Italiani di domani (VINTAGE)
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Italiani di domani (VINTAGE)

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Italiani di domani (VINTAGE)

Informazioni su questo libro

L'Italia deve pensare in avanti. Non è un lusso, è una necessità. Con questo libro Beppe Severgnini ci spinge a "riprogrammare noi stessi e il nostro Paese (brutto verbo, bel proposito)". E offre agli italiani di domani - questione di atteggiamento, non solo di anagrafe - otto suggerimenti: semplici, onesti, concreti. Sono le otto T del tempo che viene, otto chiavi per aprire le porte del futuro. 1. Talento - Siate brutali 2. Tenacia - Siate pazienti 3. Tempismo - Siate pronti 4. Tolleranza - Siate elastici 5. Totem - Siate leali 6. Tenerezza - Siate morbidi 7. Terra - Siate aperti 8. Testa - Siate ottimisti Dietro le otto porte, non c'è necessariamente il successo. Ma di sicuro c'è una vita - e un'Italia - migliore.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
Print ISBN
9788817067799
eBook ISBN
9788858680841
Categoria
Sociologia

1

Talento

Siate brutali



Non tutti possiamo tutto
Virgilio, Bucoliche

1.1 Cercate di capirvi

Amavo e praticavo almeno dieci sport, da ragazzo. Non mi piaceva solo giocare a calcio: mediano destro, ruolo di molta fatica e scarsa fantasia. Mi appassionavano lo sci, il tennis, il ping-pong, la corsa, il salto in alto, la pallavolo, la pallacanestro, il motocross, il nuoto e la pesca subacquea. Li ho praticati tutti – almeno una volta – a livello agonistico, con risultati inversamente proporzionali all’entusiasmo, che era grande.
Mi piaceva anche disegnare, ma in classe erano tutti più bravi di me: in seconda media, ho rischiato un esame di riparazione per indisciplina cromatica. Avrei voluto cantare, ma ero stonato: in qualunque coro – dal catechismo in poi – venivo invitato a farmi da parte. Sognavo di suonare uno strumento, ma ogni anno venivo promosso al primo corso di chitarra; mi sono ritirato quando l’insegnante mi ha chiesto le corde del Mi cantino (che rompevo regolarmente) per tagliare il taleggio.
Però sapevo scrivere. Mi piaceva farlo, e mi accorgevo d’essere più convincente con una penna in mano che con una palla o uno strumento davanti. Alle medie, scrivevo fumetti e aspettavo con gioia il giorno del compito d’italiano, tra compagni di classe increduli. Tenevo il «quaderno di caccia» negli scout e il «diario di bordo» nei primi viaggi con gli amici. Al liceo, contribuivo a preparare i volantini, lavorando di Olivetti e ciclostile. Durante il servizio militare scrivevo lettere d’amore alle fidanzate degli altri, su richiesta degli interessati. Ho corteggiato, in quel modo, ragazze in diverse regioni d’Italia. Le risposte non lasciavano dubbi: la sintassi, almeno quella, era seducente.
Tutti sappiamo fare qualcosa, nessuno sa fare tutto. L’importante è capire cosa potremmo fare meglio e, anche per questo, faremmo volentieri.
Pensate al talento sociale. La capacità di lavorare in un gruppo, e di portarvi armonia, è fondamentale in ogni organizzazione. Nel suo libro Intelligenza sociale, Daniel Goleman scrive: «L’architettura sociale del cervello intreccia la via alta e la via bassa. [...] Concentrandosi su una visione dei rapporti umani puramente cognitiva, si trascurano doti non cognitive essenziali quali l’empatia primaria e la sincronia, e si ignorano qualità come la sollecitudine».1 È un’attitudine che andrebbe segnalata in qualsiasi curriculum, indicando le relative esperienze (gruppi sportivi, volontariato, oratorio, scoutismo). Ma pochi lo fanno.
Tutti possediamo uno o più talenti: bisogna capire come valorizzarli. Per valorizzarli, tuttavia, occorre riconoscerli. E, per riconoscerli, occorre evitare le interferenze della passione. Talvolta amiamo attività per cui non siamo portati. Non è grave. Basta saperlo. Magari tenerle come occupazioni per il tempo libero; e puntare altrove quando si tratta di scegliere un mestiere.
Quand’è possibile coniugare passione e professione, però, bisogna provare. Il primo passaggio, come dicevo, è obbligato. Bisogna riconoscere il proprio talento, oppure trovare l’onestà d’ammetterlo: quel talento non ce l’ho. Operazione brutale, ma necessaria. Per un motivo pratico. Anzi, due.
Primo motivo: là fuori c’è gente che svolge volentieri un’attività per cui è predisposta. Se nel vostro bagaglio manca la combinazione di questi due elementi – passione e attitudine – non potrete competere; l’entusiasmo è importante, ma non basta. Vi aspetta una vita lavorativa complicata, e piena di frustrazioni.
Secondo motivo: utilizzare il proprio talento è una gioia; ed è un piacere vederlo riconosciuto. Due forme di gratificazione che vanno ben oltre la carriera. Svegliarsi al mattino e affrontare un lavoro che si detesta è un ergastolo in libertà: non condannatevi da soli.

