Oltre la foresta
La notizia la raggiunse sei mesi dopo il ritorno a casa.
Suo marito Abdallah Moro era morto di sukari, zucchero, cioè di diabete scompensato in un lazzaretto di Khartoum, senza aver ricevuto cure adeguate, dopo una lunga e miserabile agonia, gonfio come un otre e incapace di reggersi in piedi, alla mercè di ciarlatani e stregoni che gli erano stati vicini spillandogli gli ultimi soldi per pozioni magiche e sacrifici di capre agli spiriti degli antenati.
Poi stranamente tutti si erano volatilizzati insieme all’ultima, lurida banconota.
Delle tre mogli che aveva avuto, nemmeno una era presente alla sua dipartita.
Era morto solo come un cane.
La sorte peggiore che si possa augurare a un uomo.
Zamu lo pianse sinceramente, e di certo è l’unica ad averlo fatto. Non gli aveva mai voluto bene come a un marito, piuttosto lo aveva temuto come un padrone, ma la sua lealtà nei confronti della vita e delle tradizioni l’avevano portata a rispettarlo. Non nutriva alcun rancore nei suoi confronti.
L’intimità che c’era stata tra loro era qualcosa di assolutamente accidentale, faceva parte del gioco, era l’inevitabile prezzo da pagare in certe occasioni, ma non aveva contribuito ad aumentare l’affetto reciproco e quindi non significava nulla per Zamu. Si era spesso domandata come mai quell’unione così stretta non avesse scalfito l’estraneità vicendevole, anzi forse l’avesse addirittura accresciuta. Spesso pensava che anche i cani facevano così e dopo si allontanavano, ognuno per la propria strada, come se niente fosse.
Evidentemente l’incontro sensuale dei corpi non era un atto che bastasse da solo a generare l’amore tra due persone, aveva bisogno di qualcos’altro che gli desse un significato.
Ma questo era per lei uno dei mille aspetti della vita che non avevano spiegazione.
Era così e basta. Da sempre così.
Forse l’unico fatto davvero rilevante era che Abdallah Moro era il padre di suo figlio Muzamiro, ecco questo importava.
Il fratello del marito affrontò un lungo viaggio per portarle la mesta notizia, dopodiché ebbe la faccia tosta di chiederla in moglie. D’altra parte la tradizione parla chiaro: alla morte del marito, la donna passerà al fratello di quest’ultimo, seguendo l’ordine di anzianità . Anche nelle sacre scritture si testimonia l’esistenza di questa legge tra gli antichi abitanti dell’Oriente.
Inutile dire che Zamu ne aveva avuto abbastanza di leggi e consuetudini da rispettare: non era disposta a tollerare nemmeno un accenno a questa imposizione.
Rispose al cognato lanciandogli addosso un mango. Vista la sua ira, il malcapitato realizzò che la cosa migliore era smettere i panni del lutto, alzare i tacchi e sparire. Non poteva sperare di meglio che riuscire a tornare a casa incolume.
Che mondo! Non c’era più il rispetto di una volta per le tradizioni! Ma dove andremo a finire?
Il tempo passava, le stagioni si alternavano con regolarità inesorabile, il piccolo Muzamiro cresceva e Zamu lo osservava con discrezione e orgoglio: notava in lui lo stesso carattere combattivo e tenace proprio e del nonno. Posava su di lui quello stesso sguardo pieno di speranza che suo padre Shabani aveva avuto per lei.
Spesso quando si alzava al mattino si sorprendeva ad avere come unico desiderio quello di stare insieme al figlio, senza riuscire a vedere altri buoni motivi che la strappassero dalla noia e l’aiutassero ad affrontare la durezza della giornata.
Dopo la tempesta politica seguita alla caduta di Amin, la gente si era illusa che le cose potessero almeno leggermente migliorare.
La realtà era purtroppo ben diversa. Milton Obote, il presidente spodestato da Amin, era stato rimesso in sella alla nazione che ora sfacciatamente governava come se fosse un suo personale possedimento; tra le prime faccende da sbrigare ritenne prioritario sistemare i conti con chi l’aveva tradito per collaborare con il regime di Amin.
