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Il ragazzo ipersensibile e i demoni dall’aria rispettabile
Il mio piano sembrava a prova di bomba. Mi sarei trovato un lavoro da svolgere con il pilota automatico. Barista. Impiegato del banco dei pegni. Addetto alla vendita e all’acquisto delle chitarre. Giardiniere (che, nei dintorni di Boulder, in Colorado, a oltre duemila metri di altitudine, significa trasportare rocce con una carriola da un capo all’altro di una proprietà). Pulire con un maledetto spazzolino da denti le cassette degli audiolibri a noleggio. Non avrei investito nulla nel lavoro: avrei fatto giusto il minimo sindacale per portare a casa uno stipendio. Così, e soltanto così, la sera avrei avuto abbastanza energia creativa per la mia band, i Pope of the Circus Gods.
Ricordo che una volta stavo lavorando per una panetteria ed ero in giro a consegnare baguette alle quattro del mattino, ed è successo questo: ero lì tutto imbacuccato dalla testa ai piedi (dato che era febbraio e c’era un buco enorme sulla fiancata del furgone) e all’improvviso nella mia mente è nato tutto in una volta il testo di una delle mie canzoni, ancora oggi tra le mie preferite. Il ritmo, ne sono certo, era basato su quello dei miei denti che battevano: «In un’altra storia l’avrei aspettata sveglio per tutta la notte / E quando finalmente lei avrebbe aperto la mia porta usando la carta di credito io avrei fatto finta di dormire». Subito dopo ho composto il ritornello, con una melodia ampia e solenne. E così, mentre il sole gettava il suo rosso incantesimo sulle montagne dei Flatirons, è nata la mia canzone Notes from the Shed (“Appunti dal capanno”, N.d.T.). Ho provato un inesprimibile senso di sollievo: fin dal momento in cui avevo scoperto di saper comporre, a undici o dodici anni, avevo sempre immaginato che la fonte della mia ispirazione si sarebbe inaridita, prima o poi (più prima che poi). Perciò, ogni volta che una canzone si formava nella mia mente tiravo un bel respiro di sollievo: sì, ce la potevo ancora fare.
Certo, erano molto più numerose le mattine in cui non avevo questo tipo di rivelazione, ma io preferivo puntare tutte le mie speranze artistiche su quell’alba speciale che dimostrava che il mio piano poteva funzionare. Stavo illudendo me stesso. In realtà, il grave esaurimento che avevo avuto sei mesi prima aveva prosciugato la mia vena creativa, e il cocktail di farmaci che mi erano stati prescritti in seguito mi rendeva quasi impossibile accedere a quel pozzo buio e profondo da cui avevo sempre attinto istintivamente. Per una crudele ironia, era proprio lo scopo delle medicine. Forse per questo, o forse a causa del mio crescente e disperato abuso dei farmaci stessi, il risultato finale è stato comunque un estremo ridimensionamento delle mie aspirazioni. Il mio obiettivo ormai era solo quello di uscire dal tunnel mentale in cui mi ero ficcato e restarne fuori. Scrivere non mi aiutava in questo senso, e lo stesso valeva per qualsiasi investimento di energie che andasse oltre il minimo indispensabile.
Il guaio è che non sono mai stato troppo bravo nel tenere a freno le mie ambizioni.
Al banco dei pegni, per esempio, sognavo a occhi aperti, fantasticando di trasformare quel posto nel primo negozio di strumenti musicali classici e da collezione della città di Boulder. Alla caffetteria, non mi accontentavo di fare il barista: volevo essere un artigiano, un esperto di torrefazione. L’immaginazione e l’ambizione si scontravano sempre con la paura di impazzire e con la quantità incredibile di sostanze che assumevo nel tentativo disperato di tenerla a bada. Se non avete mai avuto direttamente a che fare con il disagio mentale, sappiate che è un tassista sudato, dall’alito fetido, che blocca le portiere e vi porta dove gli pare. Più ti dimeni e cerchi di uscire, più lui sembra divertirsi. Il disagio mentale adora avere compagnia, anzi, ne ha bisogno.
Quando la mia breve carriera nella cucina di un ristorante elegante è finita in grande stile – perché un cerotto insanguinato mi si era staccato dalla mano ed era riemerso nel piatto di un cliente – ho deciso che ne avevo abbastanza di servire la gente. La settimana dopo ho letto sul giornale che la sede locale della Humane Society (organizzazione non-profit americana dedicata alla protezione degli animali, N.d.T.) cercava un nuovo addetto e l’ho preso come un segno del destino: mi sarei messo al servizio degli animali, invece che degli esseri umani. Da quel momento in poi le mie relazioni sarebbero state le più pure possibile. In fondo, ero alla ricerca della semplicità. Scrivere le mie canzoni, suonare con la mia band, occuparmi degli animali – annuivo energicamente mentre mi ripetevo questo programma –, questa sì che era un’idea fattibile!