1.2 Non date retta ai nostalgici

All’inizio del 2012 Thomas Friedman scrive sul «New York Times» un pezzo intitolato Average is Over, la media è finita. Esordisce con un aneddoto, tratto da un saggio di Adam Davidson sull’«Atlantic»: «Una filanda moderna ha bisogno solo di due addetti: un uomo e un cane. L’uomo deve dar da mangiare al cane e il cane è lì per impedire all’uomo di avvicinarsi ai macchinari».2
Aneddoto paradossale, ma utile a Friedman per arrivare alla sua tesi. In passato un lavoratore con competenze medie, svolgendo un lavoro medio, poteva ottenere un salario medio. Oggi la media non c’è più. Average is over. «Essere medi oggi non porta i benefici d’una volta. Non può accadere, visto che i datori di lavoro hanno abbondanza di mano d’opera straniera a buon mercato, di robotica a buon mercato, di software a buon mercato, di automazione a buon mercato, perfino di genio a buon mercato.»
Il sistema economico internazionale non è più omogeneo, come un tempo: l’Occidente si trova ad affrontare sfide nuove. Ognuno di noi deve capire quale potrebbe essere il suo contributo originale, il valore aggiunto che lo distingue e gli permette di trovare spazio sul mercato del lavoro.
Il modo di renderci, se non indispensabili, almeno utili. Se lo scopriremo, con ogni probabilità avremo un lavoro, una retribuzione e un futuro soddisfacente. Se rifiutiamo di riconoscere le forze in campo, prepariamoci ad amare sorprese.
Non credete ai nostalgici, agli autarchici e agli ideologi della stagnazione: il mondo, indietro, non torna. Possiamo indirizzarlo, però, nella giusta direzione. Occorrono memoria, fantasia e realismo. Molti dei settori in espansione – dalla genetica all’enogastronomia, dalla robotica a internet mobile – rispondono a bisogni primari dell’uomo: vivere, nutrirsi, risparmiare sforzi, informarsi. La difesa a priori di un’industria – dei relativi prodotti e posti di lavoro – è anacronistica. «Se i cavalli avessero potuto votare» conclude sarcastico Tom Friedman, «non ci sarebbero mai state le automobili».
Certo, l’alternativa esiste: cercare un impiego che non richieda né talento né passione. Non sarà facile trovarlo: questi mestieri diventano ogni giorno più scarsi, e pagano poco. Nell’industria manifatturiera americana, dal 2001 al 2011, sono stati persi 5,4 milioni di posti di lavoro.3 In Italia è andata un po’ meglio: forse perché l’industria italiana, con tutte le sue carenze, fornisce ancora un extra (pensate alla specializzazione dei distretti industriali, o al successo delle nuove reti di imprese).
Cose risapute? Ma di qui bisogna partire, invece d’invocare il buon tempo andato (che spesso non era così buono) e sognare un’impossibile autosufficienza nazionale. Cercate di comprendere cosa potreste fare bene. Average is over, per voi come per tutti: l’impegno, da solo, non basta più. Dovete individuare il vostro talento e capire come usarlo. Perché qualcun altro, state certi, capirà come usare il suo.

