Fattore H
eBook - ePub

Fattore H

Slalom di un disabile nella nostra società

  1. 210 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Fattore H

Slalom di un disabile nella nostra società

Informazioni su questo libro

Una madre alcolizzata e tossicodipendente desidera un figlio, forse con la speranza di uscire dal tunnel della droga. Un uomo fa perdere le sue tracce perché non vuole assumersi le sue responsabilità. Un eroinomane malato di AIDS che entra ed esce dalla galera decide invece di fare da padre. Un bambino nasce dopo cinque mesi e mezzo di gestazione e due settimane più tardi ha un ictus che lo costringerà sulla sedia a rotelle per sempre. Vivono in una grande città, in un quartiere di periferia dove nessuno è pulito, e si finisce al gabbio per arrivare a fine mese. Finzione? No, è la vita di Tyrone Nigretti, un ventenne abbastanza incazzato che racconta la sua storia con la rabbia, l'ironia e la lucidità che ha dovuto sviluppare per difendersi dai pregiudizi e dalle discriminazioni che il mondo ancora riserva a chi, come lui, possiede il "fattore H". H di handicap, ma anche di hip hop, la passione che gli ha salvato la vita, insegnandogli a rialzare sempre la testa e gridare: «Ci sono!». Il suo diario è una testimonianza disincantata sulla disabilità, ma anche il racconto struggente di un'adolescenza impossibile e delle difficoltà di crescere e diventare uomini.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
Print ISBN
9788817079068
eBook ISBN
9788858676981

1.

Fattore H


A circa due settimane dalla nascita, mi è venuto un ictus.

