Omofollia
eBook - ePub

Omofollia

Ho 18 anni e vi racconto come l'omofobia e il web hanno cambiato la mia vita

  1. 188 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Omofollia

Ho 18 anni e vi racconto come l'omofobia e il web hanno cambiato la mia vita

Informazioni su questo libro

Gita di terza elementare, tutti in pullman, destinazione la necropoli etrusca di Cerveteri. Due bambine di un'altra classe sedute sul sedile davanti si girano verso di me. Una allunga la mano e mi afferra una ciocca lunga e bionda di capelli. Non tira, li accarezza stupita e dice: «Come ti chiami?». «Mattia.» «Mh-mh. E perché hai i capelli da femmina?» Non lo sapevo che quelli fossero «capelli da femmina». Per me erano i capelli come li portava quel figo di mio padre e gli avevo chiesto di lasciarmeli crescere proprio come i suoi, ma evidentemente su di me l'effetto era, come dire, diverso. Da quel momento, anno dopo anno, Mattia inizia a vedere le cose da un altro punto di vista, a riconoscere e accettare gradualmente la sua identità sessuale, a confrontarsi con l'ottusità della gente, quella che lui definisce «omofollia», e a tentare talvolta di aprire almeno una piccola breccia nel muro dell'omofobia. Il tutto sullo sfondo della sua improvvisa e inaspettata popolarità sul web – con i pro e i contro che comporta – e la voglia di crescere ogni giorno di più. Una voce fresca e sincera per raccontare la storia di un adolescente normale.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2016
Print ISBN
9788817081450
eBook ISBN
9788858681701

L.A. Confidential

Una volta, in un film di fantascienza di cui non ricordo nient’altro, ho sentito una teoria interessante: ognuno di noi avrebbe da qualche parte nel mondo una specie di doppio, di clone negativo, tipo il perfetto nemico genetico, uno che se vi sbattono assieme in una stanza senza porte né finestre è sicuro che dopo un quarto d’ora vi siete disintegrati a vicenda. Se uno ci pensa, con tutti i miliardi di abitanti del pianeta Terra le possibilità di incontrare quest’essere maligno sono effettivamente remote. Magari la tua nemesi vive in uno sperduto villaggio bielorusso, o coltiva canna da zucchero in qualche isoletta dell’Oceano Indiano: è praticamente certo che le vostre strade non si incroceranno mai. E in effetti è meglio così. Meglio ignorare l’esistenza di un tipo simile. Perché il mondo sarebbe troppo piccolo per tutti e due.
Ed eccoci giunti al punto. Io il mio doppio diabolico lo conosco. Abita a cinque metri in linea d’aria da me. Si chiama Chiara Cesari ed è mia sorella. Perversamente mora quanto io delicatamente biondo, paurosamente sicura di sé e precisa nelle scelte (a conferma del suo nome trasparente), tragicamente impreparata sulle canzoni dell’universo Disney.
È piombata nella mia vita con la grazia di un terremoto. A cinque anni (io ne avevo otto) aveva già imposto a tutta la famiglia le regole del suo Regno del Terrore. A dodici anni era davvero letale. Un’adolescente scatenata. Non che non possieda anche delle doti straordinarie: sa essere tenera come una leonessa verso l’ora di pranzo, quando t’insulta raggiunge una precisione che nemmeno lo Zingarelli. Con la gente ha la diplomazia di una valigetta piena di esplosivo. Per Chiara la vita è una pista da bowling, lei è la palla che rotola e butta giù tutto quello che incontra sul suo cammino.
«Mattia… puzzi, vatti a fare una doccia.»
«Sono appena tornato dalla Maratona di Roma…»
«Mattia, sei tu che spandi quest’odore repellente?»
«Scusami Chiara, ma come vedi sono seduto sulla tazza. Non è che potresti metterti il rimmel in un altro momento?»
«Mattia, le tue ghiandole hanno qualcosa che non va, sai di naftalina.»
«Chiara, io e le mie ghiandole ne abbiamo le palle piene delle tue osservazioni.»
Certe volte mi sembra che a Chiara la sua vita non basti, deve per forza entrare a distruggere i dettagli della mia. In mia sorella il carattere è più forte di qualsiasi realtà. Come quando ho cercato di condividere con lei il mio Momento Decisivo di Autocoscienza.
