CAPITOLO OTTO
«Mi sono rotto, va bene?» James bevve un lungo sorso. Secondo lui la birra, dopo avergli confuso parecchio le idee, gliele avrebbe schiarite.
Si erano appena accomodati nella sala per la cena, davanti a lui i soliti Mario e Francesco.
«Non ti sei rotto un tubo, sei solo arrabbiato con lei.»
«Ovvio, Fra: si viene a prendere la macchina al casale e non dice niente. Va bene, vuole troncare. Dopo una bella notte insieme ha deciso che non fa per lei. Padronissima. Solo che non mi merito questo silenzio di tomba!»
Gli amici si scambiarono uno sguardo d’intesa che pareva dire «Senti da che pulpito viene la predica!», ma non si azzardarono ad aggiungere una parola, limitandosi a tracannare birra assieme a lui.
«Cos’è, devo espiare delle colpe?» sbottò James all’improvviso.
A questo punto i due non si trattennero più e scoppiarono a ridere.
«Dai, butta giù un altro sorso. Ti farà bene» disse Mario.
Proprio in quel momento entrò il coach seguito da Hook, che andò dritto a fare le feste a James con l’obiettivo di ricevere in premio un boccone dalla tavola.
«Eccolo il mascalzone! Dove sei stato, eh?»
«Russo, approfitto per darti una comunicazione.»
«Mi dica, coach.»
«Per domani la tua seduta di fisioterapia è fissata con Luca. Anna Martini non c’è.»
Gli si gelò il sangue nelle vene. Erano arrivati a questo?
«Che è successo?» chiese Francesco dando voce ai suoi pensieri.
«Nina ha chiamato un’ora fa: un’emergenza familiare. Ѐ dovuta correre in ospedale e per domani ha chiesto un permesso.»
James scattò in piedi. Laura, pensò, immaginando il panico di Nina. «Che ospedale?»
«Il Sant’Andrea.»
«Ti accompagno?» propose Francesco.
«No, grazie, vado da solo. Mi presti la macchina?»
Gli ospedali sono tutti uguali. Nell’odore, nell’aspetto, persino le persone che vi si muovono dentro sembrano le stesse: affaccendate e impassibili quelle che vi lavorano, in preda a molteplici emozioni le altre che capitano lì malvolentieri. A Nina pareva di poterle percepire una per una, quelle sensazioni; le bastava cogliere due parole di una conversazione, leggere la preoccupazione sul viso di qualcuno, oppure sentire il gusto aspro della paura in bocca.
Non aveva avuto il tempo di avvertire nessuno, pensò. Ma tanto, chi aveva oltre Gilda?
James.
Quel nome le risuonò nella testa come un suggerimento pronunciato da qualcun altro, qualcuno che sapesse usare le frequenze della sua mente alla stregua di una scomoda radio impicciona.
In ogni caso, non era riuscita ad avvisare neppure lui.
Cosa gli avrebbe potuto dire, poi? si chiese, stringendosi nelle braccia che aveva incrociato al petto, come se stesse lottando per non sgretolarsi in mille pezzi.
Certo, avevano passato insieme una serata indimenticabile e non era scappato come lei temeva quando aveva conosciuto sua figlia, ma non per questo doveva iniziare a pensare a James come a qualcuno da coinvolgere troppo nelle proprie faccende.
Inoltre lui sembrava avere già i suoi grattacapi con la ragazzetta che gli aveva annunciato entusiasta di essere incinta. Di lui? Ovvio. Di chi, sennò? Fortuna che con lei si era ricordato di usare delle precauzioni.
Sulla scia di quel pensiero si mise Laura sulle ginocchia, scoprendosi bisognosa di un abbraccio piccolo ma solido, avvolgente, sicuro come un’ancora, che le impedisse di vagare con la mente. La sua bambina ne aveva sempre uno a portata di mano per lei, erano la sola forza l’una per l’altra. Non avevano bisogno di nessuno, solo di Gilda.
Chiuse gli occhi e restò così, nel tentativo di ritrovare un briciolo di equilibrio.
«Nina…»
Oddio, adesso sento anche le voci. James mi è entrato talmente nella testa che mi pare di sentirlo ovunque, si disse.
«Nina.»
Il suono era netto, vicino. Anche Laura si era mossa fra le sue braccia e sembrava guardare in su. Gli occhi si aprirono di scatto, misero a fuoco e si appannarono, reagendo all’istante per la tensione mista a un inconfessabile senso di sollievo.
«James, che ci fai qui?»
«Il coach mi ha informato dell’emergenza e ti ho raggiunta. Non rispondi al cellulare. È un po’ che giro qui dentro.»
«Mi spiace…» mormorò Nina, tastando le tasche del suo piumino viola. «Dev’essersi scaricato.»
L’attenzione di James si spostò sulla bambina, insonnolita, accoccolata sulle gambe della mamma.
«Ciao, Laura» la salutò, prima di rivolgersi di nuovo a Nina. «Dio, per un attimo ho pensato che fosse accaduto qualcosa a lei. Si tratta di Gilda? Cos’è successo?»
«Un attacco di cuore. L’hanno presa in tempo. Stiamo aspettando risposte dalla terapia intensiva.»
«Caz… cavolo» si corresse incontrando lo sguardo perspicace della bimba. «L’hanno operata?»
«Non so niente.»
Nina richiuse gli occhi e James le si sedette accanto su uno dei sedili in plastica troppo piccoli per lui; strinse le palpebre, rilasciando con un sospiro parte della tensione accumulata, poi la avvicinò a sé, esaudendo una preghiera che Nina stessa non si azzardava a formulare neppure col pensiero.
Evidentemente lei aveva parlato con il cuore, e quello di James aveva risposto, valutò di nuovo la voce interiore di Nina, sintonizzata sulle sue frequenze più intime.
«Resta calma. Ci sono io, con te» disse lui posandole le labbra sui capelli in un gesto tenero e complice.
Il corpo di James, massiccio come una roccia, le dava la sensazione di un porto sicuro; aveva la capacità di snebbiarle la vista, e in qualche modo le dava speranza. Come aveva potuto pensare di allontanarlo per sempre?
«Ci sto provando, credimi.»
«Lo vedo, e sei bravissima, una vera combattente di prima linea.»
«Avrei dovuto accorgermene. Non faccio che pensarci.»
«Come? No, queste cose vanno al di là del nostro controllo, Nina.»
«Non sempre. A volte ci sono dei segnali. Gilda prende delle pillole per la pressione: disturbi dell’età, li chiama lei, ma qualche giorno fa, al supermer...