La cosa buffa delle decisioni basate sui segni del destino, sull’istinto o su una “visione” è che di solito non sono altro che nobili vie di fuga. L’ennesimo modo per sabotare se stessi e non affrontare i veri problemi della propria vita. Dietro la facciata della nobiltà d’animo si nascondeva una profonda miseria emotiva: non ero più in grado di avere relazioni oneste con gli esseri umani. Ero troppo malconcio, troppo diffidente, troppo paranoico riguardo a come sarebbero potute finire.
E così – dopo il ristorante, il banco dei pegni, il noleggio di audiolibri, il trasporto di rocce – mi sono presentato per il posto alla Humane Society più sicuro di me di quanto non mi fossi mai sentito a un colloquio di lavoro. Non avevo ancora le braccia completamente tatuate come oggi, ma in ogni caso non mi sembrava che fosse il caso di nascondere chi e che cosa ero. Il mio nome era Jackson Galaxy, mi piacevano i gioielli appariscenti, portavo un paio di occhiali alla Elton John, in testa avevo una massa di dreadlock tinti di tutti i colori dell’arcobaleno, con delle perline tribali e vari altri gingilli intrecciati in mezzo. Sceglietemi per la mia passione, pensavo. Sceglietemi per la mia esperienza precedente con gli animali come volontario (totalmente inventata), sceglietemi perché nessuno meglio di me raccoglierà merda, laverà le gabbie e accudirà gli ospiti del vostro rifugio in cambio di uno stipendio così basso.
La direttrice responsabile del rifugio si chiamava Audrey. Era esperta, motivata ma con un approccio rilassato, ed era anche una gran gnocca. Ricordo di aver provato una sensazione quasi surreale, come se mi osservassi dall’esterno: non solo non ero nervoso per il colloquio, ma stavo addirittura flirtando con lei. Niente di troppo esplicito, nessun atteggiamento da casanova da quattro soldi: cercavo solo di essere sottile quanto bastava per darle l’impressione che non ci stavo provando ma che comunque ero affascinato da lei.
Quando sei assolutamente, decisamente convinto di essere la persona giusta per un certo posto e ti senti certo che l’universo ti abbia catapultato lì come un UFO a Roswell con il preciso intento di completare un enorme puzzle cosmico, non hai alcun bisogno di ricorrere a tattiche da venditore di auto usate. Mentre parlavo con Audrey non mi sentivo come se stessi cercando di imbrogliarla rifilandole un vecchio catorcio. Quando lei mi ha chiesto se avessi già esperienza di rifugi per animali, ho semplicemente cominciato a improvvisare, mentendo in modo spudorato sul mio passato di volontario in un rifugio di New York. Non ho nemmeno pensato che Audrey avrebbe potuto fare i dovuti e legittimi controlli: le avrei lasciato così pochi dubbi da indurla a saltare tutte le formalità e a promuovermi subito vicedirettore.
«Hai esperienza con animali aggressivi?»
In risposta le ho mostrato le mie braccia, indicando cicatrici immaginarie nascoste sotto ai tatuaggi: «Vedi questa? Un incrocio di Akita. Un bello spavento. Ma questo qui,» ho aggiunto facendole vedere delle lentiggini sul polso sinistro «questo sì che mi ha fatto male. Che tu ci creda o no, è stato un gattino. Mille volte meglio il morso di un cane».
«Sono d’accordo!» ha annuito Audrey con enfasi.
Avete mai sognato di camminare spediti, quasi a passo di marcia, e poi di guardare in basso e accorgervi che vi trovate su una fune sospesa? Di colpo allora barcollate, cercando di restare in equilibrio, con un cinquanta per cento di probabilità di cadere giù. Ecco, nel mio sogno a occhi aperti io mi sono rifiutato di guardarmi i piedi, quindi niente poteva intaccare la mia convinzione, il mio passo sicuro, l’immagine che avevo di me stesso come John Travolta per le strade di Brooklyn nelle scene iniziali della Febbre del sabato sera. Sono andato avanti come un treno per tutto il colloquio, anche quando abbiamo toccato gli aspetti più problematici del lavoro.
Adottate, non comprate
Nel corso di quest’anno, circa quattro milioni tra gatti e cani moriranno nei rifugi per animali degli Stati Uniti. Siamo scesi a questo numero grazie alle campagne sulla castrazione e sterilizzazione, ma dovremmo impegnarci ad adottare gli animali che hanno bisogno di noi invece di – letteralmente – produrne altri.
Anche se circa il trenta per cento degli ospiti dei rifugi sono di razza pura, la nostra società continua a sostenere gli allevamenti su larga scala, quelli che vengono comunemente chiamati “fabbriche di cuccioli”.