«Chiara… devo dirti una cosa. Ecco, insomma… credo proprio di essere gay.»
«Non è possibile.»
«Non reagire così, non c’è niente di male…»
«Non dico questo, dico solo che TU non puoi essere gay. I gay profumano.»
«Ma che cazzo…»
«E poi non sei abbastanza figo.»
Con mia sorella non si ragiona. Quando il dialogo fallisce – e non può che fallire – l’unica alternativa sensata è prenderla e sbatterla come un tappeto, a quel punto almeno riesci a zittirla per qualche minuto. Ma tanto ritorna subito alla carica. È un po’ come Superman, sembra fatta d’acciaio, potresti usare un suo capello come cavo da traino per portare a spasso un camion. Solo che Superman è buono, difende la giustizia, ripara i torti, punisce i colpevoli. Mia sorella più che altro punisce me. Ma come Superman ha un punto debole, la sua kriptonite: Chiara è allergica ai kiwi. Le basta vederne uno per riempirsi di bolle. A volte, nei miei sogni più crudeli, collego per estensione questa sua allergia alla Nuova Zelanda, ai neozelandesi, e me la immagino aggredita da un’orda di feroci Maori che, dopo averla usata come palla in una partita di rugby, la mettono al centro di un antico rito tradizionale: la prendono, la immergono nel fiume sacro, la vestono coi sacri indumenti, la portano in processione sulla montagna sacra, pronunciano le sacre preghiere, poi la buttano dentro al sacro vulcano.
Eppure, è stato per merito/colpa di mia sorella se ho cominciato a interrogarmi seriamente su me stesso, sul mio carattere, sulla mia sessualità. Avevo quindici anni, una manciata di brufoli sparsi sulla faccia e la classica depressione di chi sta crescendo in una periferia soffocante, dentro una famiglia che fatica a darti spazio. È un male che parte dal cemento, dai palazzoni color arancione pallido, con quei balconcini bianchi e le pianticelle nei vasi. Le piante che ripetono a ogni piano la stessa convinzione: guarda com’è bello qui, guarda che capolavoro di balcone fiorito, ammira il verde splendente, il rosa-shocking, il giallo canarino – qui tutto è allegria e felicità: tocchi di eleganza (ma se guardi bene, se guardi davvero, le piante stanno tutte schiacciate le une contro le altre), la Natura che sembra trionfare (soltanto nei due metriquadri del balcone, però). E io mi deprimevo. Perché non c’era un filo di onestà. In quei balconi io volevo vedere le vecchie che rattoppavano calzini su poltrone scassate in fintapelle. Volevo un energumeno in canotta impataccata che grigliava salsicce affumicando il resto del quartiere. E poi… dove erano finiti i panni stesi ad asciugare? Secondo me non c’è vera periferia senza i panni che penzolano su un filo teso da qui alla grondaia del vicino! Mutande che arrostiscono al sole dai parapetti di una finestrella del bagno. Canottiere all’ultimo stadio della disidratazione. Magliettine macchiate di colori diversi per uno sciagurato passaggio in lavatrice. Calze spaiate, mollette di plastica di tutti i colori, quelle di legno, con il metallo arrugginito, e un ragazzino che le sgraffigna dal cestello e una nonna che automaticamente molla una sberla. Questa sì che è periferia romana, cazzo! The real thing! Alle undici e mezzo del mattino l’aria è già gonfia di odori millenari: fettuccine al pomodoro, pasta e fagioli che borbotta nelle pile, soffritti che sfrigolano all’alba, poi qualcuno li inonda di passata rustica e giù a bollire fino all’ora di pranzo. Invece niente. Tutto laccato: lo spettacolo un po’ miserabile delle piante ferme sui balconi (chissà quante saranno di plastica, ora che ci penso), la pasta che cuoce in quattro-sette minuti di padella perché basta tirarla fuori da una busta in freezer, e nessuno che strilla mai da un palazzo all’altro. La versione primitiva di Facebook, a quanto mi raccontano persone come i miei nonni, era questa: gente affacciata a una finestra che spargeva nell’aria il gossip giornaliero, quando vivere in periferia era esattamente come vivere dentro un paese. Quando potevi assistere a dialoghi tipo:
«Sai chi ho visto in merceria? Lidia».
