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La festa
Quando il primo colpo arrivò dritto contro l’insegna luminosa appena installata, pensò a un mortaretto. Anzi: si scoprì a voler pensare a un mortaretto, perché il rumore l’aveva riconosciuto benissimo. Secco e potente. Fu per questo che, mentre ancora soppesava l’ipotesi del petardo, le sue gambe si stavano già muovendo su per le scale, sospinte da un turbine di adrenalina. Aprì la porta della cameretta quando ormai i muri rimbombavano come un’enorme cassa di tamburo e il fragore dei vetri rotti alle finestre sembrava sconvolgere ogni ordine definito. Lei era lì, sul lettino, in pigiama, con le mani sulle orecchie e lo sguardo atterrito. Si precipitò ad abbracciarla e coprirle il corpo e la testa. Disse la prima cosa che gli venne in mente: «Amore mio, non ti preoccupare, è la festa del paese con tutti i fuochi d’artificio». La bambina, con il petto del padre che la avvolgeva interamente come una coperta, per fortuna non poteva vederlo in faccia. Ma riusciva a sentire il suo cuore martellare all’impazzata. «Solo i fuochi e i botti della festa» ripeté lui, mentre le pallottole ormai fischiavano sia al piano terra sia al primo piano e i suoi uomini, colti di sorpresa, urlavano. Lei non si mosse, il corpicino ancora tremante, ma lui avvertiva il suo respiro affannoso. «Solo i botti della festa» ripeté un’altra volta, cercando di dominare il battito cardiaco che lo stava sbugiardando. Fu felice di sentire la sua vocina tranquilla.
«Papà.»
Deglutì. «Dimmi, tesoro.»
«Ecco papà, speriamo che la festa finisca presto, se no con queste fucilate ti buttano giù la caserma.»
Pochi minuti dopo, nel silenzio della notte rotto solo dal rumore dei vetri che si sbriciolavano sotto le scarpe d’ordinanza, trovò un telefono ancora intero per comporre il numero del comando di compagnia, a Chioggia. «Sono Palumbo da Campagna Lupia.»
«Sì, buonasera, maresciallo.»
«Ci hanno appena attaccati.»
«Come, prego?» La voce del carabiniere in sala operativa sembrava venire da un altro pianeta.
«Ho detto che ci hanno attaccati.»
«Come attaccati, scusi?»
«A pallettoni. Ci hanno attaccati.»
La cornetta nella sinistra e la pistola nella destra, Alberto Palumbo intuì in quell’attimo che qualcuno, probabilmente una spia, stava lavorando nell’ombra non molto lontano da lui. E anche che il Veneto, quel posto nebbioso e freddo, non era in realtà tanto distante dalle palme e dai fichi d’india.
Guardò per l’ultima volta i resti dell’insegna al neon schiantata a terra dalla furia dei colpi. Non si leggeva nemmeno più la scritta blu CARABINIERI. Poi si girò e tornò a osservare la parete su cui aveva appeso i foglietti con le sue annotazioni investigative. Qualche buco, qualche foto era caduta, ma il quadro generale era rimasto: centinaia di appunti e fotografie con nomi, date, orari, luoghi e cifre. La talpa che lo stava seguendo doveva aver comunicato anche quello. E le pallottole erano arrivate a causa della svolta che l’indagine stava cominciando a far intravedere. Perché il fiume di denaro che stava seguendo iniziava a condurre a un nome.
La talpa, per lui un fantasma senza volto, doveva essere al corrente di cosa avveniva in quella stanza. L’attacco non era un caso: lui aveva saputo e loro avevano agito. Probabilmente il traditore se ne stava acquattato tra i pochissimi specialisti di quella guerra senza quartiere. Qualcuno che, nascosto dalla parte della legge, in realtà aiutava la piovra mafiosa.
«Piovra mafiosa» disse a mezza voce. Poi pensò a come doveva suonare l’espressione pronunciata con l’accento veneto. Allora giurò che non gliel’avrebbe mai data vinta, a costo di stanare la talpa con le sue stesse mani.
