Città di carta
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Città di carta

  1. 257 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Città di carta

Informazioni su questo libro

Quentin Jacobsen è sempre stato innamorato di Margo Roth Spiegelman, fin da quando hanno condiviso da bambini un'inquietante scoperta. Con il passare degli anni il loro legame sembrava essersi spezzato, ma alla vigilia del diploma Margo appare all'improvviso alla finestra di Quentin e lo trascina in piena notte in un'avventura indimenticabile. Forse tra di loro tutto ricomincerà. E invece no. La mattina dopo Margo scompare. E questa sua ennesima fuga potrebbe essere l'ultima.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2016
Print ISBN
9788817088145
eBook ISBN
9788858684252
Copertina: Città di carta; John Green
John Green è il pluripremiato autore di romanzi in vetta alla classifica del “New York Times”. Tra i riconoscimenti ricevuti, la Printz Medal, il Printz Honor e l’Edgar Award. È stato due volte finalista al LA Times Book Prize. Insieme al fratello ha fondato Vlogbrothers, uno dei canali Youtube più seguiti al mondo. Il suo sito è johngreenbooks.com, il suo account Twitter @realjohngreen.
Quentin Jacobsen è sempre stato innamorato di Margo Roth Spiegelman, fin da quando hanno condiviso da bambini un’inquietante scoperta. Con il passare degli anni il loro legame sembrava essersi spezzato, ma alla vigilia del diploma Margo appare all’improvviso alla finestra di Quentin e lo trascina in piena notte in un’avventura indimenticabile. Forse tra di loro tutto ricomincerà. E invece no. La mattina dopo Margo scompare. E questa sua ennesima fuga potrebbe essere l’ultima.
Città di carta
John Green

Città di carta

Sottotitolo
Traduzione di Stefania Di Mella
BUR Rizzoli
Dello stesso autore:
Cercando Alaska
Teorema Catherine
Colpa delle stelle
Titolo originale: Paper Towns
© 2008 John Green
Tutti i diritti riservati, compreso il diritto di riproduzione totale o parziale in qualsiasi forma.
Pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti d’America da Dutton Books
Questa edizione è pubblicata in accordo con Dutton Children’s Books una divisione di Penguin Young Readers Group, un marchio di Penguin Group (USA) Inc., 375 Hudson Street, New York, New York 10014, U.S.A.
Tutte le citazioni di Foglie d’erba sono tratte da Walt Whitman, Foglie d’erba, Bur, Milano 2004.
Traduzione di Ariodante Marianni.
La citazione da La campana di vetro è tratta per gentile concessione dell’editore da Sylvia Plath, La campana di vetro, ne I capolavori di Sylvia Plath, Oscar Mondadori, Milano 2004.
Traduzione di Adriana Bottini.
© 2009 RCS Libri S.p.A., Milano
Prima edizione digitale Vintage 2016 da edizione Rizzoli Vintage marzo 2016
eISBN 978-88-58-68425-2
In copertina: "PAPER TOWNS" film artwork
© 2015 Twentieth Century Fox Corporation. All rights reserved
Art Director: Francesca Leoneschi / theWorldofDOT
www.rizzoli.eu
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
A Julie Strauss-Gabel,
senza la quale niente di tutto questo
si sarebbe potuto avverare.
“E poi, quando uscimmo a guardare la sua lanterna
appena ultimata dalla strada,
dissi che mi piaceva la luce che dal suo viso
tremolante splendeva nell’oscurità.”
Jack O’Lantern,
Katrina Vanderberg, Atlas
“La gente dice che gli amici
non si annientano a vicenda.
Ma cosa ne sa la gente degli amici?”
Game Shows Touch Our Lives,
The Mountain Goats