1.3 Ricordate Charles Marlow

Molti datori di lavoro si lamentano: i ragazzi di oggi sono supponenti, pensano che un titolo di studio abbia consegnato loro le chiavi del futuro. Non sono d’accordo. Dovessi indicare un errore di chi cerca un’occupazione, direi invece: eccessiva umiltà.
Un atteggiamento comprensibile, figlio del momento economico e della rassegnazione. Si riassume in una frase: «Posso fare di tutto!». Disponibilità lodevole: ma si dà per scontata. Oggi i datori di lavoro intelligenti (ci sono anche gli altri) chiedono – anzi, pretendono – idee, proposte, iniziative. Vogliono la prospettiva dei vent’anni, diversa da quella dei cinquant’anni. Non necessariamente migliore: ma può portare a cose nuove.
Esiste un dividendo della gioventù, come esiste un tornaconto della maturità. Il problema italiano è che non siamo riusciti a combinare i due elementi, come altre società, nella storia, sono state capaci di fare (dai greci di duemila anni fa ai tedeschi di oggi). I nuovi temono il potere dei vecchi; e i vecchi diffidano dell’intraprendenza dei nuovi. La somma delle due paure conduce alla paralisi.
I migliori capi che ho avuto, in trent’anni di professione, avevano questa caratteristica: riuscivano a scoprire le qualità di ognuno, spesso prima dei diretti interessati. Li ho soprannominati «Dickens». Grandi speranze sui sottoposti, e spesso venivano esauditi. I capi meno bravi erano, invece, concentrati su se stessi: le qualità che sapevano valorizzare erano le proprie (talvolta neppure quelle). Li ho chiamati «Thackeray»: amavano allestire la loro Fiera delle vanità. L’unico che riusciva a combinare le due caratteristiche – molto Dickens e un tocco di Thackeray – era Indro Montanelli, vanitoso altruista di genio.
Visto che parliamo di letteratura inglese dell’Ottocento: se dovessi suggerire una lettura a un giovane neo-assunto, sceglierei Gioventù, racconto autobiografico di Joseph Conrad, scritto nel 1898. È la storia di una disgrazia fortunata: un ossimoro, apparentemente. Un ufficiale ventenne al primo imbarco, Charles Marlow, si ritrova alle prese con un incendio a bordo. Il comandante, dopo varie peripezie, ordina di abbandonare la nave, e gli affida la più piccola delle scialuppe.
Per il giovane Marlow è il primo comando. L’eccitazione e il coraggio sono più forti della paura, e la gioia si trasforma in estasi quando, un mattino, dopo giornate ai remi e notti d’ansia, si ritrova davanti, per la prima volta, la costa dell’Asia.
And this is how I see the East. I have seen its secret places and have looked into its very soul; but now I see it always from a small boat, a high outline of mountains, blue and afar in the morning; like faint mist at noon; a jagged wall of purple at sunset. I have the feel of the oar in my hand, the vision of a scorching blue sea in my eyes. And I see a bay, a wide bay, smooth as glass and polished like ice, shimmering in the dark. A red light burns far off upon the gloom of the land, and the night is soft and warm.

Ed è così che vidi l’Oriente. Ho visitato i suoi luoghi segreti e scrutato nel profondo della sua anima; ma ora lo vedo sempre da una piccola barca: un alto profilo di montagne, azzurre e remote al mattino; una nebbiolina a mezzogiorno; una frastagliata muraglia di porpora al tramonto. Ho la sensazione del remo nella mano, la visione di un mare blu bruciante negli occhi. E vedo una baia, una grande baia, liscia come il vetro e lucida come il ghiaccio, scintillare nel buio. Una luce rossa brucia in lontananza contro l’oscurità della terra, e la notte è morbida e calda.4
Un giorno – almeno uno – della vostra vita professionale dovrete sentirvi così. Se non accade chiedetevi perché. Forse il vostro talento non sta sul mare, forse eravate montanari e non l’avete capito.