Autoctona, ma comunque mafia
Le prime informative sul fenomeno mafioso in Veneto erano circolate pochi mesi prima dell’attacco proprio dalla stazione dei carabinieri di Campagna Lupia, piccolo comune della Riviera del Brenta, il lembo di terraferma della provincia di Venezia che da una parte si affaccia sulla laguna con la sua campagna, dall’altra delimita l’inizio della provincia di Padova, la cui zona di confine si chiama Piovese. Non era la prima volta che lì un apparato investigativo dello Stato si trovava faccia a faccia con un fenomeno di controllo del territorio. Anzi, guarda caso, la parola omertà era già stata pronunciata in Veneto proprio nelle stesse zone in cui era andato a operare quel maresciallo di origini abruzzesi, dall’aria tranquilla e gli occhi sempre in movimento.
Il 14 gennaio 1974 viene protocollato nel comando provinciale dell’Arma dei carabinieri di Padova un rapporto del nucleo operativo: Informativa su atti criminosi. In quelle pagine si legge che «tra le province di Padova e Venezia», quindi nella zona geografica che comprende la Riviera del Brenta e il Piovese, agiscono banditi che intimidiscono i residenti. Al punto che perfino le vittime di furti e rapine si rifiutano di firmare le denunce contro i loro aggressori. Spiega l’informativa:
Notiziasi che da alcuni giorni un nucleo di teppisti di giovane età e palesemente armati, in ore serali e notturne commettono atti di violenza e intimidazione ai danni di alcuni inermi cittadini e pubblici esercizi nei comuni del Piovese. Essi tentano particolarmente, con il loro provocatorio atteggiamento, di diffondere panico in alcuni centri tra le province di Padova e Venezia, onde creare terreno fertile al comune disegno criminoso ove svolgere la loro attività delittuosa contro il patrimonio, cui sono normalmente dediti, senza tema di essere denunciati. Tali episodi, infatti, hanno già scosso sensibilmente i residenti locali, con conseguente rifiuto da parte di denuncianti, di sottoscrivere le dichiarazioni rese oralmente agli organi di polizia.
A parte il lessico d’altri tempi, fermato sulla carta da una Olivetti scalcagnata, ci si ritrova tutto: in una zona d’ombra a cavallo tra due province – dove cioè si intersecano più competenze tra differenti comandi provinciali e diverse procure, con l’effetto di inevitabili interferenze – sta sorgendo una banda formata da giovani, sì, ma «palesemente armati» e in grado di agire «senza tema» della legge e dello Stato.
Nella caserma al numero 88 di Prato della Valle, a Padova, qualcuno apprezza quella relazione. Il fiuto investigativo di carabinieri navigati fa immediatamente balzare agli occhi che lì, «a cavallo tra le province di Padova e Venezia», si sta creando qualcosa di più di una banda. Il rapporto viene quindi messo «all’evidenza», ma tenuto così – fermo – per dodici anni. Non viene cioè subito «digerito» con la formula «agli atti», usata nella pubblica amministrazione per classificare i documenti di poca o nulla importanza. Eppure, nonostante molte accortezze nella forma (i banditi vengono chiamati «teppisti» e si dice che sono giovani, quasi a sopirne la portata delinquenziale), la parte penalmente rilevante c’è tutta, perfino quella più allarmante, relativa all’intimidazione di vittime e testimoni dei reati. Particolari che solitamente provocano l’immediata reazione delle procure e degli organi di polizia.
Insomma, ci sarebbe di che far sobbalzare un colonnello sulla poltrona. Ma non succede nulla di simile. L’Arma e la Procura della repubblica di Padova non reagiscono manu militari per stroncare il fenomeno sul nascere. Non vengono, cioè, organizzate quelle «brillanti operazioni frutto dell’attività investigativa» che poi finiscono sui giornali. Eppure, in caso contrario, in prima pagina sarebbero comparsi quegli stessi nomi che nove anni dopo giungeranno alla ribalta delle cronache nazionali per il commercio internazionale di stupefacenti. Su tutti, il capo della mafia del Brenta: Felice Maniero.
