Uomini che giocano troppo
Ti voglio gonfiabile
Mio amico avvocato, abbastanza intelligente da capire quanto ero intelligente io. Passò una tizia e partì il mio terzo grado.
Ma a te le modelle piacciono?
«Le modelle sono belle.»
Sì, ma ti piacciono?
«A me piacciono tutte le cose belle.»
È bella anche un’iguana; ma ti piacciono? Le guardi? Ti fidanzeresti? Le scoperesti?
«Le iguane?»
E dài, cazzo.
«Le modelle sono come le altre persone, non mi piace andare per categorie. In generale non mi fanno impazzire.»
Ne hai mai scopate?
«No, se escludiamo una tipa dell’anno scorso che faceva le televendite per la Vorwek Folletto. A me sembrano tutte un po’ troppo magre e spigolose, sempre mezze storte, ’ste gambette da cicogna… hanno troppo spazio tra una coscia e l’altra.»
Le modelle sono così.
«Ma no, è che adesso sono sempre più scheletriche. Non c’è più limite. Un giorno prenderanno le foto di quelle che muoiono di fame in Angola e ci scriveranno sotto Versace. Poi però le anoressiche e bulimiche me le devo smazzare io. Ma che ti frega adesso delle modelle?»
Niente, così.
«Comunque le modelle secondo me dovrebbero farle gonfiabili, anzi tutte le donne dovrebbero farle gonfiabili.»
Le fanno: le vendono nei pornoshop.
«Ma no, voglio dire: come genere di rappresentanza sono il massimo, alte, sottili, delle gazzelle: ma poi a letto vedi le ossa, il bacino, fanno impressione, e poi di sicuro scopano male.»
Perché?
«Sono troppo autoriflesse, appagate, non hanno niente da riscattare o liberare, niente da dimostrare. Molte sono mezze lesbiche, androgine. Hanno una vita così intrisa di sessualità che poi a letto ti arrivano emotivamente scariche, come una ballerina che la sera andasse in discoteca, come una cuoca a cui volessi fare una cenetta. Nella società dell’immagine scopare è quasi una retroguardia.»
A parlare con te, sembra che nessuno scopi solo perché gli piace e basta. Per te una scopata è una diagnosi e una masturbazione è un’autodiagnosi.
Lui disse «uh» ed estrasse il suo taccuino e ci scrisse qualcosa e lo rimise via. Ogni tanto faceva questa cosa.
Ma che ci scrivi nel taccuino?
«Niente.»
E che sarà mai? Segreti professionali?
«Ma no.»
E che cos’è? Dài.
«Ma niente, una cazzata mia.»
E dimmela, che te ne frega?
«È una cazzata, ti dico.»
Non ho dubbi, e allora dimmela.
«…»
Dimmela.
Aveva l’espressione bonaria di chi può fare qualsiasi cosa perché sta bene e allora se ne frega di tutto.
«Io sul taccuino mi segno le seghe.»
Eh?
«Mi segno le seghe.»
Che seghe?
«Le mie, che seghe mi devo segnare?»
Non lo so.
«Ti spiego. È una mia piccola mania. Io da ragazzo ero uno di quei tipi meticolosi che si segna sull’agenda tutto quel che fa. Poi col tempo mi sono stufato e ho smesso di segnarmi più o meno tutto, tranne una cosa.»
Le seghe.
«Le seghe. Nel taccuino tengo segnati gli appuntamenti dello studio e, a piè di pagina, metto un pallino ogni volta che mi masturbo.»
In studio?
«Ma no, in generale.»
Ho capito, ma…
«Cosa?»
Perché ti segni le seghe?
Quell’uomo difendeva la gente nei tribunali.
«Una mania, te l’ho detto, una statistica da due soldi. Sono giunto a elaborare un grafico mensile e annuale con tanto di riepilogo finale delle seghe. Tutto su file Excel. Ho notato che l’impennata si registra nei mesi di luglio e agosto e che il dato è costante negli anni: il picco quindi è col caldo, probabilmente per un preponderante fattore di vasodilatazione. Tieni conto che i dati sono proiettati su una base temporale più che affidabile.»
Cioè? Quando hai cominciato?
«Nel 1978.»
Eh? Ti conti le seghe dal ’78?
«Sì.» Rise. E mi fece dare una veloce sbirciata.
Uhm. Su giovedì hai quattro pallini, che è successo?
«Ma no, magari li segno alla fine della settimana e non mi ricordo i giorni precisi, metto solo i pallini complessivi.»
Delle seghe.
«Sì.»
Ho capito. Anche a me mi pare che d’estate me ne faccio di più. Però non so se c’entri la cosa della…
«Vasodilatazione.»
Ecco. Secondo me è anche per altre cose. Potrebbe essere che in luglio e agosto si va in ferie e quindi si è più rilassati, si indugia nei passatempi preferiti. Se ci si masturba a letto, poi, potrebbe essere che d’estate il ricorso alla pratica sia semplificato dalla mancanza d’impicci e piumini e coperte. Potrebbero essere un sacco di cose.
«Certo. Ma io credo che il fattore della vasodilatazione sia essenziale, per quanto poggi su due elementi.»
Cioè?
«Primo: da giugno in poi si esce di più, si va più in giro, le donne si scoprono e lasciano immaginare: e gli uomini immaginano. La masturbazione maschile, prima che per necessità fisiologica, si muove per stimoli, e le donne fanno volentieri la loro parte con quei vestitini leggeri e sulfurei.»
È vero, una volta si diceva sempre che giugno è il mese delle tette: figurarsi di che cosa lo sono luglio e agosto. E qual è l’altro fattore?
«È più complicato e irrisolto. Cioè: l’estate e i vestitini contano eccome, ma non bastano a spiegare una specie di esplosione sensuale delle donne soprattutto in luglio.»