A circa due settimane dalla nascita, mi è venuto un ictus perché sono nato prematuro e i miei polmoni non erano ancora perfettamente sviluppati. I miei familiari però hanno il sospetto che non sia tutto qui: secondo loro i medici mi avrebbero somministrato del metadone ipotizzando, forse, che avessi una crisi di astinenza, visto che mia madre era tossicodipendente.
Dopo l’ictus, mi hanno tenuto sotto osservazione in incubatrice, giusto il tempo per crescere il minimo indispensabile e affrontare il mondo là fuori (comunque, mi sa che non si cresce mai abbastanza). I racconti di mia madre e della nonna erano davvero emozionanti, parlavano molto del periodo in cui ero in fasce, e credo che sia stato il momento più bello della loro vita; mi fa sorridere pensarci. Non riesco realmente a immaginare quanto io, ai loro occhi, potessi apparire piccolo: sono nato di cinque mesi e mezzo. Mamma mi raccontava che, quando veniva a trovarmi all’ospedale e mi accarezzava nell’incubatrice, la sua mano era grande dieci volte più di me.
Sarebbe dovuto nascere Nicolas al posto mio o, meglio, mi sarei dovuto chiamare così. Chi se lo sarebbe mai aspettato che fossi tanto ansioso di vedere il mondo. Qualche giorno prima di partorire, mia madre si trovava alle prese con un cruciverba. Domanda: «Famoso attore americano?», risposta: «Tyrone».
Erano passati troppi pochi mesi da quando avevo cominciato a crescere dentro la mamma e, in teoria, sarei dovuto rimanere lì per altri quattro, ma…
«Oh, Mary! Ma ti sei pisciata addosso?!» chiese mia zia.
«No! Ma che cazzo dici?!» rispose mia madre.
«Eh sì! Guardati, sei tutta bagnata!» insistette la zia.
A quel punto mia madre si rese conto. «Mi si sono rotte le acque!»
Seguì la corsa in ospedale, l’anestesia, il parto cesareo d’urgenza.
Mia madre si svegliò dall’operazione ancora intontita. Un’infermiera le chiese: «Signora, come lo chiamiamo?».
«Nutgfftdds.» “Nicolas”, avrebbe voluto dire.
«Come, prego? Non ho capito. Come chiamiamo il bambino?» domandò ancora l’infermiera.
«Nssfsdfs.»
«Signora, io continuo a non capire…»
«Tairon! Scriva Tairon!»
«Ah! Tairon, ora ho capito. Signora, la prego, mi faccia lo spelling.»
«Ok… T-Y-R-O-N-E.»
Nome a parte e aneddoti simili, non mi hanno mai raccontato con chiarezza quasi nulla degli aspetti negativi della mia infanzia. Forse per paura, forse per non togliermi l’illusione di poter essere felice e come tutti gli altri. Ci tenevano molto a questo: lasciarmi dormire. Non mi sono mai chiesto perché non camminassi, né loro, i miei familiari, hanno mai avuto la preoccupazione di spiegarmelo. Sentivo pronunciare le parole “tetraparesi spastica” (questa era la mia diagnosi) e le ricollegavo a me come si fa con un’etichetta al supermercato (per farla breve: non cammino, muovo il braccio sinistro veramente poco e solo quello destro si salva). Quando avevo all’incirca cinque anni, alla domanda «Perché non cammini?» che molti bambini mi facevano, davo sempre la solita risposta: «Sono nato così…».
Le parole “tetraparesi spastica” le ricollegavo a me come si fa con un’etichetta al supermercato.
Circa due anni dopo, le domande che mi ponevo sul mio problema hanno iniziato a farsi mirate, eppure a tutti chiedevo tranne che ai miei familiari. Interrogavo la mia fisioterapista, ponendole addirittura quesiti tecnici sul perché i miei muscoli, i miei nervi e i miei tendini reagissero in un certo modo, contraendosi a mia insaputa.
Lei mi rispondeva molto carinamente (oltre ad avere modi carini, era carina pure lei… me la ricordo, una gran figa) e mi spiegava che i movimenti involontari del mio corpo e l’eccessivo irrigidimento dei muscoli erano dovuti alla lesione cerebrale causata dall’ictus. La lesione aveva danneggiato il sistema parasimpatico che ha il compito di regolare correttamente il movimento volontario. Sapevo d’altro canto che i miei familiari non avrebbero risposto a queste mie curiosità, secondo loro non mi sarei mai dovuto preoccupare di nulla: prima o poi Dio mi avrebbe guarito.
Non mi sarei mai dovuto preoccupare di nulla: prima o poi Dio mi avrebbe guarito.
Credo che mia madre non abbia mai approfondito l’argomento “perché sono nato così” poiché sapeva, in fondo, che buona parte della colpa era sua. Mia madre era etilista e tossicodipendente e, nel momento in cui aveva avuto il desiderio molto egoistico di maternità, non avrebbe potuto avere un figlio. Non in quelle condizioni. Non doveva, ma lo ha fatto. Tante ragazze, per salvare squallide relazioni amorose destinate ad arrivare al capolinea, fanno figli; e mia madre ha fatto un figlio sperando di uscire dal tunnel della droga. La mia patologia probabilmente è il “segno” degli errori che ha commesso.
Non so precisamente quando sia stata fatta la mia diagnosi di “tetraparesi spastica”… diagnosi tra l’altro piuttosto generica, equiparabile a quella di “raffreddore”: vuol dire tutto e non vuol dire un cazzo. Sulla cartella clinica di un individuo che ha la “tetraparesi spastica” non troverete mai né la gravità né i reali motivi della sua patologia.
Ci potrebbe essere una sorta di collegamento tra la tossicodipendenza di mia madre e la mia patologia? Certamente. Ma farlo sapere non è politicamente corretto: meglio lasciar credere che Dio possa aggiustare tutto, invece di ammettere le proprie responsabilità e provare a ricominciare da zero. Più che i problemi fisici, ciò che ha sempre condizionato la mia vita in modo negativo sono state le verità occultate, occultate come lo sono state le esistenze di chi non ha avuto il coraggio di spiegarmi. Far parte di una famiglia che ha avuto a che fare con la droga e con l’alcol era ed è argomento troppo tabù. Tutti sanno, ma nessuno ammette, nessuno parla, nessuno si scusa.
Risultato: a due anni andavo da un neuropsichiatra che aveva il compito di eliminare le mie fobie delle bambole e di tutto ciò che avesse i peli. Probabilmente avevo solo paura della vita e a confermarlo c’erano dei genitori e dei parenti non in grado di tutelarmi. Ma a questo mondo, si sa… è sempre il malato che va curato e non chi permette che il malato esista.
Perché è sempre il malato che va curato e non chi permette che il malato esista?
