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Il leone in inverno
La cronaca produttiva di Papillon è una tale saga di sfortune, dissidi e complicazioni che pare straordinario il fatto che una pellicola sia potuta venir fuori da una simile situazione, e tanto più che ne sia scaturito un film di successo. Ci sono problemi finanziari sin dall’inizio. Una compagnia intraprende il progetto, ma si tira indietro quando il budget va fuori controllo. È a quel punto che la Allied Artists ne prende le redini. E, quando ciò accade, si decide che al film occorre il genere di assicurazione sull’esito al botteghino che solo due stelle possono garantire, di farne cioè una specie di Butch Cassidy – il film con Paul Newman e Robert Redford di poco precedente – tanto per rendere l’idea. Steve McQueen nel ruolo del protagonista è già un buon inizio, ma Steve McQueen più Dustin Hoffman nella parte del suo compagno di prigione sarebbe ancora meglio. Hoffman è disponibile, l’accordo è sottoscritto poco prima dell’inizio delle riprese.
Il problema consiste nel fatto che la sceneggiatura, opera di Lorenzo Semple Jr. – per altri versi piuttosto soddisfacente – non prevede un ruolo per Dustin Hoffman. Una stella necessita per forza di una parte di spicco. Qualcuno deve scriverne una per lui, ed è da fare quasi in simultanea con le riprese.
In una situazione del genere, c’è uno scrittore – e uno soltanto – disponibile al compito. «Forse non sarò il miglior sceneggiatore a Hollywood» afferma Dalton Trumbo «ma sono senza dubbio il più veloce.»
In molti lo considerano il migliore, comunque. Tra questi c’è anche Franklin Schaffner. Il regista di Papillon sottopone il problema a Trumbo spiegando che lo sceneggiatore deve recarsi sul posto e riscrivere la sceneggiatura durante le riprese. Trumbo accetta il lavoro in cambio di un’ottima retribuzione; sta infatti tentando di riprendersi dalle perdite dovute al fallimento della produzione di E Johnny prese il fucile. Può fare poco riguardo a preparazione e ricerca, semplicemente perché non ne ha il tempo. Legge il romanzo Papillon, naturalmente; «Un libro dannatamente noioso» commenterà in seguito. Butta giù un canovaccio nel quale inserire Dega, il falsario, personaggio interpretato da Dustin Hoffman. Una struttura abbozzata a grandi linee, tale da soddisfare più o meno tutti.
Per costruire il ruolo di Dega, il libro di Henri Charrière è di poco aiuto. Lì si tratta di un personaggio minore che nella vicenda esce velocemente di scena. Nel film, ovviamente, è imperativo che rimanga. Che tipo di uomo dev’essere? Trumbo e Hoffman passano del tempo assieme, nelle poche settimane restanti prima dell’inizio delle riprese. Discutono a lungo della questione. Più a lungo discorrono e più Hoffman impara a conoscere Trumbo, e più si convince che Dega dovrebbe essere, per certi aspetti importanti, simile a Trumbo stesso. «È davvero un tipo esuberante, grintoso,» dichiara in seguito Hoffman a un intervistatore «possiede una combinazione di durezza, sottigliezza e integrità che sentivo giusta per Dega. E così gli ho detto: “Perché non scrivi il personaggio prendendo spunto da te stesso, per così dire?”» E Trumbo fa proprio così, andando in Spagna dopo aver completato solo sessanta pagine di una sceneggiatura molto corposa, e poi in Giamaica, senza mai scrivere più di venti pagine in anticipo rispetto al girato, mentre il film è in produzione. Non è di certo, per dirla con un eufemismo, un modo facile di lavorare; ma Trumbo è perfetto per il ruolo, e se ci sono ritardi nella produzione di Papillon (e ce ne sono continuamente), non sono imputabili a lui.
