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Con un colpo secco chiude la porta della camera 405. Una volta dentro, inserisce la scheda magnetica nella fessura sul muro. La luce invade la stanza, è un bianco sgradevole, che acceca.
Poi, con un gesto frettoloso, spegne tutti gli interruttori, tranne quello dell’abat-jour sul comodino a destra. Una macchia di chiarore nel buio totale della stanza, che rende l’atmosfera più intima e calda. Si siede sul bordo del letto e allunga un braccio per regolare l’intensità della luce.
«Così va meglio.» Cerca di non sembrare troppo affannato mentre lo dice, ma so che un desiderio bruciante lo sta consumando. E per me è lo stesso.
Annuisco. Sono in piedi, poco oltre la soglia.
Mi guarda. I suoi occhi brillano di una luce morbida, sono così liquidi che sembra di poterci nuotare dentro. Si alza dal letto e si avvicina. Mi afferra per i capelli, costringendomi a rovesciare la testa all’indietro, e comincia a baciarmi sulla bocca con foga.
Lo assecondo, lasciando cadere la borsa sul parquet. Sento la mia avidità, la mia voglia, la mia ansia, sento il suo calore, la sua saliva, la generosità con cui mi sta offrendo il suo corpo. Ci siamo. Inizia un’altra notte allucinogena, una notte di sesso e follia che si aggiunge a un elenco tanto lungo da farmi perdere il conto: troppi incontri così diversi, eppure così inutilmente simili.
Lui è il mio nuovo amante e lo conosco da poche ore. So solo che si chiama Giulio, viene da Milano ed è un attore. O meglio, vorrebbe diventarlo. Ci siamo conosciuti – se così si può dire – questa sera al Goa, una discoteca dove il venerdì ormai sono di casa. Mi ha puntata appena ho messo piede in pista, e non mi ha lasciata un minuto. Abbiamo ballato fino allo sfinimento, io mi divertivo a stuzzicarlo e lui mi si strusciava addosso, in un gioco molto esplicito ad alto tasso erotico. Sui volti delle sue amiche si rincorrevano sguardi d’invidia e disprezzo, che invece di farmi desistere mi regalavano involontariamente una sottile eccitazione.
«Perché non ce ne andiamo via da questa confusione?» mi ha chiesto Giulio a un certo punto della serata. E così eccomi qui, nella stanza 405 dell’hotel Duca d’Alba. Tutto a spese della casa di produzione del film, un poliziesco in cui lui recita un piccolo ruolo.
Le mie mani ora si perdono disperate nel groviglio dei suoi capelli biondi. Giulio mi spinge contro l’armadio a parete e mi solleva una gamba, piegandola: il mio ginocchio preme sul suo fianco. Le nostre lingue si divorano, ardono, lottano a un ritmo sempre più forsennato. Poi lui scivola più giù, affonda la testa tra le mie gambe, sotto la minigonna, e mi stringe le cosce contro le sue guance ruvide. Una scia umida s’insinua sotto i miei slip: sono carne bagnata, e la sua lingua è maledettamente impaziente. Troppo.
Gli afferro la testa con forza e lo allontano, costringendolo a rialzarsi. Lui non si scoraggia e con un gesto deciso mi strappa via la gonna, lasciandomi in perizoma, autoreggenti e stivali tacco dodici. Poi inizia a sbottonarmi la camicetta, s’insinua sotto il reggiseno a cercare i capezzoli con le dita frenetiche. Allora allungo una mano sulla patta dei suoi jeans e lo stringo fino a sentirlo crescere ancora di più. Lo fisso in volto, ma non lo sto guardando davvero, ho gli occhi gonfi di alcol e stanchezza. Con ancora più forza lo spingo sul letto e lo obbligo a sedersi davanti a me. Stasera comando io.
«Spogliati» gli ordino.
«Ok.» Sorride, slacciandosi con calma le scarpe. «Mi piacciono le dominatrici.»
Inizia a svestirsi. Prima le scarpe e i calzini, poi si toglie la camicia dalla testa e resta nudo dalla vita in su. È magro, ma ha il torace intessuto di muscoli spessi come una corazza. Mi fissa con quegli occhi che sembrano sul punto di sciogliersi e lentamente si sfila la cintura, appoggiandola sul letto.
Gli levo i pantaloni, tirandoli per le gambe, e li lascio cadere sul tappeto, accanto alla mia gonna. Poi afferro la cintura, la impugno salda nel palmo della mano e la faccio schioccare in aria come un frustino. La fibbia, picchiando per terra nella chiazza di luce ovattata, diffonde un lampo e scuote il silenzio con un suono metallico. Giulio ha un ghigno divertito sulle labbra, sembra davvero a suo agio, e anch’io lo sono. È pronto a entrare nel vivo del gioco.