Tutto sommato, mi sento fortunato: molte persone con la mia stessa patologia muovono poco e male tutti e quattro gli arti. Io, se non riuscissi mai a trovare una donna che mi ami, avrei comunque la magra consolazione che “Federica” (la “mano amica”) ci sarà sempre… Sì, ragazzi e ragazze, anche noi, tutti noi con il fattore H ci masturbiamo o lo vorremmo fare e, notizia ancora più sconcertante, ci piace fare sesso/l’amore in compagnia. Quindi ve la butto lì, anche se so che sono parole sprecate: non sarebbe il caso di promuovere il fenomeno “assistenti sessuali” anche qui in Italia come in Svizzera, Olanda e Germania, così da permettere anche ad handicappati messi peggio di me di conoscere e sperimentare una cosa naturale come la masturbazione e il sesso? Ok, me ne rendo conto, sto dicendo cose forse ancora troppo “trasgressive” per un Paese ipocrita e bigotto come l’Italia. Quindi tornerò a parlare di me da piccolo, quando non mi interessava farmi un’idea sul futuro.
Ero esile, fragile e innocente, esattamente tutto il contrario di ciò che sono ora, o forse no… E la cosa che mi dava sempre molto fastidio erano (a volte lo sono ancora) gli sguardi insistenti delle persone adulte e dei bambini. Già all’età di quattro anni sentivo la pesantezza di quegli occhi puntati. Non potendo camminare, ho passato la mia tenera età, dalla nascita ai cinque anni, nel passeggino, per poi passare definitivamente a una sedia a rotelle. Per la gente che mi fissava ero come un fenomeno da baraccone, un alieno da analizzare e, per qualcuno, addirittura da evitare.
I miei mi hanno sempre tutelato troppo: quando notavano le occhiate eccessivamente insistenti dei passanti in centro, per esempio, scattavano come vipere (specialmente la nonna), scatenando così discussioni accese con persone ignoranti che avevano (forse) solo bisogno di risposte a domande del tipo: «Chissà come fa a vivere quel bambino? Riderà? Giocherà? Sarà contento della vita che sta facendo? Chissà come sarà per i genitori avere il peso di un figlio handicappato, avere il peso del mio sguardo puntato addosso…». Ai tempi pensavo poco alla curiosità positiva che poteva celarsi dietro quegli sguardi, pensavo sempre negativo, di me stesso e degli altri. Mi stimavo poco o niente, m’immaginavo che tutti mi vedessero come io vedevo me: un handicappato da allontanare.
Poi ho cominciato a sfruttare i pregiudizi nascosti dietro certe occhiate. La prima volta è stata al mare: era un giorno caldo d’estate, un giorno come tanti in cui però stava per accadere qualcosa. Ero in vacanza a Cesenatico, dove andavamo sempre perché la mia famiglia era molto abitudinaria: per loro tornare nello stesso posto aiuta a bloccare il tempo. Lo facevano ancor prima che io nascessi e, dopo la mia nascita, non avevano avuto alcuna voglia di rinunciare a piadina e squacquerone; così, dal mio primo anno di vita e per i nove seguenti, la mia meta estiva è stata Cesenatico.
M’immaginavo che tutti mi vedessero come io vedevo me: un handicappato da allontanare.
Quel giorno particolare era l’ora del bagno, mio padre stava gonfiando i braccioli e il salvagente; ormai cresciuto (avevo all’incirca sei anni), non avevo più il passeggino ed ero sulla mia prima sedia a rotelle, fermo sulla passerella ad aspettare. Mio padre sarebbe tornato a momenti, quando vidi due bambine che mi fissavano con insistenza. Ero abituato a quel genere di atteggiamenti ormai, ma le parole che sentii pronunciare mi parvero insopportabili: «Stiamo lontane da quel bambino, è malato!».
In quel preciso istante provai una fitta lunga tutto il cuore, nessuno era mai stato tanto crudele. Quindi decisi di usare la cosa a mio favore, scelsi di fare l’handicappato… cioè quello stereotipo di disabile che tutti si aspettano, che sbava e sbraita come un ominide. Cacciai un urlo degno del mostro della rubrica di Striscia “I nuovi mostri”, avete presente?
Provai una fitta al cuore: nessuno era mai stato tanto crudele con me.
Be’, non ho mai visto correre due bambine così velocemente, erano terrorizzate! In quanto a me, invece, ero un tornado di emozioni: soddisfatto, compiaciuto, strafelice, ma allo stesso tempo confuso. Non avrei voluto spaventarle, al contrario, avrei voluto essere accettato.
Ai miei non ho mai raccontato dell’accaduto, avevo troppa paura di passare per il cattivo. Mi sentivo in colpa nell’essere diverso.
Per fortuna nessun essere umano nasce con i pregiudizi. Sono gli adulti, con i loro timori e le loro convinzioni, che trasmettono ai più piccoli paure di ogni natura.
Ora mi rivolgo a voi con il fattore H: non so se ci avete mai fatto caso ma, quando andate al parco, gli unici a guardarvi privi di un atteggiamento discriminatorio sono i bambini di pochi mesi. Vorrebbero giocare con voi come farebbero con qualsiasi altra persona. Il pregiudizio non è una dote innata, ma un paraocchi che ci affibbiamo quando siamo convinti di conoscere tutto della vita.
Comunque, per la cronaca: ora che sono cresciuto, non spavento più i bambini facendo versi; al contrario, li lascio avvicinare a esaminare la sedia a rotelle, cosicché, un giorno, possano guardarmi con altri occhi, senza rimanere sbigottiti come i loro padri.
Il pregiudizio è un paraocchi che ci affibbiamo quando siamo convinti di conoscere tutto della vita.
Ma ci sono padri e padri, e molto spesso, troppo spesso, l’atteggiamento dei bambini risulta a immagine e somiglianza di quello dei propri genitori. Da quando ho undici anni vado in vacanza a Lignano Sabbiadoro assieme ai volontari di Semplicemente Noi, un’associazione partita da due persone che si erano fissate l’obiettivo di far divertire ragazzi con handicap, e che poi, piano piano, è diventata una realtà solida attorno alla quale ruota molta gente. Ho visto andare e venire parecchi volontari: del resto, come da definizione, l’associazione è composta da persone che non sono legate da alcun tipo di contratto e che agiscono con voglia di fare ed entusiasmo, senza la prospettiva di un riscontro economico. Con dei volontari ho creato un rapporto di reciproca fiducia e di amicizia, conosco le loro storie e so che alcuni di loro, anche grazie a noi “assistiti”, si sono incontrati e innamorati, hanno addirittura formato una famiglia. Una volta insieme, non si sono fatti i cazzi loro abbandonando l’associazione e il piccolo grande progetto creato negli anni, ma hanno continuato a dedicarsi al volontariato nel periodo delle vacanze coinvolgendo anche i figli più piccoli. Questi bambini, volenti o nolenti, hanno avuto modo di conoscere la disabilità fin da subito e di iniziare a familiarizzare e a crescere con essa. Infatti oggi non hanno paura della disabilità e la vivono come una condizione di normalità. Il fattore H, per loro, non è una brutta malattia.

