Le donne corrono da sole
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Le donne corrono da sole

Storie di emancipazione interrotta

  1. 216 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Le donne corrono da sole

Storie di emancipazione interrotta

Informazioni su questo libro

Com'è possibile che domande cruciali come "Dove sono finiti i miei calzini" o "Perché il frigo è vuoto" siano rivolte sempre alle donne? Non era stata raggiunta la parità? Eppure le donne continuano a fare quello che facevano cinquant'anni fa. Magari con il cellulare in mano, telefonando dal balcone per non far capire all'interlocutore che sono ancora a casa, dove il bambino piange perché si rifiuta di bere il latte. Ma rimane il fatto che è la donna a dover fare quadrare, da sola, lavoro, casa e famiglia. Capita anche nelle famiglie più evolute, quelle dove gli uomini, accompagnando i figli a scuola, credono di aver assolto a tutti i loro doveri, lasciando poi le altre incombenze alle mogli. Con il risultato che, per essere brave sul lavoro, si finisce per essere sempre in ritardo sul resto: le bollette da pagare, le riunioni di condominio, le relazioni con gli amici o con i familiari. In questo viaggio tra norme inadeguate e pregiudizi – degli uomini ma non solo –, esperienze personali e storie di altre donne, Giulia Bongiorno ricorda a tutte l'urgenza di agire per passare dalla libertà virtuale a quella reale: battendosi quotidianamente per la distribuzione dei doveri familiari nonché per l'approvazione di leggi sacrosante per una parità concreta (dalla previsione dei meccanismi di quote di genere in ogni ambito alla trasmissibilità del cognome materno sino all'introduzione del compenso per il lavoro domestico), con l'ambizione di ottenere anche più degli uomini. Perché soltanto con la disparità a nostro favore è possibile uscire dalla discriminazione. Sono storie di donne che si trovano ancora a combattere contro ingiustizie e abitudini che le relegano in vecchi ruoli e a dover "correre da sole", scegliendo tra i diversi aspetti di una vita piena, maternità o carriera, indipendenza o affetti familiari.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
Print ISBN
9788817081917
eBook ISBN
9788858681411

1

La «carrieringa»

Essere donna è terribilmente difficile, perché consiste soprattutto nell’avere a che fare con gli uomini.
JOSEPH CONRAD, Il caso

Chi si accontenta non gode

Non è vero che siamo emancipate. O meglio: lo stavamo diventando, ma poi il processo si è fermato.
Le cause di questa paralisi sono molteplici, ma di certo la principale è il diffuso convincimento che oggi esista una piena parità tra uomini e donne. Credendo (o meglio: fingendo di credere) che sia già stata raggiunta, si fa poco o nulla per proseguire un percorso che, nonostante i molti passi avanti, è in realtà ancora ben lontano dall’essere concluso.
La responsabilità di questa frenata è in buona parte degli uomini, che per la maggioranza accettano solo a parole una parità negata in concreto. Ma anche noi abbiamo le nostre colpe: dopo avere raggiunto i primi, fondamentali obiettivi (tra gli altri: diritto di voto, abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui, divorzio, riforma del diritto di famiglia, parità di trattamento in materia di lavoro, interruzione volontaria della gravidanza) abbiamo smesso di combattere, probabilmente in nome della «quiete familiare»: forse temiamo che, avendo raggiunto la parità sulla carta, non si possa chiedere di più, non si possa rischiare di spezzare la corda.
Così ci siamo accontentate di un’uguaglianza formale e non capiamo, o fingiamo di non capire, che quella effettiva rischiamo di non raggiungerla mai se non abbiamo il coraggio di lottare per uscire dal Grande Equivoco: pensare che avere un diritto e vedersi riconosciuta la possibilità di esercitarlo siano la stessa cosa. Un po’ come succede in Tribunale, dove – come ripeto ai miei clienti – essere innocenti non significa necessariamente essere riconosciuti innocenti.
Nei procedimenti giudiziari c’è infatti una verità processuale, quella che risulta dall’applicazione delle norme processuali, e c’è una verità sostanziale, che corrisponde alla realtà: se dal fascicolo emerge che l’imputato ha ucciso, per la legge è un assassino. Anche se non ha ucciso nessuno. La frase «sei libera di fare quello che vuoi» esprime la verità formale della condizione della donna, ma nella sostanza ai divieti si sono sostituite invisibili muraglie: non solo il famoso glass ceiling – il soffitto di vetro cui alludono gli anglosassoni per indicare l’impossibilità delle donne di fare carriera oltre un certo punto –, ma veri e propri muri che le intrappolano; le donne si sono trasformate in «carrieringhe»: esseri mitologici, mezzi manager e mezzi casalinghe, che aspirerebbero a essere felicemente anfibi e invece rimpiangono l’acqua quando sono sulla terra. E la terra quando sono in acqua.