La terra amara
La storia della mafia veneta e di Felice Maniero inizia con una prova di controllo del territorio. Il messaggio è chiaro: noi qui siamo i padroni, perché nessuno osa denunciare. Ma il rapporto dei carabinieri che la segnala non ispira un’immediata azione repressiva, sebbene non venga né insabbiato né dimenticato. Semplicemente, resta sospeso in una specie di limbo. E c’è una ragione per questa strana non-dimenticanza: quell’area non è nuova alla formazione di bande di delinquenti, e nemmeno alla comparsa di soggetti dal potenziale criminale altissimo. L’Arma lo sa e non l’ha dimenticato.
Eppure non si tratta di un’impervia zona montuosa o di un’isola inaccessibile ma, anzi, del più pianeggiante e per certi versi monotono tratto di crosta terrestre. Un pianoro interrotto solo da alcuni corsi d’acqua, perfettamente transitabile e antropizzato, al centro di alcune delle più importanti vie di comunicazione sin dall’epoca romana. Una terra povera, da sempre ai margini dei grandi affari – di cui non riceve nemmeno le briciole – e al tempo poco o nulla industrializzata; una landa fatta di campagne in cui sopravvive l’ultimo latifondo veneto, ma comunque popolata da gente che sa arrangiarsi e che proprio dal trovarsi sul confine fra Stati o province riesce a trarre qualcosa per campare.
Infatti è terra di contrabbando tra differenti zone doganali e tra due città storicamente ricchissime, poli di attrazione per mercanti e pellegrini sin dall’alto Medioevo: Venezia, il terminale del più grande traffico commerciale marittimo fino ad allora mai visto, e Padova, città universitaria che ospita le spoglie del «santo della salute», protettore amato e venerato in tutto il mondo cattolico. Dalla sfera daziaria di Mestre, avamposto veneziano in terraferma, si arriva a quella della Stanga di Padova, così chiamata proprio per la sbarra che veniva alzata una volta pagati i dazi d’ingresso sulle merci. Tra queste due realtà sorge quel territorio di mezzo, apprezzato solo in piccola parte dalle famiglie patrizie veneziane, che non hanno mai amato allontanarsi troppo dall’acqua e quindi hanno risalito in barca dalla laguna il fiume Brenta, costruendo sulle rive bellissime dimore estive; dimore ora riscoperte, ma che dal Settecento al Novecento sono andate in rovina. Fuori da quelle ville, però, regnano a lungo povertà e miseria, vita dura con due alternative: ammazzarsi di lavoro sui campi, per coltivare terre altrui con paga a giornata, oppure contrabbandare. Nient’altro. La Serenissima prima, l’Imperial regia finanza asburgica e la Regia guardia di finanza italiana poi, cercano con ogni mezzo di stroncare tali traffici, ma con risultati talmente scarsi e perdite così alte tra i propri uomini che gli austriaci rinunciano addirittura a costruire caserme in quella zona, imitati dai finanzieri sabaudi negli anni a seguire.
Perfino i tedeschi, durante la Seconda guerra mondiale, esitano: sono letteralmente scioccati dall’intensa attività partigiana e dall’impermeabilità delle bande locali ai rastrellamenti su quel territorio pianeggiante che, in teoria, non offre nascondigli. Ma i nazisti restano impressionati soprattutto dall’incredibile familiarità che i gruppi partigiani hanno con le armi, dalla loro capacità di intessere rapporti di spionaggio all’interno delle strutture militari nemiche e dalla recrudescenza delle azioni di guerra, anche dopo offensive particolarmente intense. Gruppi partigiani con comandanti famosi come Cane Secco, noti e temuti dai tedeschi per la loro brutalità, riescono a resistere e operare fino alla fine del conflitto.