In luglio?
«Sì. Non si sa perché, non è chiaro. Ormoni? Retaggi genetici? Resta che in luglio e agosto si scopa mediamente anche di più, quindi bisognerebbe capire se le seghe solitarie aumentano perché aumenta anche il sesso, oppure aumentano e basta.»
E in quei paesi dove a luglio è inverno?
«Boh, non ci ho mai pensato.»
Ti chiamo dopo
Christian – dio che nome del cazzo – rappresentava uno dei miei scarsi contatti con la realtà, anche se non lo sapeva. Era un amico strano, non so se amico sia il termine giusto. Io avevo sempre pensato che l’amicizia dovesse coincidere con valori obsoleti come il bel gesto, la parola data, la correttezza, la fedeltà, la discrezione, ovviamente il rispetto. Tra gli amici di Christian queste cose non erano all’ordine del giorno: loro pensavano in primo luogo a divertirsi e se possibile a circondarsi di femminucce d’ornamento e, beninteso, facevano bene. Infatti erano tutti molto attivi in un clima di interscambio continuo, seratine e weekend, telefonatine e messaggini, cose di cui io avevo un certo bisogno anche se c’era sempre una specie di sottofondo extra light che non riuscivo bene a catturare. Si parlava perlopiù del famoso superfluo necessario, feste, matrimoni, gravidanze, patrimoni, comunque soldi, donne e uomini, uomini e donne, stipendi e rendite, viaggi e luoghi di vacanza, racconti di quella volta che eravamo tutti fatti, ristoranti, case, moto, macchine, droga, vestiti, negozi, cellulari e nuove app.
E, se c’erano femmine nuove, il solito teatrino e le solite balle per la milionesima volta, con nuovi arrangiamenti. Era un genere di amicizia necessaria: la disprezzavo ma esserne escluso poteva farmi soffrire, perché c’erano anche persone in buona fede la cui capacità di leggerezza potevo solamente invidiare: comunque un genere di amicizia che dava poco in cambio di poco, e, nei momenti difficili, nulla in cambio di nulla.
Ogni tanto c’erano le feste.
Delle specie di feste, guai a chiamarle feste. Immagini di me che ciondolo con un bicchiere in mano e guardo i quadri e i libri, finché qualcuno viene a recuperarmi e mi presenta a gente che mi sorride e si entusiasma per qualsiasi cosa e poi riscivola in un’altra discussione sul niente. Io dapprima zitto come uno straniero, io che poi spiccico poche parole, io che poi d’improvviso ne pronuncio troppe e troppo seriamente, e quindi sguardi, Christian che interviene per sottotitolarmi e difendermi, qualcuno che lascia il capannello mentre altri sorridono e mi trattano come fossi un originaloide, un tizio in libera uscita chissà da dove.
Poi c’erano gli aperitivi.
Gli aperitivi.
Gli amici di Christian non andavano a un aperitivo, andavano a cinque o sei. Io ogni tanto cercavo d’infilarmi, ma era sfibrante, perché loro seguivano un percorso itinerante a variazione continua, annusavano l’aria, sbirciavano assorti il cellulare che non era un cellulare: era l’indice frullante delle quotazioni serali, il micro-registro contabile delle liste d’attesa, una specie di caccia al tesoro in cui spesso cambiava il tesoro, cambiava lei, cambiava lui, loro. Lo smartphone era il navigatore dei desideri contingenti, una classifica e un’agenda del prossimo minuto. All’imbrunire surfavano sulla città come su internet, una porta ne apriva un’altra, e un’altra, magari un’altra, se andava male tornavano indietro, sempre che si ricordassero da dove erano partiti, che cosa dovevano fare, chi dovevano vedere da principio.
Vaghezza e non-rintracciabilità spaziale e temporale, per loro, erano tutto. Gli telefonavi e non sapevi mai dove fossero, con chi, da dove chiamassero o messaggiassero, non c’era porta che non tenessero socchiusa. Non dicevano mai niente di preciso, non prendevano mai un impegno vero, non ti davano mai una conferma: al limite la chiedevano, ma poi riprendevano tempo e ridecidevano di non decidere. Loro prospettavano un’eventualità. Anzi, non la escludevano. Tanto la serata era lunga.
C’era tutta una serie di locuzioni collaudate che li mantenevano magicamente sospesi nell’indeterminatezza.
«Vediamo.»
«Adesso vedo.»
«Ci sentiamo dopo.»
«Magari ti raggiungo.»
«Magari ti richiamo.»
«Non so a che ora finisco.»
«Ci aggiorniamo.»
Ma anche no.
Erano dei professionisti nel mantenere coltivati e innaffiati i loro orticelli. Chiamavano le donne solo per sorvegliarle. Non davano la buonanotte a una o due: spedivano sms seriali. Volevano cogliere coi tempi loro, quando fosse andato a loro, sempre che gli andasse, sempre che non avessero di meglio. Bravissimi.
«Vediamo.»
«Adesso vedo.»
«Ci sentiamo fra un po’.»
I più bravi si presentavano improvvisamente a un aperitivo dove c’era un loro puntello, una mezza donnina: ma era solo per sparire un minuto dopo, era un gioco d’anticipo, vedevano lei perché in realtà non volevano vederla, lo facevano per rendere perdonabile la loro fuga successiva con una balla qualsiasi. Che poi non era detto. Magari tornavano. Magari richiamavano. Adesso vedevano.
Ecco, è per questo che non ce l’ho fatta più. Perché quelli non erano gli amici di Christian, non era il suo mondo: era Milano.
Ti chiamo io
«Ma è stata solo una scopata e via?»
Eh?
«No, perché giuro, a me non era mai capitato.»
Che cosa?
«Una scopata e...