Essendo Obote originario del Nordest dell’Uganda, della tribù dei Lango, considerò intere etnie del Sud come nemiche e queste divennero il bersaglio di una vendetta forse meno appariscente a confronto con l’esibizionismo di Amin, ma di certo non meno efficace: si stima che nel cosiddetto triangolo di Lwero, regione tra Kampala e Hoima, circa trecentomila persone siano state fatte scomparire in silenzio, ingoiate dal nulla con discrezione e indifferenza.
Le numerose fosse comuni rinvenute più tardi furono la prova di quell’olocausto: crani fracassati, arti mutilati, corpi sepolti vivi. Ancora una volta i soldati erano stati il braccio armato di un potere violento e bestiale.
Migliaia di incolpevoli tolti di mezzo a colpi di machete o di zappa. Ancora una volta la terra africana doveva bere il sangue dei suoi figli innocenti.
Se per tutti erano tempi tristi, per i musulmani erano addirittura peggiori: i vantaggi che avevano acquisito con il precedente regime furono pagati a caro prezzo. Beni confiscati, esclusione dalla vita pubblica e un senso di insicurezza che si avvertiva in ogni istante della vita quotidiana. Per molti era un continuo batticuore: le notti trascorse con gli occhi aperti per spiare ogni movimento insolito; il cambio frequente di residenza come una delle, a volte inutili, precauzioni. La paura attanagliava i pensieri e soffocava la vita.
Shabani Mugenyi vide ben presto crollare i molteplici affari che aveva costruito così abilmente negli anni d’oro. Si era ridotto a possedere esclusivamente le terre, mentre il bestiame, razziato o svenduto, si limitava a qualche scheletrica vacca dalla carne coriacea; di latte non se ne vedeva neanche una goccia. I tre camion che possedeva gli erano stati confiscati dall’esercito senza che potesse opporsi, l’unico mezzo di locomozione rimasto era una bicicletta indiana sgangherata, nera, di marca Phoenix; le coltivazioni più lucrose, caffè, tè, cotone o canna da zucchero ora languivano per mancanza di mercato.
Si tirava avanti coltivando l’orto, spesso l’obiettivo più lontano era il pasto successivo.
Tutto il giorno in mezzo ai campi, curvi sulla terra con la zappa in mano, con il sole che già dal mattino scottava la schiena, con il sudore salato che bruciava gli occhi ed entrava in bocca senza dissetare, questo era il destino di tutto il clan; non c’erano scuse sufficienti per essere esonerati da una simile lotta per la sopravvivenza.
Uomini e donne, grandi e piccoli: anche i bambini erano arruolati, la scuola era diventata per loro solo un vago ricordo, un mondo dei sogni.
Fiutando l’ulteriore deteriorarsi del vento sociale, Shabani convocò un giorno la figlia Zamu per comunicarle le sue decisioni.
Non avendo più un marito, lei dipendeva ancora in tutto e per tutto dal padre, ed era tenuta all’obbedienza.
Dopo questa doverosa premessa le disse che a Hoima si era troppo esposti alle scorrerie dei militari di Obote e che non valeva la pena costruire, coltivare o allevare in un luogo così in vista e così precario; si era ricordato di un vasto terreno che anni prima aveva acquistato vicino a Kyangwali, sulle rive selvagge e assolate del Lago Alberto, a circa cinquanta miglia da Hoima, oltre la foresta, e pensava di far sorgere là una fattoria e una piccola bottega per lo smercio dei prodotti agricoli. Non c’era nella regione un posto altrettanto riparato e tranquillo.
Zamu e sua madre sarebbero andate là per realizzare questo progetto, insieme a una piccola schiera di cugini e nipotini da impiegare come forza lavoro. In tal modo l’anziano e scaltro capoclan si toglieva dai piedi la madre di Zamu, sua prima moglie, ora diventata troppo vecchia e brontolona oltre che poco gradita alle ultime due giovani mogli che lui si era graziosamente concesso.
Ringiovanire il personale rimane una regola basilare di ogni sana azienda!