Le riprese in Spagna procedono bene, a ritmo piuttosto spedito. È la parte del film che si immagina abbia luogo in Francia: i prigionieri ammanettati destinati alla colonia penale condotti dai soldati come animali per le vie, e poi dentro un cortile polveroso e battuto dal sole. Qui vengono fatti spogliare e obbligati ad ascoltare il direttore della prigione che li informa che solo pochi di loro sopravvivranno alla pena carceraria e che nessuno tornerà a casa, perché per la Francia non esistono più. È un discorso crudele, certo, ma importante e persino necessario, visto che imposta perfettamente il tono del film e prepara lo spettatore alle crudeltà che seguiranno. Nel film, il discorso è pronunciato dall’uomo che lo ha scritto: Dalton Trumbo.
Franklin Schaffner, che lo vuole per la parte, insiste che non c’è alcun aneddoto particolare dietro quella scelta, né alcuna intenzione d’ironia (il direttore di un carcere interpretato da un ex detenuto, quale in effetti è Trumbo). Quando afferma che per la parte aveva fatto l’audizione a due attori inglesi ma che una mattina, svegliandosi, aveva detto a se stesso che sarebbe stata di Trumbo… ebbene, quello che ci vuole comunicare, penso, è che si è improvvisamente reso conto dell’intensa qualità istrionica dell’uomo, del senso del dramma che Trumbo proietta con aria quasi indifferente, ma del quale è sicuramente sempre conscio. Dalton Trumbo è un attore nato.
È quando la produzione si sposta in Giamaica, però, che cominciano ad arrivare i guai veri e i problemi finanziari. Ci sono difficoltà che forse col senno di poi possono sembrare di piccolo conto, ma che in quei momenti paiono insormontabili. Dustin Hoffman, per esempio, scopre che lui e Steve McQueen hanno uno spazio uguale nella pellicola, ma che non percepiranno lo stesso compenso. Hoffman firma per 1.250.000 dollari, mentre McQueen avrà 2 milioni. Per qualche giorno si sente danneggiato, indignato e arrabbiato. Alla fine però si calma e torna al lavoro.
La ganja è, come sempre, molto abbondante in Giamaica, e facilmente disponibile per la troupe. Alcuni non si accontentano di fumarla; ne fanno bollire un po’ e la mischiano in segreto alle bevande durante un party. Tutti ne subiscono l’effetto, ma alcuni stanno male; tra loro Franklin Schaffner, e così viene perso un giorno di riprese. Altre giornate saltano più prosaicamente a causa del maltempo. Arriva inoltre un periodo di circa tre settimane in cui i soldi finiscono e nessuno viene pagato. Sembra quindi che la produzione debba chiudere i battenti da un giorno all’altro.
Ci sono anche problemi con la popolazione locale. Una mattina, mentre si sta recando sul luogo delle riprese, l’autista di Dustin Hoffman investe un pedone procurandogli seri danni. A causa dell’incidente Dustin Hoffman riceve minacce di morte, pur non subendo alcun vero attentato. Ben diversa la questione dei furti, non solo tentati, ma addirittura portati a termine su grande scala. Ruberie e piccoli scippi sono un problema costante, ma quando la produzione termina, e prima che gli oggetti vengano impacchettati e spediti, la gente dell’isola dà inizio a un assalto metodico e spoglia letteralmente il set. Scompaiono costumi di scena – seicento paia di scarpe vengono rubate dai guardaroba –, macchinari e persino pezzi di legname: in tutto 30.000 dollari di perdite.
Ma sto correndo troppo. Poco prima del completamento delle riprese di Papillon, la produzione incontra il contrattempo più grave: Dalton Trumbo deve lasciare la compagnia prima che la sceneggiatura sia finita. Accade questo: alcune settimane prima, in procinto di partire per la Spagna, Trumbo si era sottoposto a un esame medico per un’altra polizza assicurativa, ma non aveva mai ricevuto il risultato. Il medico esaminante aveva fatto il proprio dovere, riportando la presenza di una preoccupante ombra nel polmone sinistro di Trumbo, ma l’agente assicurativo non gliel’aveva mai comunicato, forse per ignoranza o per un assurdo senso di delicatezza. Alla fine, comunque, informa la moglie di Trumbo, Cleo, la quale telefona immediatamente in Giamaica.