2

La grande sfida: corri, ma non sudare

Io stessa non sono mai stata in grado di scoprire cosa è esattamente il femminismo; so solo che la gente mi chiama femminista ogni volta che esprimo sentimenti che mi differenziano da uno zerbino.
REBECCA WEST

Avvocati piedi molli

Quando ero piccola, non mi sono mai immaginata ballerina, pompiere o astronauta. Non mi sono mai chiesta che lavoro avrei fatto da grande. La domanda sarebbe suonata quasi retorica. La risposta, scontata.
La mia nascita era stata annunciata a pagina 3 di «La Voce», rassegna di vita giudiziaria. Un trafiletto intitolato Culle recitava:
Giulia Bongiorno, del nostro caro collega Girolamo e della signora Mariafiamma, ha completato la felicità anche del nonno prof. Filippo Bongiorno da tutti benvoluto e stimato per bontà di carattere e non comune valentia professionale.
***
Con un nonno e il papà avvocato, ho cominciato a frequentare lo studio legale civile di famiglia – benché senza titolo di studio – da neonata, portata in braccio da mia madre che scendeva all’ammezzato per salutare mio padre. Ricordo nitidamente i primi passi sulla guida rossa del corridoio che attraversava lo studio e che rappresentava il sentiero che porta all’avvocatura: terminava infatti davanti alla porta della stanza di mio nonno. Una stanza ampia, rettangolare con una scrivania enorme e mobili scurissimi, quasi neri. Una stanza zeppa di fascicoli e carte, ma anche di oggetti strani come ferri di cavallo, pupi napoletani, madonnine di ceramica, fermacarte orrendi e coloratissimi e piccole corna rosse: regali di qualche cliente, tracce di vecchi processi… non l’ho mai saputo, ma di certo erano i segni visibili di quanto complessa, profonda e a volte incredibile fosse la storia contenuta nei fascicoli e nelle carte di cui era stipata quella stanza.
Quando gli avvocati che lavoravano con la porta aperta sul corridoio vedevano passare sulla guida rossa me e mia sorella Roberta, di un anno più grande, sbucavano dalle loro stanze. Contese tra giovani avvocati e un po’ infastidite – io di sicuro, Roberta non so – dall’essere sbaciucchiate, venivamo intrattenute con giochi improvvisati. Il mio preferito era riempire fogli di carta, e possibilmente anche il dorso delle mani degli avvocati, con il timbro dello studio: stampavo ovunque la scritta AVVOCATO BONGIORNO, come se volessi imprimere un marchio, il mio marchio. Del resto, mio nonno Filippo già all’epoca mi presentava orgoglioso ai clienti come «l’avvocato Bongiorno». In definitiva, un futuro da avvocato era tra le poche certezze che mi si sono radicate dentro sin dai primi anni di vita.
La maggior parte degli avvocati sogna di avere un erede per il proprio studio. Per tradizione l’erede è maschio, perché per tradizione il diritto è una disciplina prettamente maschile. Che vi si avventurassero delle donne, è sempre stato considerato un’audacia assoluta: Giuseppe Parini dedicò addirittura un’ode a Maria Amoretti, che nel 1777 aveva portato a termine l’impresa di laurearsi in «utroque iure», ovvero in diritto civile e diritto canonico, presso l’Università di Pavia. Un’ode in cui, a significare la portata dell’impresa, le dava dei «piedi molli»: Tu gisti colà vergin preclara ove di molle pie’ l’orma è più rara.