M’incastro tra le sue gambe, lasciandomi stringere dalle sue ginocchia, e lentamente inizio a sfregargli il bordo della cintura sulla pelle nuda. Dal collo scendo lungo la linea del torace, disegnando una spirale intorno ai capezzoli, e arrivo fino all’ombelico. Poi risalgo, ancora più lentamente. Lo solletico, la sua pelle si ritrae, il cuoio ruvido lo tormenta. È tutto un brivido, lo leggo nel suo sguardo. Gli passo la cintura dietro la nuca e gliela allaccio, come se fosse un collare. Fa un certo effetto sulla sua pelle chiara, sembra un serpente nero con la testa di ferro lucido. Mi eccita da morire vederlo così.
«Cosa mi vuoi fare?» sussurra lui, mentre mi rialzo. C’è un fuoco che brucia, adesso, nei suoi occhi verde acqua. Mi slaccia il reggiseno, si avvicina a uno dei miei capezzoli, che sono proprio all’altezza della sua bocca, e ci passa la lingua intorno.
«Shhh, adesso lo vedrai» sussurro, e lo spingo contro la testiera del letto.
Rimanendo in piedi e senza smettere di fissarlo, mi sfilo un’autoreggente. Gli sollevo il polso sinistro, ci passo intorno la calza e la stringo in un nodo scorsoio. Poi faccio lo stesso con il polso destro e annodo le estremità dei lacci all’asta di ferro della testiera. Stringo fortissimo, fino a fargli male. Il nylon sessanta denari si tende, ma non si strappa. Gli tolgo con violenza anche i boxer, con la stessa forza che userebbe un uomo.
Lo lascio così, nudo e immobilizzato, e mi avvicino al tavolino nell’angolo. Con calma mi verso mezzo bicchiere di scotch, come se lui non esistesse. Sento l’eccitazione che cresce, lo sento dal battito cardiaco che aumenta, dalle tempie che pulsano. Il mio petto sembra più gonfio, scotta. Forse sto oltrepassando il confine, ma non m’importa, non c’è spazio per pensare, stanotte. C’è spazio solo per il piacere.
«E io?» Giulio mi guarda come un animale in gabbia. «Non ne offri un po’ anche a me?» chiede in tono supplichevole.
«Vediamo prima se ti comporti bene» rispondo.
Lui scuote la testa, triste, ma so che questo gioco gli piace.
Afferro la sedia della scrivania e la trascino fino al lato del letto. Poso a terra il bicchiere, poi mi siedo e lo guardo, allungando una gamba sul suo torace. Il mio piede ora cammina sulla sua pelle, massaggia il suo sesso duro, s’insinua tra i peli del petto con le dita e sale su, fino a sfiorare il collo e accarezzare la bocca.
Giulio flette la testa e con la lingua insegue l’arco del mio piede, là dove la pelle è più sottile. Il mio piede s’incurva, cerca i suoi baci, li vuole, s’intrufola tra le sue labbra e si lascia succhiare… dentro e fuori, infinite volte. Minuscole scariche elettriche cominciano a salirmi su per la gamba, raggiungono il mio sesso, ma si fermano lì, in superficie. Non vanno oltre. Nel profondo non riesco a sentire niente.
«Bravo» sussurro, convincente. Io non provo niente ma lui è bravo, devo riconoscerlo.
Prendo il bicchiere da terra e gli do da bere.
«Grazie» dice lui, passandosi la lingua sulle labbra.
«Te lo meriti» rispondo con voce vellutata.
Poi mi alzo di scatto, con un calcio lascio cadere la sedia all’indietro e salgo sul letto, a cavalcioni su di lui. La mia lingua che sa di scotch si risveglia e comincia a scivolare sulla sua pelle, dal collo all’ombelico, su e giù. Mi piace leccarlo. Sa di buono, di Armani Code, o forse più di Gucci Guilty. Gli tempesto il ventre di baci, prima teneri, poi di colpo cattivi, come se fossi stata morsa all’improvviso da una tarantola.
Lui mi soffia addosso il suo respiro eccitato. Tutto inizia a tendersi al di sotto del suo girovita. Afferro il suo sesso e me lo strofino sul pizzo del perizoma, prima piano, poi sempre più forte. Cerco il mio piacere attraverso il suo. Mi sfilo gli slip e ora lascio che sia la mia carne tiepida ad accoglierlo per qualche istante.