Abbiamo solo due possibilità: o accettiamo e sposiamo a pieno il nostro ruolo di protettori degli animali, o perpetuiamo una cultura che li considera sacrificabili, “usa e getta”. Non ci sono vie di mezzo.
«Jackson, qui al rifugio tutti noi ci occupiamo anche dell’eutanasia sugli animali. Non posso assumerti se non te la senti di svolgere questa mansione.»
«Ma certo, è l’unico sistema possibile. Non posso pensare di scaricare questo fardello tutto sulle spalle di una persona sola. Non sarebbe giusto, no?»
«Quindi per te va bene?»
«Mi va bene, relativamente parlando. Se mi andasse completamente bene, se fossi in te scapperei a gambe levate. Però capisco che è una cosa che va fatta, e con il vostro aiuto posso riuscire a sopportarla.» Almeno questa non era una balla inventata per avere il posto. Stavo solo immaginando come mi sarei sentito se avessi dovuto farlo. Audrey mi ha dato un po’ di cifre. All’epoca – all’inizio degli anni Novanta – ogni anno nei rifugi americani venivano soppressi da dieci a dodici milioni di animali. Semplicemente non c’erano abbastanza case per tutti. Un mondo senza più uccisioni all’epoca non era neppure un’idea concepibile, e meno che mai un obiettivo perseguibile come invece è oggi. Il nostro compito era educare la gente, diffondere il più possibile il messaggio sulla necessità della castrazione/sterilizzazione e stare accanto ai meno fortunati. Mentre praticavamo loro l’eutanasia. Questo è ciò che ho detto a Audrey.
«Alcuni degli animali che arrivano qui hanno subìto degli abusi talmente orribili e sono traumatizzati al punto che non possiamo salvarli.»
Ho annuito. Ho deglutito a fatica, cercando di trovare le parole, un tic nervoso che mi portavo dietro dalla mia prima apparizione di fronte a un pubblico, a tredici anni.
«Dovrai occuparti di caricare e svuotare il forno crematorio.»
Di nuovo, ho annuito lentamente, in silenzio.
«Ti troverai a dover assistere o praticare l’eutanasia a un animale su richiesta dei suoi padroni, e dovrai farlo di fronte a loro.»
Ed ecco di nuovo il groppo alla gola. Probabilmente quello è stato l’unico momento in cui ho guardato in giù mentre camminavo sulla fune sospesa: mi faceva davvero paura l’idea di dover trovare una vena per l’iniezione letale e allo stesso tempo dover confortare animale e padrone. In uno scenario simile non era facile continuare a immaginare di fingere, di recitare una parte. Ci ho provato comunque, annaspando per mettere insieme una risposta convincente.
«Sarò affiancato da qualcuno all’inizio?»
«Oh, assolutamente sì. Finché non sarai in grado di cavartela da solo con relativa tranquillità. Non vogliamo che i padroni soffrano ancora di più guardando un operatore che si fa prendere dal panico.»
«Meno male… Ok, allora non c’è problema.»
Audrey era alla ricerca di possibili crepe nelle mie buone intenzioni. Probabilmente nel corso della sua carriera si era trovata di fronte una marea di candidati come me, con poca esperienza ma in apparenza motivati, che avevano finito col rovesciarsi come ombrelli da quattro soldi durante una tempesta. Io però ho tenuto duro, anche se in alcuni passaggi del colloquio l’istinto di sopravvivenza mi avrebbe suggerito di scappare di corsa da quella stanza.
Per ironia della sorte, è stata la presenza della mascotte del rifugio, un gatto ribattezzato Cheeks (“Chiappe”, N.d.T.) – perché non aveva più la coda –, che mi ha aiutato a tenere i nervi saldi quando le domande di Audrey mi mettevano in crisi. Lui continuava a passeggiarmi davanti sul tavolo di laminato bianco, la cui superficie era fresca in quel caldo estivo; io lo accarezzavo e lui si buttava a pancia in su, smorzando la tensione che aleggiava nell’aria.
Dopo ogni domanda difficile, Audrey mi chiedeva in tono serio: «Sei sicuro che non sarà un problema per te?».
«Sì, sono sicuro, ci sto. Voglio rendermi utile.» Ed era la verità: io per primo mi sono sorpreso quando quelle parole mi sono uscite di bocca. Ciò che allora non riuscivo a capire era che dentro di me, sotto gli strati di pellicola isolante in cui mi ero avviluppato, c’era veramente il desiderio di andare incontro alla vita ed essere d’aiuto agli altri.
Dopo un’ora di colloquio, ero sicuro di avercela fatta; Audrey mi ha accompagnato a visitare il resto della sede. Mentre eravamo nel cortile, con lo sguardo rivolto al laghetto, le ho chiesto quando avrebbero preso la loro decisione; lei mi ha risposto con tono di complicità: «Oh, oggi stesso, ne sono sicura».