Passione e abissi

So quali sacrifici comporta la professione di avvocato. Ho visto mio padre e mio nonno saltare spessissimo pranzo e cena, e restare in studio fino a notte fonda. O meglio: spessissimo non vedevo mio padre e mio nonno, perché erano in studio. E non ho un ricordo di mio padre a casa senza carte tra le mani, girava sempre con borse e cartelle piene di fascicoli. Ero molto piccola quando ho imparato che la domenica è il giorno preferito dagli avvocati perché si studia meglio: non c’è udienza e non si ricevono clienti. E ricordo interi pomeriggi di agosto in cui mia madre aiutava mio padre a correggere il libro che stava scrivendo per il concorso universitario: lei gli rileggeva tutto a voce alta, inclusi i punti, le virgole e le parentesi.
Se fare l’avvocato è difficile, fare il penalista lo è, se possibile, ancora di più. Scegliere il diritto penale significa scegliere di immergersi nell’abisso. Parlo di abisso perché l’avvocatura ha qualcosa di profondo, immenso, ma anche misterioso. Profonde sono le emozioni, e non mi riferisco soltanto all’enorme gioia che si prova di fronte a un’assoluzione o all’amarezza, altrettanto enorme, di fronte a una condanna. La profondità è nel vincolo con l’assistito, con il giudice, con il processo. È ridicolo pensare, come molti fanno, che l’avvocato sappia se il cliente è colpevole o innocente. Può succedere, ma è un’eventualità rara; di norma, l’avvocato non conosce la verità sostanziale e l’imputato si protesta innocente per principio: se colto con in pugno un coltello immerso nel cuore della vittima, dirà all’avvocato che la vittima ha sbattuto contro il coltello che lui aveva in mano per caso. L’imputato non confessa quasi mai, perché teme di demotivare il difensore. Da parte sua, il difensore può farsi un’idea leggendo le carte, prima di accettare l’incarico, ma non è detto che la verità sostanziale coincida con quella processuale. E se dalla lettura delle carte traspare una verità processuale che non si sente di difendere con tutto se stesso, meglio rinunciare.
Una volta accettato il caso, infatti, non si accetta soltanto un nuovo cliente. Si accetta qualcosa di immenso: lui, la sua famiglia, le sue emozioni e la sua intera esistenza. Perché un processo penale cambia la vita. Proprio perché so che nell’accettare un incarico accetto anche la sofferenza, le ansie, le amarezze dei percorsi processuali, i nuovi incarichi sono qualcosa che desidero, come è ovvio, ma al tempo stesso patisco… Persino quelli che si concludono con un’assoluzione sono percorsi di dolore.
Anche con i giudici esiste un vincolo. Il vincolo, unilaterale, derivante dalla continua attenzione del difensore a ogni sguardo, a ogni respiro, a ogni fremito del giudicante: nel tentativo di decifrare i suoi pensieri. Uno dei misteri più impenetrabili è ciò che avviene dove i giudici si blindano quando devono emettere una sentenza: la camera di consiglio. Il sogno di molti avvocati è di essere invisibili spettatori in quelle stanze dove si decide la vita dell’imputato, per sapere cosa si dicono i giudici e possibilmente con il potere di intervenire, nel caso in cui la discussione prendesse pieghe sgradite o anche soltanto per correggere un errore. Sì, perché perfino i giudici commettono errori. Siamo naturalmente portati a ritenerli gravissimi e inammissibili se in cattiva fede, ma se i giudici sbagliano in buona fede li perdoniamo. Eppure, dopo mille battaglie – e certamente ne combatterò altre mille – in favore dei giudici onesti troppe volte screditati, mi rendo conto che l’onestà non basta. Il potere dei giudici è enorme, e questo potere dev’essere controbilanciato dall’umiltà e dal massimo impegno nello studio delle carte.
Non sempre, ma a volte ascoltare con attenzione gli avvocati è essenziale per i giudici. Eppure, questo ascolto è troppo spesso ritenuto un optional. Dispiace dire che una minoranza di noi avvocati che studia poco sembra legittimare una fastidiosa prassi di non ascolto camuffato: alcuni giudici riescono a fissare il difensore che discute pensando ad altro. Non so se non sospettano – o, pur sospettandolo, restano indifferenti – che è chiarissimo quando sono distratti o quando, fingendo di prendere appunti sull’arringa, scrivono tutt’altro. L’avvocato avrebbe voglia di interrompersi e chiedere al giudice di essere ascoltato, ma sa che, se lo facesse, si sentirebbe rispondere seccamente: «La stiamo ascoltando con attenzione». Salvo poi trovare nelle motivazioni della sentenza grossolani errori che dimostrano come il giudice non stesse ascoltando affatto. Il sogno di ogni avvocato è avere una volta nella vita la possibilità di interrogare un giudice che ha condannato sulla base di un fascicolo in cui ogni atto grida l’innocenza dell’imputato. La condanna che brucia di più è questa, quando si ha la sensazione che il giudice non abbia esaminato con cura le carte.