Poi mi scosto e lo inumidisco con un po’ di saliva, chiudendolo tra le labbra. Gli sfugge un gemito strozzato. Allora mi allontano e gli metto una mano sulla bocca, mentre con l’altra separo i lembi del mio nido e me lo infilo dentro, lasciandolo premere sulle pareti elastiche. Il sangue batte, il cuore no. Mi muovo su e giù, ma non sento nulla. Afferro la cintura che gli ho legato al collo e stringo un po’ di più, quasi a soffocarlo. Un lampo di stupore gli attraversa gli occhi, una vena si gonfia sulla tempia, però gli piace, lo vedo che è eccitato. Ma io continuo a non sentire nulla. Nulla, a parte una leggera nausea per la quantità di alcol che mi sono scolata stasera.
Allungo una mano e spengo anche l’abat-jour. Il buio mi fa sentire più protetta. Da fuori, un sottilissimo fascio bianco filtra attraverso gli scuri e disegna una linea sulla parete sopra il letto. La fisso, per dare una direzione al mio sguardo. Giulio è dentro di me, ma è come se fossi sola. Sto fingendo un orgasmo e non so se lo faccio più per lui o per me.
Lo lascio venire dentro di me, poi mi stacco e scivolo giù dal letto. All’improvviso, un’idea si materializza fra i miei pensieri confusi: l’unico modo che ho per godere davvero è andarmene da qui e lasciarlo legato. Sarà un piacere puramente sadico, forse, ma almeno c’è un lato divertente. Forse ho riflettuto ad alta voce, perché lui deve aver intuito qualcosa.
«Elena?» mi chiama, mentre sto già cercando i vestiti sul tappeto.
Non rispondo.
«Ehi, piccola, che fai? Dove sei finita?» La sua voce è leggermente alterata.
Piccola? Ci conosciamo da cinque ore e già mi chiama “piccola”. Forse pensa di essere su un set cinematografico. Sento che sta cercando di divincolarsi, ma non ci riesce. Il nylon non mi sta tradendo.
«Sono qui» sussurro, «ma tra poco non ci sarò più.»
«Cazzo, Elena!» Sento la testiera del letto sbattere forte contro la parete. «Non puoi lasciarmi così.»
M’infilo gli slip e riaccendo la luce. Vedo che sta cercando di strappare le calze con i denti. Mi scappa un mezzo sorriso.
«Dài, piccola, slegami» insiste. «C’è poco da ridere, sai.» Mi lancia uno sguardo torvo. Incredibilmente, il suo sesso è ancora in erezione. «Devo girare l’ultima scena, tra poco. Ho la convocazione sul set alle sei.» Con la coda dell’occhio inquadra l’orologio sul comodino che segna le quattro. «E slegami, cazzo!» La sua voce si alza di dieci toni.
«Urli così nella scena in cui ti ammazzano?» chiedo, con un filo di sarcasmo.
Mi fa quasi pena. È diventato famoso per la pubblicità di una marca di cioccolatini e ora che ha ottenuto questo piccolo ruolo in un film si atteggia già a candidato all’Oscar. Sono seriamente tentata di lasciarlo lì, ma poi torno sui miei passi e decido di graziarlo.
«Calmati» lo rassicuro. Mi avvicino lenta, salgo a cavalcioni su di lui, gli levo la cintura dal collo e lo slego, sciogliendo prima un nodo e poi l’altro. «Libero!» annuncio, alzando le spalle, e in un balzo sono giù dal letto.
«Eh no, troietta…» Una mano mi blocca da dietro, afferrandomi per i capelli. «Dove pensi di andare? Adesso me la paghi.» Nella sua voce la rabbia si confonde con il desiderio.
Non so perché, ma questo suo assalto ferino mi provoca e mi eccita. Con un colpo violento mi spinge contro la parete. Da dietro mi abbassa il perizoma e con i piedi mi allarga le gambe. Poi, premendo sui miei fianchi, mi piega in avanti e di colpo affonda dentro di me tutto il suo pene ancora duro e grosso – lo sento più grande di prima, ma forse non devo fidarmi dei miei sensi, ora. Mi riempie in uno slancio rabbioso, e io mi nutro della sua ferocia. Le sue mani si ancorano ai miei seni e i suoi denti affondano nel mio collo. Lo sento gemere di puro piacere e mi sforzo di fingere che sia lo stesso per me, mentre schiaccio disperatamente le mani contro il muro. Allora, con decisione, mi prende per le natiche, scivola fuori e poi rientra con più violenza e spinge così forte da farmi urlare. Ma non sto godendo. Io non so più cosa sia il piacere, da quell’ultima notte con Leonardo. Da quando lui è andato via, sette mesi fa, il mio corpo è rimasto vuoto e muto, non sa più rispondere agli stimoli.
Giulio si ferma per un istante. «Ne vuoi ancora?» ringhia contro il mio orecchio.
«Sì, ti prego. Voglio venire» mormoro, senza fiato. In realtà, voglio solo che questo tormento finisca il prima possibile.