Il primo capobanda
Insomma: grande capacità di organizzare traffici di qualsiasi genere, abitudine quasi innata a far fronte a polizie di ogni provenienza, armi nascoste dalla Seconda guerra mondiale e dimestichezza nell’usarle. Tutto ciò porta alla formazione – già nell’immediato dopoguerra – di piccoli gruppi di ladri, bracconieri e rapinatori. Bande che hanno bisogno di persone in grado di guidarle. Come Adriano Toninato che, partito da Camin, paese alle porte di Padova dove ha sempre fatto il ladro di polli o patito la fame, alla fine della guerra mette insieme un po’ di tagliaborse e contrabbandieri; il gruppo cresce al punto da arrivare a compiere una delle primissime rapine a bordo di un’auto. Assieme al suo braccio destro Giovanni Coccato – altro disoccupato che deve mantenere sette figli e che confessa ai giudici della corte d’Assise di Venezia di non essere capace di «resistere al loro pianto quando chiedono da mangiare e in casa non c’è nemmeno un tozzo di pane» – nel 1955 Toninato organizza il primo colpo milionario della zona: ferma e deruba un gruppo di impiegati di un colorificio, incaricati di portare in fabbrica il contante per le paghe appena ritirato dal Banco ambrosiano di Padova. Il bottino è di tredici milioni di lire. L’operazione impressiona i cronisti dell’epoca perché coinvolge ben due auto, l’utilitaria su cui viaggiavano gli impiegati dell’ufficio paghe e la rombante Alfa Romeo dei banditi, con questi ultimi che superano e bloccano l’altra vettura spianando le armi dalle portiere aperte. «Una rapina alla Al Capone» titolano i giornali.
Toninato colpisce anche alcuni «colleghi». Una notte si presenta a casa di un mezzadro, Mosè Maritan, dopo aver saputo che un suo pagliaio è stato scelto come deposito da alcuni contrabbandieri di sigarette americane. Toninato fa vestire i suoi uomini con vecchie divise militari e si porta via le sigarette.
Ma, dopo la rapina da tredici milioni, la Procura di Padova e il comando dei carabinieri scelgono la linea dura: chiamano un brigadiere esperto di caccia ai contrabbandieri e organizzano la trappola. L’uomo si chiama Dino Ferrari ed è specializzato nella cattura dei fiocinini, i trafficanti che vivacchiano di furti nelle valli romagnole dedite all’allevamento delle anguille e che da secoli gestiscono il contrabbando nelle lagune ferraresi. Tipi difficili da prendere, personaggi alla Passator Cortese che condividono tutto con le popolazioni locali: non solo le origini umili e la vita grama, ma anche buona parte del bottino. Dell’attività dei fiocinini vivono interi paesi; sia direttamente, grazie alla distribuzione di aiuti alle famiglie in difficoltà, sia indirettamente, dato che i proprietari delle valli d’allevamento reclutano i propri guardiani tra la popolazione locale. Comuni che si dividono tra guardie e ladri.
Ferrari sa che anche Toninato sfrutta questa mimetizzazione. «Io tratto bene la gente e la gente mi vuole bene» ripete spesso il boss agli uomini della sua banda, che nel 1955 – quando lo Stato decide di reagire – conta una sessantina di unità. Ma il brigadiere sa anche che non tutti sono contenti di continuare a vivere di rapine e schioppettate e che del gruppo fanno parte personaggi che non sono ormai più dei «morti di fame». Uomini che hanno messo da parte un gruzzolo, possiedono un pezzo di terra e vorrebbero smetterla di rischiare, perché non sono più nella condizione di non aver niente da perdere. Insomma, nel 1957 un semplice brigadiere ha già intuito che basta seguire i soldi per capire come si è organizzata la banda, quale sia la sua estensione, quali i punti di forza e di debolezza. Quindi aggancia le persone che per prime hanno lasciato notare fortune fiorite in modo del tutto ingiustificato: ex pezzenti che si ritrovano con uno o due campi coltivati, gente senza arte né parte che ora invece mette insieme il pranzo con la cena sopra una tavola apparecchiata, con moglie e figli.
Ferrari parte insomma dai beneficiari del riciclaggio, instaura un dialogo con loro per tendere la sua trappola. Toninato – ormai diventato un personaggio, tanto che un giornalista lo battezza il «Salvatore Giuliano della Val Padana» – ama circondarsi di donne e ballare, nonostante a quarantacinque anni (è della classe 1913) gli uomini all’epoca siano di solito più propensi a indossare il vestito scuro. Ma è molto accorto e si porta sempre dietro una decina dei suoi. Ci vuole un’occasione in cui sia solo. A fine gennaio del 1958 il brigadiere, durante i suoi giri tra i membri più «disponibili» della banda, viene a sapere di una balera in mezzo al nulla, a San Pietro di Cavarzere. Si tratta dell’estremo lembo della provincia di Venezia prima del Polesine, che nell’autunno dell’anno precedente, è stato allagato dalla furia del Po; una tragedia nazionale, con ottantaquattro morti e centottantamila senzatetto. È in quel territorio, buono solo per le barbabietole da zucchero, che Ferrari prepara l’azione a colpo sicuro.