«Lidia chi? Lidia di Antonietta?»
«No, Lidia, quella che faceva l’amore col figlio del benzinaio.»
Poi siamo diventati tutti social e adesso non strilla più nessuno. Il che va bene per l’inquinamento acustico, ma alla fine le persone si sono allontanate, e lo vedi. Lo capisci soprattutto quando incontri qualcuno che abita nel tuo stesso palazzo ed è un perfetto sconosciuto (chissà quanti scambiano Chiara per una serial killer, davanti all’ascensore). Lo capisci soprattutto quando l’unico odore che si spande per le scale all’ora di pranzo è quello del detersivo. Ed era proprio così che cominciavo a sentirmi in quel periodo dei miei quindici anni a Tor Tre Teste: stordito, come se la mia vita non fosse altro che questo starmene immerso in apnea dentro un bidone di amuchina. Una vita al gusto di disinfettante. L’impressione terribile di muovermi più o meno sempre tra i corridoi di un grande, infinito ospedale. Un ospedale fatto come un labirinto: incroci sempre uguali, angoli che si somigliavano tutti, e dentro al labirinto quel minotauro di mia sorella. Eravamo ai ferri corti. Lottavamo per gli spazi, per i privilegi, per gli orari, per il dentifricio, per la televisione. Lottavamo per qualsiasi cosa. Più che altro lottavamo per logorarci. Da una parte era fantastico, una vera sfida alla forza di volontà. Ecco qui un individuo dal carattere terrificante, legato a te da una banale somiglianza dei cromosomi, il cui unico scopo nella vita è ridurre il tuo sistema nervoso alla consistenza di una gelatina alla frutta. In quel periodo Chiara mi ricordava grossomodo Ursula, la strega dei mari della Sirenetta. Mi piaceva rappresentarmela così: un viscido mostro tentacolare.
A giugno, mentre si avvicinava la fine dell’anno scolastico, la situazione si era fatta praticamente insostenibile: ormai il rapporto era quello tra un pezzo di ferro (me) e una saldatrice (lei). Durante il mese avevo cercato di ridurre al minimo le occasioni di scontro, e la cosa aveva prodotto inauditi episodi di gentilezza da entrambe le parti. Un fatto così sconvolgente che, invece di rimettermi in sesto, mi logorava di più. Da qualche parte ancora conservavo una segreta speranza: mia madre mi spiegava che in genere le guerre tra fratelli finiscono con l’adolescenza, o cominciano da adulti. Meglio combattere adesso, mi dicevo, contro una iena di appena dodici anni, che ritrovarmela dall’altra parte del campo di battaglia nelle vesti di una trentenne esperta e piena di risorse, magari pure stragnocca. L’idea mi terrorizzava: Chiara Cesari elevata al cubo, a vent’anni da questo momento, infilata in un completino sadomaso, con la maschera e il frustino di cuoio: «Bentornato a casa, Mattiuccio, è l’ora della Dominazione Quotidiana». No, no, non scherziamo. Meglio, molto meglio la bambina pestifera. Ancora una volta una grande lezione dal vecchio zio Walt: Genoveffa e Anastasia possono essere crudeli quanto ti pare, ma è la Matrigna che ti manda ricoverato al reparto psichiatrico.
Come sono riuscito a resistere? Semplice, avevo uno scopo. Un traguardo, se vogliamo chiamare le cose col loro nome. E il mio traguardo era l’11 luglio. Lo so, è una data piuttosto figa, mio padre la festeggiava ogni anno in ricordo dei Mondiali di calcio dell’82 vinti in Spagna dalla Nazionale. Ma il mio 11 luglio sarebbe stato diverso. Sarebbe stato il giorno della partenza con la selezione EF (Education First) per uno stage di venti giorni negli Stati Uniti. E quando dico Stati Uniti non intendo i Grandi Laghi o le metropoli dell’East Coast. Dico la California! Già, Mattia Cesari vi saluta. Bye bye, pseudomamma in trance davanti a una puntata di Barbara D’Urso. Bye bye, lunghi artigli della sorellina sanguinaria. Bye bye, desolazione di Tor Tre Teste. Me ne vado in California. Me ne vado a Long Beach!