Prologo

Un miracolo capita a tutti. Io la vedo così. Tipo, non sarò mai colpito da un fulmine, non vincerò un premio Nobel, non diventerò il dittatore di un piccolo Stato delle Isole del Pacifico, non mi verrà un tumore maligno a un orecchio, non morirò per combustione spontanea. Se però proviamo a vederle tutte insieme, queste cose altamente improbabili, salta fuori che a ognuno di noi prima o poi ne capita almeno una. Quasi di sicuro. Io potrei aver visto piovere rane. Potrei aver messo piede su Marte. Potrei essere stato inghiottito da una balena. Potrei aver sposato la regina d’Inghilterra o essere sopravvissuto per mesi in mare. Ma il mio miracolo è stato un altro. Il mio miracolo è stato questo: tra tutte le case di tutti i quartieri di tutta la Florida, mi sono ritrovato a vivere nella porta accanto a quella di Margo Roth Spiegelman.
Il nostro quartiere, Jefferson Park, è stato a lungo una base della marina. Poi però la marina non ne ha avuto più bisogno e ha restituito il terreno ai cittadini di Orlando, che ci hanno costruito un grande quartiere. Perché è questo ciò che la Florida fa con i suoi terreni: quartieri. I miei genitori e quelli di Margo finirono con il diventare vicini di casa non appena vennero ultimate le prime villette. Io e Margo avevamo due anni.
Prima di diventare una Pleasantville e prima ancora di essere utilizzata come base della marina, Jefferson Park apparteneva, guarda caso, a un tale Jefferson, il Dr. Jefferson Jefferson. A lui sono intitolate una scuola e un’importante fondazione benefica di Orlando, ma la cosa affascinante e incredibile-ma-vera del Dr. Jefferson Jefferson è che non era affatto un dottore. Era un semplice venditore di succhi d’arancia e si chiamava Jefferson Jefferson. Quando diventò ricco e potente, andò all’anagrafe, fece diventare Jefferson il suo secondo nome e cambiò il suo primo in “Dr.”. D maiuscola, r minuscola. Punto.
Io e Margo avevamo nove anni. I nostri genitori erano amici, così noi giocavamo insieme ogni tanto e attraversavamo in bicicletta i vicoli fino al parco Jefferson, al centro esatto del quartiere.
Io mi agitavo sempre all’idea di vedere Margo, perché lei era in assoluto l’essere più fantasticamente meraviglioso che Dio avesse creato. Quella mattina indossava una T-shirt rosa con un drago verde che sputava una fiamma di brillantini arancio. È difficile spiegare adesso quanto pazzescamente bella mi sembrasse quella T-shirt.
Come sempre, Margo andava senza mani, le braccia conserte appoggiate al manubrio e le scarpe da ginnastica che formavano una macchia sfocata in movimento. Era una calda giornata di marzo, il cielo era azzurro, ma l’aria sapeva di acido, come se stesse per cominciare a piovere.
All’epoca ero convinto di essere un inventore, e dopo aver legato le biciclette, nel breve tratto a piedi attraverso il parco fino al campo da gioco, raccontai a Margo l’idea che avevo avuto per la mia ultima invenzione: lo Sparanelli. Si trattava di un gigantesco cannone che avrebbe lanciato enormi sassi colorati a bassa orbita, dotando la Terra di anelli, proprio come Saturno. (Sono ancora convinto che si tratti di una buona idea, ma pare che costruire un cannone capace di sparare massi nello spazio sia una cosa piuttosto complicata.)
Ero stato tante di quelle volte al parco Jefferson da averne una mappa precisa in testa; così mi bastarono pochi passi per accorgermi che qualcosa non andava, anche se non capii subito che cosa ci fosse di diverso dal solito.
«Quentin» disse piano Margo, tranquilla.
Stava indicando qualcosa. E a quel punto capii che cosa c’era di diverso.
A pochi metri da noi c’era una quercia robusta e nodosa, che doveva essere molto vecchia. Niente di nuovo. Alla nostra destra, il campo da gioco. Niente di strano neanche in quello. Ma poi, accasciato vicino al tronco della quercia, un tizio con un completo grigio. Immobile. Quella era una novità. E intorno a lui, sangue; una fontana ormai quasi secca che gli partiva dalla bocca. La bocca aperta in un modo innaturale. Mosche ferme sulla fronte bianchissima.
«È morto» mi fece notare Margo, come se io non potessi capirlo da solo.
Feci due passetti indietro. Ricordo di aver pensato che se avessi fatto qualche movimento improvviso, lui si sarebbe potuto svegliare e avrebbe potuto aggredirmi. Magari era uno zombie. Sapevo benissimo che gli zombie non esistono, ma di sicuro lui era molto simile a un potenziale zombie.
Mentre indietreggiavo, Margo fece due identici passi in avanti, piccoli e lenti. «Ha gli occhi aperti» disse.
«Dobbiamotornareacasa» dissi io.
«Pensavo che i morti tenessero gli occhi chiusi» continuò Margo.
«Margodobbiamotornareacasaadirlo.»
Lei fece un altro passo avanti. Era abbastanza vicina da potergli toccare un piede. «Secondo te che cosa gli è successo?» mi chiese. «Forse si è drogato.»
Non volevo andarmene e lasciare Margo con quel ragazzo morto che poteva rivelarsi uno zombie agguerrito, ma allo stesso tempo non avevo voglia di starmene lì a chiacchierare delle circostanze del suo decesso. Mi feci coraggio e mi sporsi in avanti per prenderle la mano. «Margodobbiamotornareacasasubito!»
«Va bene, sì» disse lei. Corremmo alle biciclette, con lo stomaco che mi ribolliva di un sentimento molto simile all’eccitazione, ma non lo era. Montammo sulle bici, e lasciai andare avanti lei, perché stavo piangendo e non volevo che se ne accorgesse. Margo aveva le suole sporche di sangue. Il suo sangue. Del tizio morto.