Il 2 marzo 1958 la copertina della «Domenica del Corriere» riporta candidamente la notizia della cattura:
Arrestato il Giuliano della Val Padana. Il bandito Adriano Toninato, che a capo di un’accozzaglia di fuorilegge in questi ultimi anni aveva compiuto numerose rapine nella pianura veneta, è stato catturato con il suo luogotenente, certo Coccato, in una cascina di San Pietro di Cavarzere (Venezia). Un drappello di carabinieri, guidati dal brigadiere Dino Ferrari, ha attaccato la casa in cui i due si erano rifugiati. Il Coccato sparava contro i militi; questi rispondevano al fuoco. In pochi secondi i pericolosi delinquenti venivano ridotti all’impotenza.
In realtà, Toninato e Coccato non erano partiti da soli, ma Ferrari ha fatto in modo che parte della banda che accompagnava il capo nei suoi spostamenti restasse occupata nella divisione della «cresta» sugli aiuti inviati al Polesine allagato, in arrivo da tutta Italia. È bastato mandare un carico imprevisto e tre membri si sono dovuti fermare a suddividerlo. Toninato e Coccato vanno quindi alla balera da soli. Il capo è convinto che la gente gli voglia bene, perché lui l’ha trattata bene. Non ha fatto però i conti con la paura di veder sparire i gruzzoletti messi insieme fin lì con il riciclaggio. L’attaccamento alla fortuna accumulata è più forte di quello per le persone; l’avidità può più dell’amicizia.
Felix
Archiviata la parabola di Toninato, restano i tanti che hanno messo da parte qualcosa e i troppi che quel qualcosa non sanno gestirlo e lo perdono in pochi anni. Ma restano pure gli spacconi che dicono di aver fatto parte della banda del «Giuliano della Val Padana».
Tra questi c’è un certo Renato Maniero, di Campolongo Maggiore, paese in cui Toninato aveva comprato una casa. Renato è il fratello di un carabiniere, Gino; ha anche due sorelle, Lucia e Maria, e un altro fratello, Ottorino, che mesce vino in un’osteria di Bosco di Sacco, la frazione di Campolongo che delimita la fine della Riviera del Brenta e l’inizio del Piovese. Zone daziarie distinte da tempo immemore, dove l’osteria, un tugurio ombreggiato da una frasca, è sempre stata crocevia di traffici d’ogni sorta.
Ottorino si sposa con Lucia Carrain, una ragazza che ha già avuto una figlia, Nives, affidata a delle zie a Fiesso d’Artico. Una scelta strana, ma nemmeno tanto improbabile: gli affari non vanno più bene; la gente teme Ottorino, per il carattere iracondo, e il fratello Renato, cui affibbiano il nomignolo di Mena per la facilità nell’attaccare briga e alzare le mani. Ma in paese si parla anche d’altro. C’è chi dice che i Maniero siano spifferi, che sappiano cioè far arrivare alle orecchie dei carabinieri le notizie da questi desiderate, in cambio della tranquillità e di un occhio chiuso sui piccoli reati commessi. Troppi zappamenti – ovvero i posti in cui sono state nascoste armi e refurtiva – vengono trovati dai carabinieri lungo il Brenta. E sebbene Renato Maniero, come detto, si faccia vanto di essere stato nella banda di Toninato, nessuno in paese scommetterebbe una cicca su di lui; molti poi ricordano che Ottorino era senza arte né parte prima di comprare, chissà come, un’osteria. In effetti, quando esce di galera, Toninato non ha rapporti con i Maniero né con il nuovo giovane boss, quel Felix temuto da tutti, ma che lui disprezza apertamente. Insomma, tante chiacchiere sulla famiglia Maniero e qualche dubbio sul primogenito della coppia Ottorino-Lucia, Felice, nato cinque mesi dopo il matrimonio dei genitori, nel 1954. Chiacchiere di paese, roba di cui non tenere conto.
Felice, per gli amici Feli o Felix come lui vuole esser...