Più la data si avvicinava più il mio cervello diventava una specie di lavatrice che frullava senza sosta vecchi successi di Beach Boys e The Mamas & the Papas. Canticchiavo in continuazione:
All the leaves are brown and the sky is gray.
I’ve been for a walk on a winter’s day.
I’d be safe and warm if I was in L.A.;
California dreamin’ on such a winter’s day.
«I’d be safe and warm if I was in L.A.» E nel giro di qualche giorno io sarei stato proprio là, finalmente caldo e al sicuro, sotto il sole battente del lungomare, tra una lezione di surf e un corn-dog, davanti a un oceano azzurro e sconfinato come la mia voglia di libertà. Eccomi cavalcare l’onda nel sole pomeridiano (l’ora in cui il surf diventa una faccenda cosmica piena di romanticismo): il leash alla caviglia, una mutina strizzata della Billabong e il ciuffo biondo imperlato di salsedine. Eccomi schizzare da una piattaforma all’altra degli harbor col mio fidato skateboard, mentre saluto Iron Man che fa colazione con un frullato di kiwi e un gruppetto di Transformers demolisce allegramente qualche grattacielo. Faccio uno slide su una ringhiera, poi mi fermo un po’ a chiacchierare con Chris Pine che porta a spasso il cane, un grosso terranova che mi si affeziona subito. Chris mi invita a una festa a Los Angeles, io me la tiro appena appena: sai, Chris, mi piacerebbe, ma la tribù dei surfisti mi reclama, stanotte giochiamo a football sulla spiaggia… Perché invece non vieni tu? Porta Zachary Quinto e Zoe Saldana, porta chi vuoi, gli ripeto, accarezzando il terranova. Il tempo di un aperitivo offshore e siamo tutti a cena su una terrazza del porto, mangio solo tartine e nigiri di fatty-tuna, più un paio di doverosi California-roll. Intanto colleziono a bordo tavola gli ombrellini dei miei cocktail alla frutta tropicale. Una luna hollywoodiana increspa il profilo della baia, sul mare sembra galleggiare una distesa di monetine da dieci cents. Ho fatto il salto, sono dall’altra parte del mondo, se spingo lo sguardo laggiù posso quasi vedere le Hawaii, e un po’ più a sud qualche scoglio polinesiano: isole di fuoco, isole di vaniglia… non male per un quindicenne di Tor Tre Teste.
Nella realtà, arriviamo a Long Beach stipati dentro un tris di pullman a noleggio. Siamo una sessantina di italiani, la maggior parte da Roma e Milano, ma c’è anche una buona rappresentanza delle altre regioni. Abiteremo nei quartieri dell’università locale. Il complesso è formato da una serie di buildings tutti uguali, contraddistinti da una lettera dell’alfabeto. Io e il mio gruppo siamo nell’edificio K, gli altri vanno a occupare l’edificio J. L’unica nota californiana in questa faccenda sono proprio le lettere dei buildings, che ricordano i nomi degli agenti della serie Man in Black. Praticamente vivremo quasi tutto il tempo qui, salvo qualche uscita in visita guidata. Col mio trolley sottomano, il caldo che mi strozza e la prospettiva per niente esaltante della fila per il controllo dei documenti dello stage e lo smistamento del gruppo nelle singole camere, vengo travolto da un pensiero maledetto: “Se andavo alla Borghesiana sarebbe stato lo stesso”.
Gli edifici dedicati a noi studenti in visita sono rigorosamente separati da quelli per i residenti. È un po’ come stare dentro una bolla. Una bolla di palazzoni in stile Tor Tre Teste (anche i balconi si somigliano paurosamente) a un tiro di fionda dalla swingin’ California. Che cavolo! Mi sa che comincio a capire il significato del termine «globalizzazione». Questi qui hanno globalizzato l’idea del reticolo di palazzoni in cemento. Quasi quasi mi manca Ladispoli.