2.

Discriminazione legalizzata

A quattro anni ho cominciato a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Copyright
  3. Prefazione
  4. Premessa
  5. 1. Fattore H
  6. 2. Discriminazione legalizzata
  7. 3. Il mercato
  8. 4. Gordon Gin
  9. 5. Un senso
  10. 6. Yin & Yang
  11. 7. Ci sono
  12. 8. Le disinsegnanti
  13. 9. Barriere architettoniche mentali
  14. 10. Caterina e la “pompa”
  15. 11. Dialogo interiore
  16. 12. Spastici ritardati o ritardanti?
  17. 13. Il bambino
  18. 14. DNA
  19. 15. Ero un mammone
  20. 16. Gente perbene
  21. 17. Addio, papà
  22. 18. Trip mentali
  23. 19. Arte e ipocondria
  24. 20. Pensiero distruttivo
  25. 21. Chiacchiere stupefacenti
  26. 22. Mi taglio come burro
  27. 23. Crescita personale
  28. 24. Dio istituzionalizzato
  29. 25. Siamo tutti vittime del Matrix
  30. 26. Punti sfiga
  31. 27. Figlio ingrato
  32. 28. Le donne
  33. 29. Addio, mamma
  34. 30. Italietta razzista
  35. 31. Mia sorella Mary & mio fratello Hash
  36. 32. Un nuovo inizio
  37. Ringraziamenti
  38. Indice