Mi abbracciarono di nuovo, prima mamma, poi papà. Fine. Dalla finestra di dietro, guardai la macchina che si avviava lungo la strada tortuosa che portava fuori dal campus. Era il momento giusto per concedermi un po’ di malinconia sdolcinata. Ma quello che volevo era soprattutto un po’ di fresco, così presi una sedia da una delle scrivanie e mi misi fuori dalla porta, all’ombra della tettoia, nella vana attesa di un refolo inesistente. L’aria era ferma e soffocante, come dentro la stanza.
Osservai il mio nuovo domicilio. Sei edifici a un solo piano, con sedici camere ciascuno, disposti a stella intorno a un grande spiazzo erboso circolare. Sembrava un motel vecchio stile formato gigante. Un po’ dappertutto vedevo ragazzi e ragazze che si abbracciavano, sorridevano, camminavano insieme. Sotto sotto, speravo che qualcuno venisse ad attaccare bottone. Immaginavo il dialogo:
“Ciao, è il primo anno per te?”
“Eh, già. Vengo dalla Florida.”
“Forte! Allora ci sei abituato, al caldo.”
“A questo caldo qui? Non ci sarei abituato neanche se venissi dall’Ade.” Con questa battuta avrei fatto colpo. Caspita, è spiritoso! Che sagoma, quel Miles!
Non successe, ovviamente. Mai che le cose andassero come mi aspettavo.
Mi annoiavo. Rientrai, mi sfilai la maglietta, mi buttai sul vinile rovente del materasso e chiusi gli occhi. Non avevo mai sperimentato una rinascita, con il battesimo, gli strilli e tutto il resto. Ma non doveva essere molto più piacevole che rinascere così, come uno senza passato. Ripensavo ai personaggi famosi – John Kennedy, James Joyce, Humphrey Bogart – che avevano studiato in un collegio, alle loro avventure (Kennedy, ad esempio, adorava gli scherzi goliardici). Mi lambiccavo sul Grande Forse, sulle cose che mi sarebbero successe, sulle persone che avrei incontrato, su chi avrei avuto come compagno di stanza (tempo prima la scuola mi aveva comunicato per iscritto il suo nome, Chip Martin, e nient’altro). Chiunque fosse Chip Martin, pregai che arrivasse con un arsenale di ventilatori, perché io non ne avevo portato neanche uno, e sentivo che il mio sudore stava già formando dei laghetti sul materasso di vinile. La cosa mi disgustò a tal punto che smisi di rimuginare e alzai le chiappe in cerca di un asciugamano. “Va be’” pensai, “l’avventura comincia quando hai finito di disfare i bagagli.”
Riuscii ad appiccicare al muro una carta col planisfero terrestre. Avevo già tirato fuori quasi tutti i vestiti quando mi accorsi che l’aria calda e umida faceva sudare perfino le pareti. Decisamente, per i lavori manuali non era il momento giusto. Era quello giusto, anzi, giustissimo, per una fantastica doccia gelata.
Il bagnetto aveva uno specchio a tutta altezza dietro la porta, e non potei evitare lo spettacolo di un me stesso nudo come un verme che trafficava con i rubinetti. La mia magrezza non finiva mai di sorprendermi. Il mio braccio ossuto sembrava avere lo stesso diametro dalla spalla al polso, sul torace non c’era ombra di grasso né di muscoli. Mi sentivo a disagio. Il problema specchio andava risolto in qualche modo.
Spalancai la tendina bianca e mi infilai nella cabina. Purtroppo la doccia sembrava progettata per un essere alto poco più di un metro, così che l’acqua fredda mi arrivava sulle costole più basse con tutta la potenza di un rubinett...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Prima
  5. Dopo
  6. Scene Eliminate
  7. Inizio, Prima Stesura, agosto 2003
  8. Primo Incontro, Prima Stesura, agosto 2003
  9. Il Funerale, Prima Stesura, agosto 2003
  10. Il Funerale, revisione del gennaio 2004
  11. Il Funerale, revisione del marzo 2004
  12. Prima e Dopo Contando I Giorni di Alaska
  13. Domande e Risposte di John Green