Anche nei confronti di Zamu il suo desiderio non era del tutto disinteressato: la voleva vedere sistemata, cioè moglie. In Africa non è concepibile che una donna adulta sia sola, soprattutto nell’ambiente islamico; e Zamu, a differenza della quasi totalità delle sue coetanee, dimostrava stranamente una scarsa propensione al matrimonio: in realtà non aveva ancora smaltito gli effetti collaterali del primo.
Non avendo nulla da perdere, accettò di buon grado la proposta del padre; in questa scelta vide una maggiore possibilità di libertà e un cambiamento per la propria vita, che cominciava a pesarle senza capirne il perché.
Troppo piatta per una donna profonda e intelligente come lei. Pensò che Muzamiro era ancora piccolo e si sarebbe abituato subito alla nuova condizione.
Kyangwali: Zamu l’aveva spesso sentita nominare ma non si era mai soffermata a immaginare come potesse essere; evocava zone remote pur essendo a circa cinquanta miglia da Hoima.
Quando arrivò il giorno della partenza, il piccolo gruppo di parenti fu prelevato da un pick-up Nissan scassato su cui fu caricata una quantità di masserizie, animali ed esseri umani da record mondiale. Sacchi di fagioli, galline legate per le zampe, puzzolenti caprette belanti, tinozze e taniche, zappe e machete, lerci materassi di paglia e sedie di bambù: così era formato il mucchio su cui circa dodici persone di tutte le età accomodarono le proprie terga rassegnate a soffrire per tutta la durata del viaggio.
Zamu era la loro guida, questo era evidente per tutti.
Dopo una comoda strada che costeggiava estese piantagioni di tè una volta rigogliose e fonte di redditi per la corona britannica, ma ormai abbandonate e degradate dal periodo di recessione, arrivarono al villaggio di Kabwoya e qui deviarono verso ovest in direzione della Bugoma Forest al di là della quale, dopo aver attraversato il precario ponte sul fiume Nkusi, la terra si apriva in una immensa spaccatura che ospitava la massa lucente delle acque del Lago Alberto. Una grande distesa che sembrava una favolosa e smisurata creatura pulsante e scintillante mollemente accovacciata tra verdi colline ma pronta a risvegliarsi all’improvviso.
Proseguendo sulla strada umida, il verde e fremente agglomerato della foresta si rivelò all’improvviso, steso ai piedi dell’ultima collina al cui culmine era arrivata la sofferente Nissan. L’autista si fermò timoroso, spense il motore e smontò dalla macchina. Insieme a lui scesero tutti con aria di evidente sollievo, massaggiandosi le membra anchilosate. Lui subito annunciò che non si sarebbe fermato per nessuna ragione nella foresta, visti i numerosi pericoli d’ogni genere in cui sarebbero potuti incorrere.
Alla domanda di un ragazzetto curioso che chiese di quali pericoli si trattasse, l’autista, più spaventato che indispettito, rispose: «Mai sentito parlare di briganti? E di enormi pitoni? O di elefanti? E degli spiriti della foresta? O degli invisibili pigmei del Congo che a volte arrivano sino qui a cacciare con le loro fecce avvelenate!?».
Questo bastò a zittire i vocianti parenti che si dispersero subito a orinare negli angoli più disparati, attribuendo a tale atto, tutto sommato poco nobile benché necessario, un preciso significato propiziatorio.
Zamu si limitò a scuotere la testa con rassegnazione.
Una sorsata d’acqua dalla tanica rimpiazzò il liquido appena eliminato e il viaggio riprese.
La foresta tropicale di Bugoma è tra le più maestose e incontaminate d’Uganda. La vicinanza del Lago Alberto garantisce un clima ideale: umido e ricco di precipitazioni.
Alberi via via più alti e dai fusti più possenti di giganteschi pilastri si elevavano al di sopra del primo livello della boscaglia. Parevano monumentali sentinelle eternamente di vedetta.
Il verde era rappresentato nelle sue mille sfaccettature; sembrava che, tra milioni di piante, non ci fosse una foglia, un ramo, uno stelo, un germoglio o una fronda simile a un altro.