È proprio con le carte il vincolo più forte, quello fisico: anche questo, un vincolo sofferto. A volte dico che, dopo più di vent’anni, mi basta toccare un fascicolo per sapere se sarà un buon processo o un brutto processo, ma in realtà toccare, sfogliare, persino leggere un processo non è che l’inizio. Del processo bisogna impadronirsi. E per riuscirci non basta leggere le carte e sapere cosa c’è scritto, spesso bisogna capire anche cosa non c’è scritto. Accanto al processo che si legge, c’è il filo seguito da chi ha svolto le indagini: e va interpretato, per scoprire eventuali errori e per capire se i testimoni che sfileranno in aula sono onesti e se sapranno ricordare – visto che i processi si celebrano a distanza di tre o quattro anni dai fatti. Tutto questo richiede tempo, memoria e tanta fatica. È come un’apnea. Si vive senza respirare tra una scadenza e l’altra. Si risale a prendere ossigeno il giorno in cui si fa un’arringa o si deposita un atto, prima di tornare in studio e trovare altre scadenze impellenti. Si è inseguiti perennemente da tutto e in questa corsa contro il tempo il primo e l’ultimo pensiero sono rivolti ai detenuti. Un avvocato che ha anche solo un detenuto non è mai solo. Anche se fa altro pensa al cliente, che normalmente è già in carcere prima ancora che si sia celebrato il processo.
In Italia, il carcere è spesso una misura cautelare. Si applica cioè prima della sentenza definitiva: vai dentro prima di poterti difendere. A volte vai dentro persino prima di sapere che c’è un processo nei tuoi confronti. E l’avvocato sa che, dentro, ogni giorno è lungo un anno. Ecco perché non si può far aspettare un detenuto.
Immersi in questo abisso, ci si dimentica del resto, ovvero della propria vita: viene naturale, i processi diventano la priorità. L’avvocatura è così: non c’è una sola via per mitigare lo sforzo, né una strada per evitare privazioni e sacrifici. Probabilmente anche altre professioni impongono questa immersione, ma parlo dell’avvocatura perché è l’unico abisso che conosco.
Il punto è che per inabissarsi, nell’avvocatura come in qualsiasi altra cosa, si deve avere la libertà di poterlo fare, e questa libertà per le donne è solo virtuale. Ecco il cuore del problema: la libertà virtuale.
La generazione di mia madre, come quella di mia nonna, era composta da donne che prevalentemente lavoravano a casa. La mia è stata una delle prime generazioni dalle quali ci si attendeva che avessero un reddito da lavoro. Ma nessuno osava anche solo alludere alla possibilità di conciliare carriera e famiglia. Percepivo vagamente in mio padre e mio nonno un certo spaesamento di fronte a questa prospettiva. Mi avrebbero voluta avvocato come loro, ma rispetto a loro c’era una differenza fondamentale: ero una giovane donna. Più volte, mentre studiavo per preparare gli esami all’università, entrava mio nonno e mi esortava a svagarmi: «Tu esageri gioiuzza mia, basta». E mio padre ogni tanto mi diceva: «Ma non pensi che sarebbe meglio fare il magistrato, anziché l’avvocato? Almeno così avresti i pomeriggi liberi e per una donna è importante».
Ho risolto (ma forse sarebbe meglio dire: ho complicato) la questione a modo mio. Sentivo che quella fatica tremenda faceva parte del mio Dna, ma sentivo di volere anche qualcos’altro. E ho capito cos’era quando una volta mia madre mi ha chiesto perché continuassi a guardare film su detenuti massacrati in carcere. Li guardavo perché quella mi sembrava l’ingiustizia più intollerabile: uomini privati della libertà che in più subivano maltrattamenti e vessazioni, uomini che non vivevano da uomini ma sopravvivevano incattivendosi dentro celle minuscole e sovraffollate. Erano torture, e contro quelle torture volevo battermi, qualunque fosse il crimine che quegli uomini avevano commesso. Volevo diventare il loro avvocato. Niente guide rosse, per me.