1.4 Non sottovalutate il frullatore

Chi si è laureato in Italia nel 2000, nel 2005 guadagnava in media 1500 euro al mese. Chi si è laureato nel 2006, oggi porta a casa 1250 euro; lavorasse in Germania, salirebbe a 2285 euro. I giovani italiani che hanno trovato un impiego in Italia, a un anno dalla laurea, sono scesi del 7 per cento (tra il 2009 e il 2012). Il calo delle iscrizioni universitarie – meno 15 per cento tra il 2004 e il 2011 – mostra un cambiamento demografico (meno diciannovenni), ma rivela anche la scarsa fiducia delle famiglie nello studio come mezzo di avanzamento sociale.5
Posso dirlo? Sbagliano. Se un ragazzo ha voglia di studiare, ed è portato per gli studi, non deve farsi spaventare. Per il bene suo e nostro. L’università è un investimento su se stessi. E, insieme alla scuola pubblica, resta l’ultimo grande frullatore sociale, capace di mescolare redditi, censo e geografia. Se si ferma, siamo spacciati.
È vero: i giovani connazionali hanno motivo di protestare. «Uno spreco di risorse che li avvilisce e intacca gravemente l’efficienza del sistema produttivo» ha riassunto Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea.6 Studiare, tuttavia, paga ancora, anche in senso letterale. Meno di ieri, però paga. «Non bisogna guardare solo le retribuzioni iniziali» spiega Andrea Cammelli, presidente di AlmaLaurea. «Se consideriamo l’intera vita lavorativa, un diplomato guadagna 100 e un laureato 155.»7
Voi direte: d’accordo, studiare. Ma dove, quanto, cosa? Semplifico (e mi scuso).

DOVE In una buona università lontano da casa (a 19 anni fa bene!). Vivere e studiare in una T Town (Trieste, Trento, Torino) o in una P City (Pavia, Pisa, Parma, Piacenza, Padova, Perugia, Palermo) cambia la prospettiva. Una laurea al Politecnico di Milano ha lo stesso valore legale di una laurea all’università di Piripilli: ma un valore intellettuale, morale, sociale, pratico ed economico molto diverso. Le «università tascabili» fondate per accontentare sindaci, governatori, partiti, movimenti e docenti hanno il destino segnato.

QUANTO Con impegno, e ragionevole urgenza. I «fuori corso» sono malinconiche figure del Ventesimo secolo. Deve studiare chi sa farlo e ha voglia di farlo. Le università sono laboratori per il cervello, non parcheggi per natiche stanche. L’istituto del «fuori corso» è un’anomalia, e va corretta: non solo aumentando le tasse universitarie. Andare fuori corso un anno è comprensibile; di più no, salvo casi particolari (studenti-lavoratori, studi all’estero, emergenze familiari o di salute). È con questi «casi particolari» che la pigra retorica italiana s’è fatta scudo, quando il sottosegretario Michel Martone, mesi fa, se n’è uscito con l’infelice battuta sugli «sfigati» (sta’ al governo, giovanotto, non al Bar Centrale!).8

COSA Quello che volete. Rifiutate la domanda, cara ai genitori, «Quale facoltà offre più opportunità di lavoro?». Tutte ne offrono, se avrete attitudine, grinta ed entusiasmo. Nessuna ne offre, se vi rassegnate alla mediocrità. Scegliere per esclusione – magari giurisprudenza, rifugio degli indecisi – è una follia. Nei concorsi e negli studi professionali troverete ragazze e ragazzi che quella facoltà l’hanno scelta per passione e predisposizione; e vi faranno a fette. Un destino da salami, interamente meritato.

1.5 Non sopravvalutate il dottore

Detto ciò, non sopravvalutate la laurea. È un primo traguardo, ma la corsa è appena iniziata. In Italia, come sapete, il titolo più abusato e frainteso è «dottore». Se pensate che vi garantisca il valore aggiunto di cui parlavamo, ripensateci.
Un tem...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Rizzoli Vintage
  3. Frontespizio
  4. Copyright
  5. Dedica
  6. Epigrafe
  7. Apertura - Tutte le «T» del tempo che viene
  8. 1 - Talento
  9. 2 - Tenacia
  10. 3 - Tempismo
  11. 4 - Tolleranza
  12. 5 - Totem
  13. 6 - Tenerezza
  14. 7 - Terra
  15. 8 - Testa
  16. Chiusura - Doverosa spiegazione
  17. Post scriptum - Dodici cose che ho imparato da voi
  18. Note