«Certo, ricordo quella telefonata. Era di domenica e non stavamo girando. C’era una riunione al Bay Rock Hotel, dove alloggiavamo. Dalton, io, McQueen e Hoffman. Dalton è chiamato fuori dalla stanza per rispondere alla telefonata della moglie. Gli avevano detto che era importante. Ebbene, torna e non apre bocca. Alla fine McQueen e Hoffman se ne vanno, Dalton rimane e mi dice ciò che aveva appena saputo. È stato davvero sconvolgente.»
Franklin Schaffner. Ho parlato con lui nei vecchi Goldwyn Studios, nel cuore di Hollywood. Era alle prese col montaggio di Papillon, sotto pressione affinché fosse pronto per le première natalizie in contemporanea a New York, Parigi e Tokyo. Nel progetto sono stati investiti molti milioni di dollari e l’uscita sotto le feste è essenziale. Giunti a questo punto – fine autunno – non importa se sembra un compito quasi impossibile. Con abbastanza ore in sala di montaggio (fuori è giorno o notte?), un buon numero di sigari e abbastanza aspirina da fargli superare indenne quel calvario, è possibile rispettare la scadenza (e naturalmente ce la fa).
Questo è il clima nel quale parliamo. Che Franklin Schaffner accetti di vedermi in simili circostanze è già abbastanza notevole, ed è indicativo del rispetto che nutre verso Trumbo: se potrà essere d’aiuto, lo farà. A Schaffner sembra il minimo, visto che Trumbo gli ha dato molto di più di chiunque altro, laggiù a Ocho Rios.
«Non voleva tornare a casa finché le riprese non fossero state completate, e mancava un bel pezzo alla fine. Ma fece una concessione e andò da un medico sull’isola per dei raggi X. Il dottore locale gli disse che nei polmoni c’era sicuramente qualcosa, ma pensava che la cosa migliore fosse far vedere la radiografia al suo medico a Beverly Hills, così da accordarsi con lui su come procedere. Ebbene, è quello che fecero, e nel giro di pochi giorni il suo medico gli disse di tornare per un controllo.
«La cosa importante da sottolineare è che in tutto quel periodo, mentre fa la radiografia, la spedisce e aspetta il parere del suo medico in California, Dalton continua a lavorare sulla sceneggiatura. Solo per dire che tipo di professionista è.»
Franklin Schaffner è un uomo alto, di bell’aspetto, con maniere quasi militaresche. Lo guardi, e capisci perché Patton è il tipo di film che è. Duro, diretto, capace di dare ordini senza appello, è il tipo di uomo che immagineresti sempre con un lungo sigaro scuro tra le labbra. Quando Schaffner si riferisce a qualcuno come un “professionista”, si ha la sensazione che sia il massimo riconoscimento che può attribuire a una persona.
«Quanto al modo in cui abbiamo lavorato,» continua «be’, molti scrittori lo avrebbero trovato impraticabile. Ci si sveglia alle quattro del mattino e si comincia la giornata di lavoro. Questo significa, tra le altre cose, sedersi con Dalton per un’ora intorno alle cinque e mezza-sei e dare un ultimo sguardo alle pagine da girare quel giorno. Quando si finisce con le riprese, si torna all’hotel; e più tardi quella sera si esamina quello che Dalton ha scritto durante il giorno. Può essere anche tarda notte, quando si svolgono queste riunioni, a seconda di quanto c’è stato da fare durante il giorno. Devo dire che era una persona comprensiva. Non si lamentava mai dell’orario in cui ci si vedeva. Naturalmente la domenica avevamo molto più tempo. È stato proprio durante una riunione domenicale sulla sceneggiatura che ha ricevuto la telefonata.»
