
- 900 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Le idi di marzo
Informazioni su questo libro
Il romanzo racconta il culmine della parabola di Giulio Cesare dopo la vittoria a Farsalo contro Pompeo, l'amore per Cleopatra e la nascita del figlio Cesarione, i malumori dei circoli aristocratici che sfociano nella congiura di Bruto e Cassio, fino all'assassinio di Cesare e all'ascesa di Ottaviano, erede designato e futuro imperatore. In un turbinio di intrighi, battaglie e tormentate storie d'amore, Colleen McCullough ci mette davanti agli occhi uomini e donne d'eccezione - Cesare e il suo genio politico, Cleopatra regina innamorata, l'avido e brutale Marco Antonio, il giovane Ottaviano, feroce, vendicativo, destinato a fondare e guidare l'Impero - e racconta un'epoca capitale nella storia dell'umanità.
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Informazioni


1
«Sapevo di avere ragione... un terremoto lievissimo», disse Cesare, posando un fascio di documenti sullo scrittoio.
Calvino e Bruto alzarono gli occhi dalle rispettive occupazioni, sorpresi.
«E questo cos’avrebbe a che fare con il prezzo del pesce?» domandò Calvino.
«I segni della mia divinità, Gneo! La statua della Vittoria che si è capovolta nel tempio di Elide, il fragore di scudi e spade ad Antiochia e Tolemaide, i tamburi tonanti dal tempio di Afrodite a Pergamo, ricordi? Secondo la mia esperienza gli dei non interferiscono nelle faccende umane, e certo non ci è voluto un dio in terra per battere Pompeo, a Farsalo. Quindi ho fatto qualche indagine in Grecia, nella provincia dell’Asia settentrionale e nella Siria del fiume Oronte. Tutti i fenomeni sono accaduti nello stesso momento dello stesso giorno... un lieve terremoto. Guarda i nostri registri sacerdotali in Italia, pieni di tamburi che rombano dalle viscere della terra e statue che fanno stranezze. Terremoti.»
«Tu ti sottovaluti, Cesare», replicò Calvino con un sorriso. «Proprio adesso che cominciavo a credere di essere al servizio di un dio.» Guardò il compagno. «Non sei deluso anche tu, Bruto?»
I grandi occhi scuri e tristi, dalle palpebre pesanti, non scintillavano; fissavano Calvino pensosamente. «Né deluso né disilluso, Gneo Calvino, benché non avessi pensato a una causa naturale. Avevo preso quei rapporti per piaggeria.»
Cesare fece una smorfia. «L’adulazione», disse, «è anche peggio.»
I tre uomini sedevano nella stanza comoda, ma non sontuosa, che l’etnarca di Rodi aveva concesso loro per ufficio, distinto dagli appartamenti dove passavano il tempo libero e dormivano. La finestra guardava sul porto operoso di quella grande stazione di scambio, sull’importante rotta commerciale che collegava il Mar Egeo con Cipro, la Cilicia e la Siria; era una vista piacevole e interessante, con lo sciamare delle navi, l’azzurro profondo del mare e le alte montagne della Licia che si alzavano oltre lo stretto, ma nessuno ci badava.
Cesare ruppe il sigillo di un altro comunicato, lo scorse con un’occhiata e bofonchiò. «Da Cipro», disse, prima che i suoi compagni potessero tornare al lavoro. «Il giovane Claudio riferisce che Pompeo Magno è partito per l’Egitto.»
«Strano, avrei giurato che avrebbe raggiunto suo cugino Irro alla corte del re dei Parti. Cosa c’è da prendere, in Egitto?»
«Acqua e provviste. Col passo di lumaca che sta tenendo, i venti Etesii cominceranno a soffiare prima che lui abbia lasciato Alessandria. Pompeo raggiungerà il resto dei fuggitivi nella Provincia Africana, suppongo», disse Cesare, un po’ triste.
«Allora non è finita», sospirò Bruto.
Cesare rispose di scatto. «Finirà non appena Pompeo e il suo “Senato” verranno a dirmi che posso candidarmi all’incarico di console in absentia, mio caro Bruto!»
«Oh, quello sarebbe un eccessivo sfoggio di buonsenso per uomini dello stampo di Catone», replicò Calvino, nel silenzio di Bruto. «Finché sarà vivo Catone, Pompeo e il suo Senato non ti faranno alcuna concessione.»
«Sì, lo so.»