E poi fummo a casa, nelle nostre due case diverse. I miei genitori chiamarono il 911, sentii le sirene in lontananza e chiesi di poter vedere il camion dei vigili del fuoco, ma la mamma disse di no. Poco dopo mi appisolai.
I miei sono psicoterapeuti, e io di conseguenza sono una persona maledettamente equilibrata. Così, appena mi svegliai, mia madre mi fece un lungo discorso sul ciclo della vita, e mi spiegò che la morte ne era una parte, sì, ma una parte di cui io, a nove anni, non dovevo preoccuparmi più di tanto, e mi sentii meglio. A essere sincero, non me ne sono mai preoccupato molto. Il che non è poco, vista la facilità con cui tendo a preoccuparmi.
Il fatto è questo: avevo trovato un tizio morto. Il piccolo e adorabile me stesso di nove anni e la mia ancora più piccola e adorabile compagna di giochi avevano trovato un tizio dalla cui bocca usciva sangue, e quello stesso sangue era sulle piccole e adorabili scarpe da ginnastica di Margo mentre pedalavamo verso casa. È tutto molto drammatico, ma la sapete una cosa? Io non conoscevo quel tipo. Tante persone che non conosco muoiono in ogni dannato momento. Se avessi un crollo di nervi ogni volta che succede qualcosa di brutto nel mondo, andrei completamente fuori di testa.
Quella sera mi misi a letto alle nove, perché le nove era l’ora in cui andavo a letto. Mia mamma venne a rimboccarmi le coperte, mi ricordò che mi voleva bene, e io le dissi: «A domani», e lei: «A domani», poi spense la luce e socchiuse la porta della mia stanza.
Non feci in tempo a girarmi su un fianco che vidi Margo Roth Spiegelman alla mia finestra, la faccia schiacciata contro la zanzariera. Mi alzai e andai ad aprire la finestra, ma la zanzariera rimase lì a dividerci. Il viso di Margo era tutto a quadratini.
«Ho fatto un’indagine» disse, seria. Anche da più vicino la vedevo comunque tutta spezzettata, ma ora mi accorsi che aveva in mano un taccuino e una matita rosicchiata intorno alla gomma. Margo diede un’occhiatina ai suoi appunti. «La signora Feldman del tribunale di Jefferson ha detto che si chiamava Robert Joyner e che viveva in Jefferson Road, sopra la drogheria. Ci sono andata e ho trovato alcuni poliziotti. Uno di loro mi ha chiesto se ero del giornalino della scuola e io gli ho risposto che la nostra scuola non ha un giornalino, e allora lui ha detto che poteva rispondere alle mie domande, visto che non ero una giornalista. Mi ha raccontato che Robert Joyner aveva trentasei anni e che era un avvocato. Non mi hanno fatto entrare nel suo appartamento, ma io sono andata dalla sua vicina di casa, Juanita Alvarez, a chiederle una tazza di zucchero. Lei mi ha detto che Robert Joyner si è sparato con un fucile. Le ho chiesto perché e mi ha raccontato che stava divorziando e che questa cosa lo rendeva molto triste.»
A quel punto Margo si è fermata e io l’ho guardata: il suo viso, illuminato dalla luna, era grigio e diviso in mille pezzettini per via della zanzariera. Gli occhi grandi e rotondi saltavano continuamente da me al taccuino. «Un sacco di gente divorzia ma non si suicida» dissi io.
«Lo so» ribatté lei, eccitata. «Ed è proprio questo che ho detto anche io a Juanita Alvarez. E lei mi ha risposto che…» Voltò pagina. «Mi ha risposto che il signor Joyner era tormentato e io le ho chiesto che vuol dire e lei mi ha detto che potevamo solo pregare per lui e che io dovevo portare lo zucchero a mia madre e io le ho detto lasci perdere lo zucchero e me ne sono andata.»
Non replicai. Volevo solo sentirla parlare ancora: quella sua voce piccola e tesa per l’eccitazione di sapere come stavano le cose mi dava la sensazione che mi stesse succedendo qualcosa di importante.
«Forse io so perché» mi disse alla fine.
«Perché?»
«Forse tutti i fili dentro di lui si sono rotti.»
Pensai a come rispondere, e intanto mi avvicinai e sbloccai la zanzariera, per poi staccarla dalla finestra. La adagiai sul pavimento e nel frattempo persi la mia occasione di rispondere a Margo. Prima che potessi tornare a sedermi, lei mi guardò e sussurrò: «Chiudi la finestra.» E io obbedii. Pensavo che se ne sarebbe andata, invece restò lì a guardarmi. La salutai con la mano e le sorrisi, ma i suoi occhi fissavano qualcosa dietro di me, qualcosa di mostruoso che le aveva risucchiato il sangue dalla faccia. Ero troppo spaventato per riuscire a voltarmi. Naturalmente non c’era niente alle mie spalle, tranne, forse, il tizio morto.
Smisi di salutare. La mia testa e la sua erano alla stessa altezza e si guardavano attraverso il vetro. Non mi ricordo come finì: se me ne tornai a letto o se fu lei ad andarsene. Nella mia testa non è mai finita. Siamo ancora lì che ci guardiamo, per sempre.
Margo ha sempre amato i misteri. E di fronte a tutte le cose che sono successe dopo non ho mai smesso di credere che li abbia amati così tanto, i misteri, da essere diventata lei stessa uno di loro.

PRIMA PARTE

I FILI

1.

Il giorno più lungo della mia vita cominciò a rilento. Quel mercoledì mattina mi svegliai tardi, persi tempo nella doccia e finii per fare colazione nel minivan di mia madre alle 7:17.
Di solito vado a scuola a piedi con il mio migliore a...

Indice dei contenuti

  1. Cover