Chiedo a Franklin Schaffner se c’è uno scambio molto attivo, durante questi incontri. «Il copione girato è grossomodo quello che Trumbo scrive?»
Schaffner mi guarda come fossi pazzo o ingenuo – oppure entrambe le cose –, ma mi risparmia quello che sta pensando e mi dà una risposta diretta: «Questo è un altro segnale della sua professionalità. Non è un uomo che diventa egoista di fronte a un copione cinematografico. Abbiamo lavorato a strettissimo contatto, e lui ha accettato ogni tipo di osservazione, positiva o negativa che fosse. Poteva essere critico senza pietà rispetto al suo stesso lavoro. Era oggettivo, non cercava di salvare a tutti i costi i suoi dialoghi. Ma era una strada a doppio senso. Esigeva professionalità da entrambi i versanti. Sai, ci sono molti registi poco professionali che gettano dalla finestra ottimi dialoghi e una buona scrittura per mancanza di esperienza o per una certa gratificazione dell’ego».
Fa una pausa, aggrotta la fronte, tira un paio di boccate al suo sigaro, quasi a chiedersi come riprendere il filo della narrazione lasciato pochi momenti prima. «Comunque» continua «questo è il modo in cui lavora, finché risulta chiaro che è assolutamente necessario per lui tornare in California per gli esami clinici. A quel punto si prospettano, come ci dice, tre opzioni: se non è nulla di preoccupante, tornerà subito indietro. Se si deve operare, e non è una cosa molto seria, tornerà dopo una decina di giorni e un breve periodo di recupero. Se le notizie sono veramente brutte, invece, troverà qualcuno che lo rimpiazzi, perché restano almeno una trentina di pagine da scrivere per completare la sceneggiatura. Be’, va a casa e sente il medico, che purtroppo gli dà cattive notizie.»
A Dalton Trumbo viene diagnosticato il cancro ai polmoni. Gli esami rivelano anche la presenza di cellule cancerose nei linfonodi. È necessario un intervento radicale, ma anche così la prognosi è incerta. Bisogna dunque trovare uno sceneggiatore che prenda il suo posto. A peggiorare la situazione c’è il fatto che è in corso uno sciopero degli sceneggiatori, diretto verso la televisione ma che si ripercuote anche sulle produzioni cinematografiche. Trovare un nuovo sceneggiatore solo per le ultime trenta pagine di Papillon è una questione piuttosto complicata, viste le circostanze. E così Trumbo suggerisce al produttore della pellicola, Ted Richmond, che si potrebbe raggiungere un accordo più semplice con la Writers Guild, il sindacato degli sceneggiatori, assumendo per il compito suo figlio, Christopher Trumbo. Scommette che il sindacato coglierà il dramma umano – il fatto che un figlio riceva le consegne dal padre – trovandolo irresistibile. E ha ragione. Non ci sono obiezioni al fatto che Christopher Trumbo prenda il posto del padre per finire il progetto di Papillon. E nemmeno da parte di Richmond e Schaffner, visto che Christopher a quel tempo ha al suo attivo alcuni lavori per televisione e cinema ed è ritenuto capace di completare quello che il padre ha iniziato. La compagnia di produzione si accorda quindi con il sindacato e il giovane parte per la Giamaica dopo l’operazione di Trumbo.
Il polmone e i linfonodi vengono rimossi. Gli esami che seguono mostrano che il cancro al suo sistema linfatico non è avanzato come si temeva. Ci sono quindi ragioni per sentirsi sollevati. Per dirla in un altro modo, la situazione è seria ma potrebbe essere peggiore. Oppure no? Come in genere accade quando un polmone viene rimosso, il cuore è sollecitato in maniera eccessiva: meno di una settimana dopo l’operazione, in ospedale, Trumbo ha un attacco cardiaco. Un uomo di minor tempra si arrenderebbe, ma non lui.