Cesare aveva traversato l’Ellesponto per raggiungere la Provincia Asiatica tre nundinae prima, allo scopo di percorrerla lungo il litorale egeo e ispezionare i disastri provocati dai repubblicani, mentre questi radunavano, frenetici, denaro e flotte. I templi erano stati saccheggiati dei tesori più preziosi e i forzieri di banche, ricchi possidenti e pubblicani erano stati scassinati e depredati. Il governatore della Siria più che della Provincia Asiatica, Metello Scipione, si era fermato lì durante il viaggio per unirsi a Pompeo in Tessaglia, e aveva imposto tributi illegali su tutto ciò che gli era venuto in mente: finestre, colonne, usci, schiavi, i capite censi, le granaglie, il bestiame, le armi, le munizioni e i trasporti via terra. Quando il gettito si rivelò insufficiente, istituì e riscosse tasse provvisorie per i dieci anni a venire, e quando gli abitanti del luogo protestarono, li mise a morte.
Benché i dispacci che giungevano a Roma si soffermassero più sulle prove della natura divina di Cesare che su quelle difficoltà, di fatto l’itinerario di Cesare serviva al tempo stesso ad accertare i fatti e mettere le basi di aiuti finanziari per una provincia resa incapace di prosperare. Quindi parlò alle autorità cittadine e commerciali, licenziò i pubblicani, condonò tasse di ogni genere per cinque anni a venire, emise ordinanze affinché i tesori ritrovati in diverse tende, a Farsalo, venissero restituiti ai templi dai quali provenivano e promise che, non appena avesse ristabilito il buon governo a Roma, avrebbe messo in atto misure più specifiche per aiutare la misera provincia dell’Asia.
Il che, pensava Gneo Domizio Calvino guardando Cesare leggere tutti i documenti che riempivano il suo tavolo lì a Rodi, era il motivo per cui la Provincia Asiatica era incline a crederlo un dio. L’ultimo uomo davvero capace nella gestione economica e che aveva avuto rapporti con l’Asia era stato Silla, il cui equo sistema di tassazione era stato abolito quindici anni più tardi proprio da Pompeo Magno. Forse, rifletteva Calvino, ci vuole uno degli antichi patrizi per capire a fondo i doveri che ha Roma nei confronti delle sue province. Il resto di noi non ha i piedi così ben piantati nel passato, perciò tendiamo a vivere nel presente anziché pensare al futuro.
Cesare aveva l’aria molto stanca. Sì, in forma e snello come sempre, ma decisamente consunto dalla fatica. Poiché non toccava mai vino e non si cibava smodatamente, affrontava ogni giornata senza il peso dei vizi e la sua capacità di svegliarsi riposato da un breve sonnellino era invidiabile; ma aveva sempre troppo da fare, e mancava della fiducia necessaria per delegare agli assistenti una parte delle sue responsabilità.
Bruto, pensava acidamente Calvino, al quale Bruto non piaceva, è un caso esemplare. È un perfetto contabile, ma ogni sua energia è diretta a proteggere quella disonorevole cricca di usurai ed esattori fondiari, la società di Matinio e Scazio. O si potrebbe anche dire la società di Bruto. Chiunque conti qualcosa nella Provincia Asiatica ha debiti per milioni con Matinio e Scazio, persino il re Deiotaro di Galazia e il re Ariobarzane di Cappadocia ne hanno. Così Bruto lo assilla, petulante, e ciò esaspera Cesare che odia i petulanti.
«Il dieci per cento di interesse semplice è un ritorno del tutto inadeguato», diceva querulo, «come puoi fissare un tasso di quel genere, quando è così deleterio per i commercianti romani?»
«Gli affaristi romani che prestano denaro a un tasso più alto sono usurai detestabili», rispondeva Cesare. «Il quarantotto per cento d’interesse composto, Bruto, è da criminali! Ed è quel che i tuoi sodali Matinio e Scazio hanno imposto ai ciprioti di Salamina, e poi li hanno fatti crepare di fame quando non sono più riusciti a rientrare con i pagamenti! Perché le nostre province contribuiscano al benessere di Roma, la loro economia deve prosperare.»
«Non è colpa dei prestatori di denaro, se i richiedenti firmano contratti che prevedono un tasso d’interesse più alto dell’usuale», insisteva Bruto con la particolare ostinazione che riservava alle questioni finanziarie. «Un debito è un debito, e va saldato al tasso pattuito. Ora tu l’hai reso illegale!»
«Avrebbe sempre dovuto essere illegale. Sei famoso per i tuoi compendi, Bruto... chi altri può racchiudere l’opera di Tucidide in due sole pagine? Hai mai provato a raccogliere le Dodici Tavole in una paginetta? Se è in nome del mos maiorum che ti sei schierato con tuo zio Catone, allora dovresti ricordare che le Dodici Tavole proibiscono di esigere qualsivoglia interesse sui prestiti.»