Dopo qualche giorno ci portano a Disneyland. Mi sparo una scorpacciata di tutto, come un tossico in astinenza: Pirati dei Caraibi, Big Thunder Railroad, Space Mountain. Un girozzo psichedelico su Main Street e una ricarica di dolciumi che portano i miei grassi sanguigni alle stelle, dopodiché mi fiondo sulla roba spaziale, Buzz Lightyear Astro Blasters e Star Tours. Faccio pure un giro su Dumbo e sulla barchetta di Paperino.
Alla fine della giornata sono distrutto, non c’è più forma di edificio, nuvola nel cielo, oggetto caduto distrattamente in terra che non mi ricordi la sagoma di Mickey Mouse. Ho fatto il pieno. Sono completamente, irreversibilmente disneyzzato. Appena qualcuno mi fa una domanda rispondo: «Sì, perché?» con un’espressione da idiota, come Olaf. Il che è davvero un fatto straordinario, perché è l’estate del 2012 e Frozen uscirà soltanto l’anno dopo! Devo essere precipitato in un vortice spaziotemporale disneyforme, la mia mente si allunga come la tana del Bianconiglio. Quella sera non mi fido a restare da solo perché potrei gettarmi giù dal balcone credendomi Trilli, e allora mi aggrego al gruppo dei ragazzi del mio piano su al building K, nella camera di un tizio. Si chiacchiera per un po’ della giornata, si chiacchiera decisamente troppo della giornata, io pensavo di disintossicarmi, invece sembriamo un gruppo di alcolisti anonimi che stanno lì a curarsi, ma intanto non fanno che ricordarsi a vicenda quanto fosse bello sbevazzare. Mi alzo e me ne vado. Magari prendo davvero una boccata d’aria in balcone, ma senza spiccare il volo. Non faccio in tempo a poggiare i gomiti sul cordolo di cemento che subito mi arrivano le voci dalla stanza che ho appena lasciato:
«… ehi, vi dico che è un finocchio!».
«Ma no, secondo me è solo un modo di fare, la voce…»
«No, no, il Mattia è frocio perso, te lo dico io.»
«Con quei capelli, poi!»
Ma perché devono sempre insistere tutti sui miei capelli?!
«Comunque ragazzi, scusate» strillacchio «… da qui si sente tutto benissimo.»
Ecco, ce l’ho fatta, ho creato il gelo. Secondo, involontario episodio di Frozen-preveggenza. Non c’è niente da fare, dev’essere proprio destino. L’amore indissolubile che mi legherà al cartone animato, dico, non la solita stronzaggine di questi commentatori-della-vita-altrui. Come dovrei regolarmi? Che faccio, adesso che me li ritrovo anche qui? “Lascia perdere, lascia stare” mi dico. Let it go. E con questo siamo al terzo, decisivo episodio, la prova schiacciante.
Due giorni più tardi Long Beach potrebbe sembrare in tutto e per tutto una succursale della mia grigia realtà romana, se non fosse per le vetrine e le sale di Victoria’s Secret e per le abbuffate quotidiane da Taco Bell, dove mi ammazzo di burritos e chalupas a ogni ora del giorno. Ho preso a mangiare messicano per adeguarmi alla gente del posto. Qui si parla praticamente solo spagnolo, per incontrare il classico americano biondo e mascelluto dei telefilm devi andartelo a cercare con lo scanner, per il resto trovi solo messicani. È come se avessero preso il set di un film e lo avessero svuotato, per poi riempirlo con le comparse di un film diverso. Dal punto di vista linguistico per me è un vantaggio: il mio castigliano non è ancora scintillante, ma sta decisamente sopra la media. E così fra salse super-hot-blaster-spicy e croccanti doritos ingurgitati a cuor leggero – farò i conti con la bilancia al mio ritorno – mi mescolo alla fauna di Long Beach p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Disconnesso
  6. Capelli da femmina
  7. Tutta colpa di Billy Elliot
  8. Piccole omofobie di quartiere
  9. L.A. Confidential
  10. Niente, non è niente
  11. Evoluzione digitale di un settenano
  12. Io, me e Belén
  13. Mika sarai…
  14. Quella strana felicità
  15. Mai stato più lontano dallo stare bene
  16. Cinquanta sfumature di nonna
  17. 2025
  18. Ringraziamenti