Lui emette un gemito gutturale e aumenta il ritmo, spingendo più a fondo, più forte, più veloce, fino all’ultimo colpo: è finita, sono libera di accasciarmi a terra, esausta, la testa che gira, lo stomaco in subbuglio.
Resto così per un po’, mentre Giulio si veste alla velocità della luce, evidentemente già proiettato con la mente sul set. Vederlo così, un bambino tutto preso da se stesso che ha già esaurito ogni interesse per il suo giocattolo, mi provoca un misto di tenerezza e disgusto: non provo nulla per lui, come non provo nulla per gli altri uomini con cui sono stata dopo Leonardo. Nessuno di loro ha saputo far vibrare di piacere il mio corpo come lui. Nessuno di loro ha saputo ridare battiti al mio cuore, che continua a pompare solo per inerzia, perché gli hanno strappato il suo amore.
Giulio mi attira a sé e mi cerca con la bocca calda. Poi si dà un’ultima sistemata ai capelli davanti allo specchio e apre la porta.
«È stata una serata fantastica, Elena. Spero di rivederti. Il mio numero ce l’hai. Chiamami.»
«Certo» rispondo, abbassando lo sguardo. Ma sappiamo entrambi che non lo farò: tutto finisce qui, tra queste quattro pareti silenziose.
Usciamo insieme dall’albergo e, una volta in strada, ci salutiamo. Barcollo e mi sento la testa pesantissima, ma ho ancora la forza per chiamare il taxi che mi porterà a casa.
Scendo in Campo de’ Fiori per fare due passi e respirare a pieni polmoni l’aria fresca della notte romana, un balsamo per questo malessere che mi naviga tra pancia e stomaco. Almeno per un istante. Ma la pace dura davvero solo un attimo, perché la nausea ritorna subito, fastidiosa e ingestibile. Ci vedo doppio. Sono ubriaca fradicia, come tante altre sere da parecchi mesi a questa parte.
Perché mi sono ridotta così anche stavolta?
È fin troppo chiaro il perché. Passare le notti fuori a stordirmi di alcol e di sesso è l’unico modo che ho trovato per sopravvivere al senso di vuoto lasciato da Leonardo. Sono passati pochi mesi, ma mi sembra già una vita: lui che mi dice ti amo, io che lascio Filippo appena prima di scoprire che Leonardo ha una moglie, Lucrezia, che non può fare a meno di lui. E poi la mia disperazione per aver perso tutto. Mi fa troppo male ripensarci e da tempo mi sono imposta di non farlo. L’unico rimedio è cancellare, mettere insieme una nuova vita, caotica, febbrile, senza senso, ma nuova.
Faccio respiri profondi, sperando che mi aiutino a placare la nausea, e guardo in alto, prima d’incamminarmi verso casa. È una notte di primavera e la luna è un disco che si perde nel cielo. Attraverso Campo de’ Fiori, un deserto silenzioso e magico. C’è solo il banchetto di un venditore ambulante, arrivato con qualche ora di anticipo per il mercato del mattino. Devo assolutamente levarmi questi tacchi e crollare sul letto, perciò accelero il passo.
Vivo ancora con Paola. Lei, ormai, non si stupisce più di vedermi rientrare a tarda notte, anche se ultimamente è sempre più preoccupata per me, dato che non riesco a trovare un po’ di lucidità nemmeno al lavoro. Ma le sue paranoie non mi riguardano, dovrebbe aver capito che, nonostante tutto, non faccio niente di male e che sono in grado di badare a me stessa.
Mentre salgo le scale mantenendo a stento l’equilibrio, ogni gradino mi sembra l’ultima faticosissima tappa di una ferrata che mi lascia senza fiato. La nausea aumenta, la testa mi gira ancora e ho il passo più malfermo di prima.
Arrivata al pianerottolo, mi assicuro di essere davanti alla porta giusta. Sul campanello leggo CECCARELLI. Ok, anche questa volta ce l’ho fatta. Cerco la toppa e, dopo qualche maldestro tentativo, riesco a inserire la chiave e ad aprire. Sono dentro, ma la maniglia mi scivola dalla mano con il risultato che la porta sbatte alle mie spalle con un tonfo. Dannazione! Ci manca solo che Paola si svegli…
Mi sfilo faticosamente gli stivali per fare meno rumore e scalza mi trascino lungo il corridoio. Trattenendo un conato, proseguo verso il bagno e inciampo sul fermaporta di sasso a forma di gatto. «Ahia! Cazzo, che male!» esclamo a voce alta, tenendomi l’unghia del piede. Maledetti gatti! Sono disseminati dappertutto e io in questo momento non riesco a mettere a fuoco nulla, è già tanto se mi reggo in piedi.
Ancora un passo e sono in bagno. Finalmente, credevo di non farcela. Cercando al buio ...