«Quello succedeva seicento anni fa», replicava Bruto.
«Se i mutuatari accettano termini di prestito esorbitanti, vuol dire che non sono i giusti candidati per un mutuo, e tu lo sai. Ciò di cui ti lamenti davvero, Bruto, è che io abbia proibito ai prestatori di denaro romani l’uso di soldati governativi o di littori per riscuotere i loro crediti con la forza», concludeva Cesare, ormai in preda all’ira.
Simili conversazioni si ripetevano almeno una volta al giorno.
Certo Bruto costituiva un problema molto difficile per Cesare, che lo aveva preso sotto la sua ala dopo le vicende di Farsalo, per via dell’affetto nutrito per sua madre Servilia, e del senso di colpa per aver rotto il fidanzamento di Bruto con Giulia al fine di prendere in trappola Pompeo... Cesare aveva spezzato il cuore di Bruto, e lo sapeva bene. Tuttavia, pensava Calvino, lui non aveva la minima idea di che genere di uomo fosse Bruto, quando si era impietosito nei suoi confronti dopo Farsalo. Lo aveva lasciato ragazzo, e aveva ripreso i rapporti dodici anni più tardi. Senza sapere che il ragazzetto brufoloso, ora brufoloso adulto di trentasei anni, era un codardo sul campo di battaglia e un leone quando si trattava di difendere il suo strabiliante patrimonio. Nessuno aveva osato dire a Cesare ciò che tutti sapevano: che Bruto aveva lasciato cadere la spada inutilizzata, a Farsalo, e si era nascosto nelle paludi prima di fuggire a Larissa, dove era stato il primo della fazione repubblicana di Pompeo a invocare la grazia. No, si disse Calvino, il pavido Bruto non mi piace, e vorrei non doverlo vedere mai più. E dirsi repubblicano, poi! È solo un nome altisonante col quale lui e tutti gli altri cosiddetti repubblicani pensano di giustificare la guerra civile alla quale hanno condotto Roma.
Bruto si alzò dalla scrivania. «Cesare, ho un appuntamento.»
«E allora vacci», fu la placida risposta.
«Vale a dire che quel verme di Matinio ci ha seguiti a Rodi?» chiese Calvino, appena Bruto se ne fu andato.
«Ho paura di sì.» Gli occhi celesti, inquietanti a causa dell’anello scuro attorno a ciascuna iride, s’incresparono agli angoli. «Allegro, Calvino! Presto ci libereremo di Bruto.»
Calvino rispose al sorriso. «Che progetti hai per lui?»
«Lo sistemerò nel palazzo del governatore di Tarso, che è la nostra prossima e ultima destinazione. Non riesco a pensare a una punizione più adatta per Bruto che costringerlo a tornare a lavorare per Sestio, il quale non lo ha perdonato di avergli sgraffignato le due legioni di Cilicia per metterle al servizio di Pompeo Magno.»
Non appena Cesare ebbe emanato l’ordine di partenza, le cose si mossero in fretta. Il giorno seguente prese il mare da Rodi in direzione di Tarso, con due legioni complete e circa 3.200 veterani superstiti delle sue legioni più anziane, la Sesta in particolare. Con lui partirono 800 soldati di cavalleria germanici, lanciatori scelti, e un gruppetto di fanti degli Ubii che combattevano con loro in qualità di lancieri di picca.
Devastata dal malgoverno di Metello Scipione, Tarso stentava a riprendersi sotto le cure di Quinto Marzio Filippo, figlio minore del nipote acquisito di Cesare e suocero di Catone, Lucio Marzio Filippo, epicureo e temporeggiatore. Dopo aver lodato il giovane Filippo per il suo buonsenso, Cesare procedette senza indugio a rimettere Publio Sestio sul soglio di governatore, e nominò Bruto suo legato e il giovane Filippo suo proquestore.
«La Trentasettesima e la Trentottesima hanno bisogno di una licenza», disse a Calvino, «dunque accampale per bene nell’altopiano sopra le Porte di Cilicia per sei nundinae, e poi mandale da me ad Alessandria insieme alla flotta da battaglia. Io aspetterò là che arrivino, e poi muoverò verso ovest per spazzare via i repubblicani dalla Provincia Africana prima che si mettano troppo comodi.»