Sono tornato a casa con la consapevolezza che la mia vita era entrata in una nuova fase. Questo lavoro non era come gli altri, del tipo “Ok, porto a casa un po’ di soldi, posso pagare l’affitto e lo spacciatore”. Sapevo che avrebbe richiesto un reale investimento emotivo e, nonostante qualche fitta intermittente di paura, la cosa mi stava bene. Gli animali che avevo appena visitato – i cani che mi avevano leccato le dita attraverso le sbarre, in mezzo al baccano dell’area adozioni, con un coro penetrante di latrati partito appena il primo cane mi aveva notato, i gatti che mi avevano fissato dalle loro gabbiette di 60 × 60 centimetri, cercando di capire fino a che punto rappresentassi una minaccia – tutti loro in qualche modo mi avevano parlato… Mi sembrava ancora di vederli mentre tornavo a casa in macchina. E, come ho raccontato più tardi agli amici radunati a casa mia, sentivo che avevano bisogno di me, sentivo una vocazione a rendermi utile, e questo mi faceva stare bene. Sarebbe stata la mia salvezza. Nel nostro salotto c’era sempre un sacco di gente a tutte le ore, membri della band e altre persone. Io ero il vecchio saggio della tribù. Quella sera, mentre ci passavamo il bong, seduti in cerchio per terra con la solennità di un vero consiglio degli anziani, sapevo che tutti gli altri potevano percepire ciò che provavo. La mia determinazione, la mia concentrazione, il mio sollievo per aver trovato uno scopo riscaldavano quella stanza come un pannello solare.
Poi però ha telefonato Audrey per informarmi che non avevo ottenuto il lavoro.
«Veramente.»
Non c’era nessun sarcasmo nella mia domanda, anzi, non l’ho detto nemmeno in tono interrogativo. Ero semplicemente scioccato.
«VERAMENTE?»
In circostanze normali, a quel punto avrei già troncato la conversazione, ma stavolta non potevo. Mi sentivo montare dentro l’incazzatura. «Devo essermi fatto un’impressione completamente sbagliata al colloquio.»
«No, non ti eri sbagliato.»
«Be’, io…» Stavo diventando paonazzo per il misto di rabbia e imbarazzo che provavo al pensiero di aver tenuto banco, seduto a gambe incrociate come un grosso stupido Buddha, mentre raccontavo ai miei amici che la mia vita era a un punto di svolta storico.
«No. Ti do la mia parola. Non ti eri sbagliato. È solo che abbiamo bisogno di un profilo diverso.»
«Quale tipo di… uhm… profilo… sarebbe?»
Audrey ha fatto una pausa diplomatica, soppesando le parole in modo da risparmiarsi il tipo di reazione da incubo temuta da tutti i responsabili delle Risorse umane: «Mi dispiace, Jackson. Spero che manderai ancora la tua candidatura».
«Ah. Sì… anch’io… uhm…»
Clic.
Ma che cazzo era appena successo?
Ho guardato la cornetta e poi l’ho messa giù come se fosse radioattiva. Di colpo mi sono sentito tramortito, turbato, nauseato ed estremamente depresso.
Ho cominciato a girovagare per casa senza rendermi del tutto conto di ciò che stavo facendo, sono salito al piano di sopra in cerca di uno dei miei coinquilini, o di droghe, o di un coinquilino con delle droghe. La cosa buffa è che avevo appena lasciato di sotto, nel salotto, circa nove persone e nove gatti: trentasei occhi che avevano seguito in silenzio i miei movimenti. Dopo aver visto la mia faccia nessuno aveva fatto domande: era chiaro a tutti che avevo appena preso una gran brutta mazzata.
“Fanculo la Humane Society” ho pensato. “Se non sanno riconoscere la cosa migliore che gli sia mai capitata solo perché è arrivata impacchettata con una carta da regalo che a loro non piace, allora non mi meritano.” Sono sempre stato bravissimo ad autocommiserarmi e a fare l’artista tormentato. Ero capace di scrivere un pezzo da hit e poi di allungarlo fino ad arrivare anche a tredici minuti, partendo con una strofa e un ritornello perfettamente orecchiabili e poi aggiungendoci un monologo pesantissimo di tre minuti che mi rifiutavo categoricamente di tagliare. Tutto o niente, prendere o lasciare: ero fatto così.
A un certo punto, non ricordo bene quando, ho scoperto che il motivo per cui non ero stato accettato erano i miei dreadlock; me lo ha confermato uno dei dipendenti del rifugio. Veder sfumare l’occasione di lavorare con quelle persone e quegli animali mi ha provocato molto di più di una normale incazzatura: mi ha devastato. Per settimane sono stato pericolosamente ubriaco e strafatto. Avevo scoperto da poco un n...