Nemmeno i brutali trattamenti al cobalto ai quali si sottopone dopo essere stato dimesso dall’ospedale riescono ad abbatterlo, sebbene vengano eseguiti a poca distanza sia dall’operazione sia dall’attacco di cuore. Provocano uno shock a tutto il corpo e lo disorientano psicologicamente, compromettendo ogni possibilità di recuperare l’equilibrio del metabolismo. Gli effetti devastanti del cobalto su un corpo già debilitato sono tali che durante la terapia Trumbo ha a malapena la forza di stare a casa, facendo su e giù dall’ospedale dove viene bombardato tre volte a settimana con trattamenti radio, e di sedersi con me nel suo studio dove parliamo per qualche ora.
È a questo punto, difatti, che entro in scena io. Mi sono intrufolato come qualcosa meno di un magistrato del mio personale tribunale e poco più di un semplice cronista degli avvenimenti. Un procuratore dell’accusa? No di certo. Un avvocato difensore? Forse. Sono arrivato con lo specifico intento di scrivere un libro su di lui, il che più in generale implica, come entrambi sappiamo, una certa dose di simpatia verso il soggetto, qualsiasi soggetto, se non sempre una sua perfetta comprensione. Non sarei mai andato da lui, né starei scrivendo questo libro, se non pensassi che Dalton Trumbo è stato un uomo la cui vita – e in misura leggermente inferiore, il suo lavoro – ha abbastanza importanza da meritare di essere discussa nei dettagli. Lui questo lo sa. Sa che il piccolo microfono che gli metto di fronte è, di fatto, un orecchio benevolo. Ma penso sappia anche (o così sospetto) che, a prescindere dalle implicazioni, sta correndo un certo rischio nel consegnarsi a me. O, se è per questo, a qualunque altro scrittore. Quando ti concedi a un biografo, la questione fondamentale è se riesci a mettere in discussione la tua stessa vita. Lui l’ha fatto. Lo fa. E la sensazione che ho avuto ascoltandolo in quei giorni d’estate del 1973 – quando tutti discutevano solo dello scandalo Watergate – è che Trumbo parlasse per i posteri. Penso si rendesse conto del tono di commiato di quanto stava dicendo. Non tutto quello che diceva era garbato, magnanimo e indulgente, come spesso si crede dei discorsi degli uomini in quella fase della vita. No, lui era interessato a mettere le cose in chiaro; e forse, in qualche occasione, a chiudere vecchi conti in sospeso. In un modo o nell’altro, quell’estate Trumbo sorprende tante persone.
In uno dei pochi pomeriggi in cui riesce a evitare la tortura del cobalto, Trumbo va dal medico di Beverly Hills che prescrive il trattamento. È molto curioso di sapere se la cura sta ottenendo qualche risultato. Esistono esami per appurarlo.
Il solo muoversi – salire e scendere dall’auto, montare negli ascensori, rimanere nelle sale d’aspetto – è diventato un problema. Le sue gambe sono deboli, il respiro affannoso, ma non vuole usare la sedia a rotelle per rendere tutto più facile come qualcuno gli consiglia. Sua moglie, Cleo, gli fa da autista, portandolo dove desidera nella loro berlina Jaguar. Per la prima volta dipende da lei dal punto di vista motorio, sebbene lo sia stato sotto ogni altro aspetto sin da quando sono sposati.
Non rimane molto nello studio del dottore. Il tempo di arrabattarsi per arrivarci, e ora lo stesso sforzo per tornare a casa. Trumbo aspetta nel parcheggio coperto a piano terra dell’edificio adibito a uffici di Wilshire, mentre Cleo va a prendere l’auto. Una coppia esce dall’ascensore e viene verso di lui: sono una donna e un uomo più vecchio. Solo che l’uomo non è anziano come sembra. Trumbo li guarda da vicino e subito riconosce Betty Garrett, e capisce che l’uomo dai capelli e dalla barba bianchi appoggiato al braccio di lei deve essere...