La vegetazione di ogni genere, forma, colore, sfumatura e sagoma si intrecciava, si proiettava in tutte le direzioni e luccicava al sole, poi di colpo, quando si entrava nella galleria verde, l’ombra ricopriva tutto, e i raggi del sole filtravano come corde luminose e solide dalle rare brecce che si aprivano tra il fogliame. Sotto le volte della grande cattedrale di smeraldo uccelli multicolori e farfalle, scimmie grandi e piccole, bianconere, marroni o grigie, dalle code col ciuffo saltavano elastiche tra i rami; un paio di serpentelli innocui suscitarono le urla dei viaggiatori. Radici aeree cadevano dall’alto, punteggiate di fiori purpurei, liane e rami si attorcigliavano attorno a tronchi giganti… Un misterioso brusio di fondo riempiva le orecchie, insetti, stormir di fronde, scricchiolii, schianti improvvisi… era un mondo incantato che incuteva a tutti un timore reverenziale.
Nessuno fiatava.
Per Zamu era palpabile la presenza di divinità che aleggiavano nell’aria e osservava quello spettacolo sbalordita.
Proseguendo verso il centro della foresta il terreno si faceva progressivamente più umido e la qualità della strada peggiorava inesorabilmente sino a ridursi a un sentiero fangoso. Anche questo contribuiva a mantenere in apprensione l’equipaggio.
A un tratto il veicolo si arrestò: davanti alle sue ruote la strada scendeva improvvisamente e diventava un ripido scivolo di fango che terminava in una pozza d’acqua melmosa dalla profondità non ipotizzabile. All’estremità opposta della pozza, a una ventina di metri di distanza, lo stesso solco fangoso risaliva sul versante opposto. Tutti ammutolirono di fronte alla difficoltà imprevista e di nuovo dovettero scendere preoccupati dalla Nissan, nessuno in quel momento invidiava il povero autista che avrebbe dovuto traghettare il veicolo al di là dell’ostacolo.
Dopo una lunga e complessa discussione, fu convenuto che l’autista avrebbe tentato da solo la discesa e possibilmente, sfruttando lo slancio, anche la risalita; tutti gli altri, naturalmente, si sarebbero dovuti adoperare a spingere il fuoristrada. Gli uomini si tolsero le scarpe e si arrotolarono i pantaloni sino al ginocchio, affondando così, rassegnati, nel fango. Le donne e i bambini si avviarono lenti ai fianchi del sentiero.
Era un’evenienza ricorrente per tutti loro, ma pur sempre fastidiosa e pesante.
La povera Nissan si comportò esattamente come tutti in Africa si aspettano che normalmente vadano le cose: cioè molto male. Essa infatti non li deluse: si mise subito di traverso e, mentre il povero autista preso dal panico girava senza senso il volante, l’auto scivolò inesorabilmente sino al centro della pozza che per fortuna non superava i quaranta centimetri di profondità . Qui si fermò inclinata sul fianco mentre il tubo di scarico gorgogliava allegro sott’acqua e le ruote giravano pateticamente a vuoto.
Dopo circa tre ore di immane fatica l’ostacolo fu superato, e l’equipaggio, appesantito da circa un metro cubo di fango, dal sonno, dallo sforzo e dalla fame, era risalito sul pianale e dondolava ritmicamente seguendo le buche della strada fattasi di nuovo asciutta e transitabile.
In serata giunsero alla missione di Buhuka che i Padri Bianchi avevano fondato cinquant’anni prima oltre la foresta. I due missionari presenti erano un prete belga, father Wim e il tedesco father Heinz. Entrambi, in compagnia di alcuni parrocchiani, erano seduti sotto la veranda della missione, a godersi il fresco della sera, cullando la vana speranza che il fumo delle pipe caricate con tabacco locale tenesse lontane le zanzare.
Vedendo arrivare quel gruppo di fantasmi color fango i due anziani preti si alzarono allibiti e, dopo aver superato lo stupore e chiesto informazioni, misero a disposizione dei viandanti il portico della missione e la pompa dell’acqua installata lì davanti.
La notte passò veloce e una nuova, nebbiosa alba li avvolse, ancora irrigiditi dal viaggio e dall’umidità , mentre la campana delle sei e mezzo annunciava la messa mattutina. Per loro, che non erano per nulla interessati alle funzioni cattoliche, quel rintocco era semplicemente il segnale della ...