C’è modo e modo di lavorare

Frequentavo un giovane professore napoletano, brillante, colto, affascinante; persino bello. Quando affrontavamo l’argomento del rapporto uomo-donna mi diceva: «Giulia, io sono uno di quelli che le donne le adorano, le venerano… amarle sarebbe troppo poco». I verbi adorare e venerare mi insospettivano, mi sembravano denotare una concezione della donna che non aveva niente a che fare con la realtà. Ma lui era talmente attento e galante, così straordinariamente capace di premure e gentilezze, che quasi mi ero convinta che per lui fosse davvero così: quelle espressioni un po’ altisonanti dovevano derivargli dai tanti romanzi che leggeva. Del resto era davvero ammaliante – anche per via del lieve accento napoletano – quando parlava di letteratura, musica, teatro.
Mostrava molto interesse nei miei confronti e perciò, il più delle volte, a costo di rompere l’incanto dei suoi discorsi e delle sue citazioni letterarie, cercavo di riportarlo sulla terra: volevo capire cosa realmente pensava del mio lavoro di avvocato. Lui sorrideva: «Sono felice che ti piaccia tanto». Mi era facilissimo fare un controesame a un testimone ostile, ma tirargli fuori risposte più precise su questo tema era quasi impossibile. Eludeva, scherzava, cambiava argomento con una battuta. E io, caparbia, insistevo. Provavo con i casi di scuola: «È fondamentale un’intesa chiara sul modo di impostare il rapporto: se tu fai l’avvocato e tua moglie pure, come pensi si possa organizzare la vita quotidiana? A parte gli aiuti esterni, che comunque incidono molto sul ménage di una coppia giovane, chi, tra il marito e la moglie professionisti, seguirà i figli, la casa e tutte le faccende connesse?». Lui mi rassicurava: «Tutto può avvenire in maniera naturale: non esistono regole e modelli prestabiliti».
Poi però iniziò a seminare, inconsapevolmente, indizi. Quando non potevo uscire con lui per impegni di lavoro mi diceva: «Ma è così importante? Più importante di noi?». «Certo che no,» rispondevo io, «ma lo devo fare.» Allora lui si appostava sotto lo studio e iniziava la lunga attesa.
Quando si scrive un atto, non si ha assolutamente idea del tempo che ci vorrà per predisporlo. Dipende dalle difficoltà in cui ci si imbatte via via, dagli spunti argomentativi che affiorano nell’iter dello studio e da tante altre variabili. Avere una persona che ti aspetta significa avere davanti un limite temporale che crea disagio, quando non addirittura nervosismo. Così gli chiedevo, per piacere, di non appostarsi in auto sotto lo studio. Ma lui ribatteva che era un piacere anche soltanto...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Il più e il meno
  5. 1. La «carrieringa»
  6. 2. La grande sfida: corri, ma non sudare
  7. 3. Le leggi degli uomini e quelle della fisica
  8. 4. Corri, ma non mi superare
  9. 5. A metà del guado
  10. 6. Le donne che rinviano (Se faccio un figlio non trovo più la scrivania)
  11. 7. Il diritto è maschio (Ma questo lo sapevo)
  12. 8. Anche la Chiesa è maschio (E questo invece non me lo aspettavo)
  13. 9. Corri come una femmina
  14. 10. Sara corre da sola
  15. 11. Quando il movente è donna
  16. 12. Le nostre colpe
  17. 13. O padre o figlio
  18. Appendice
  19. Note
  20. Indice