Calvino, un uomo alto e fulvo dagli occhi grigi, di quasi cinquant’anni, non mise in discussione gli ordini. Le disposizioni di Cesare si rivelavano essere sempre le più avvedute; da quando si era unito a lui, un anno prima, aveva visto abbastanza da capire di avere di fronte un uomo che chiunque desiderasse il successo doveva avere la saggezza di emulare. Politico conservatore che avrebbe dovuto scegliere di servire Pompeo Magno, Calvino aveva invece optato per Cesare, dopo che la cieca ostilità di uomini come Catone e Cicerone l’avevano disgustato. Così aveva avvicinato Marco Antonio, a Brundisium, e gli aveva chiesto di essere condotto da lui. Fin troppo consapevole che Cesare avrebbe apprezzato la defezione di un console del rango di Calvino, Antonio aveva acconsentito all’istante.
«Comandi che io rimanga a Tarso finché non ricevo tue notizie?» gli chiese ora.
«Decidi tu, Calvino», rispose Cesare. «Preferirei pensare a te come al mio “console errante”, se un simile animale esiste. Come dittatore, ho il potere di conferire imperio, così oggi pomeriggio riunirò trenta littori per fare da testimoni a una lex curiata che ti conferisca pieni poteri su tutte le terre a est della Grecia. Ciò ti consentirà di porti al di sopra dei governatori delle province, e di raccogliere truppe ovunque.»
«Hai una premonizione, Cesare?» domandò Calvino, aggrottando la fronte.
«Non ho quel genere di sensazioni, se parli di qualche spasmo sovrannaturale nella mente. Mi piace pensare che le mie, ehm... intuizioni siano radicate in minuscoli eventi che il mio pensiero non ha del tutto compreso, e che però sono presenti. Ti dico solo di aguzzare la vista se gli asini volano, e di tenere le orecchie aperte all’ascolto di muli parlanti. Se vedi gli uni o senti gli altri, qualcosa non va, e avrai l’autorità necessaria per occupartene in mia assenza.»
E il giorno seguente, che era il penultimo giorno di settembre, Caio Giulio Cesare salpò dal fiume Cidno entro il Mare Nostrum, al soffio di Coro che lo spingeva idealmente a sud-est. I suoi 3.200 veterani e gli 800 cavalieri germanici erano stipati in trentacinque trasporti; le navi da guerra furono lasciate alla revisione.
Due nundinae più tardi, proprio mentre Calvino, il console errante e dotato di pieni poteri, stava per mettersi in viaggio verso Antiochia per vedere che aspetto avesse la Siria dopo aver sopportato Metello Scipione come governatore, giunse a Tarso un corriere su un cavallo sfiatato.
«Il re Farnace è calato dalla Cimmeria con centomila uomini e sta invadendo il Ponto ad Amiso», disse l’uomo, appena fu in grado di parlare. «Amiso è in fiamme, e lui ha annunciato che intende riconquistare tutte le terre di suo padre, dall’Armenia Minore all’Ellesponto.»
Calvino, Sestio, Bruto e Quinto Filippo sedettero, tramortiti.
«Di nuovo Mitridate il Grande», disse Sestio con voce sorda.
«Ne dubito», replicò Calvino, rapido a riprendersi dal colpo. «Sestio, tu e io ci metteremo in marcia. Porteremo Quinto Filippo con noi e lasceremo Marco Bruto al governo di Tarso.» Si voltò verso Bruto, con un’aria così minacciosa che Bruto indietreggiò. «Quanto a te, Marco Bruto, fai bene attenzione alle mie parole: non ci sarà nessuna riscossione di crediti in nostra assenza, siamo intesi? Puoi godere dell’imperio propretorio per governare, ma se solo osi mettere un littore all’esazione di pagamenti da un cittadino romano o delle province, giuro che ti appenderò per le palle, se le hai ancora.»
«E inoltre», sibilò Sestio, al quale pure Bruto non piaceva, «è colpa tua se in Cilicia non vi sono legioni preparate, dunque il tuo maggiore impegno sarà il reclutamento e l’addestramento di soldati... mi hai sentito?» Si girò verso Calvino. «E per quanto riguarda Cesare?» chiese.
«È un problema. Mi ha chiesto sia la Trentasettesima che la Trentottesima ma io non oso, Sestio. E sono sicuro che non vorrebbe farmi spogliare l’Anatolia di tutte le truppe esperte. Così gli manderò la Trentasettesima, dopo la licenza, e porterò la Trentottesima a nord, con noi...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- I – Cesare in egitto
- II – La marcia dei diecimila di catone
- III – Il riordino dell’asia minore
- IV – Il magister equitum
- V – Il male di vincere
- VI – Tempi duri, ingrati compiti
- VII – Le prime crepe
- VIII – La caduta del titano
- IX – L’erede di cesare
- X – Eserciti ovunque
- XI – Il triumvirato
- XII – A est dell’adriatico
- XIII – Finanziare l’esercito
- XIV – Filippi: Tutto a metà
- Postfazione dell’autrice
- Glossario
- Indice