FIABA DELLO ZAR SALTÀN
Una sera di tanto tempo fa tre sorelle filavano la lana sedute accanto alla finestra.
«Ah, se fossi una zarina» disse la maggiore «farei una festa e cucinerei per tutti gli abitanti del regno.»
«Ah, se la zarina fossi io» aggiunse quella di mezzo «tesserei una splendida tela per vestire ogni persona da confine a confine.»
«Se invece fossi io a governare» concluse la sorella minore «darei allo zar un figlio eroe.»
E non fece in tempo a finire di parlare che la porta di legno scricchiolò e nella loro casetta entrò il potente zar del regno, che aveva ascoltato i loro discorsi ed era rimasto particolarmente colpito dalle parole della sorella più piccola.
«Salve, splendida fanciulla» le disse. «Tu sarai la mia sposa e per la fine di settembre mi darai un bel bambino. E voi, sorelle, venite con me e seguitemi al palazzo: una di voi diventerà la mia cuoca, e l’altra la mia tessitrice personale.
Lo zar uscì dalla capanna e le tre sorelle lo seguirono di corsa fino alla reggia, dove quella sera stessa lo zar, il cui nome era Saltàn, sposò la minore senza perder troppo tempo. La festa fu grande e durò fino a tarda notte, quando gli ospiti accompagnarono gli sposi al loro letto d’avorio e se ne andarono.
Ma intanto, nelle cucine, la cuoca era arrabbiata, e lo era anche la tessitrice davanti al telaio: entrambe si rodevano d’invidia per la sorella che aveva sposato il sovrano. Qualche giorno dopo le nozze lo zar Saltàn dovette ripartire per combattere la guerra che infuriava contro un regno vicino e fu costretto a salutare la sua sposa. Fece sellare il cavallo, e prima di partire la pregò di riguardarsi, nel nome del loro amore e del figlio che sarebbe nato a settembre. E così, mentre il sovrano combatteva valorosamente i nemici, la zarina diede alla luce un bambino sano e forte. La madre lo custodiva gelosamente, come un’aquila fa col suo aquilotto, e mandò un messaggero perché portasse allo zar la buona notizia. Ma la sorella cuoca, la sorella tessitrice e una vecchia comare che si chiamava Babaricia, volendole fare del male, diedero ordine che il messaggero fosse arrestato, e al posto suo ne mandarono un altro con una lettera che recitava così: «Questa notte la zarina non ha avuto un figlio, non ha avuto una figlia. Ha dato vita a qualcosa, ma nessuno sa cosa, né rana né sorcetto, un animaletto che non si era mai visto».
Impossibile descrivere la rabbia dello zar quando lesse il messaggio! Per sfogarsi minacciò di impiccare il messaggero, ma alla fine ritrovò la calma e scrisse a sua volta un messaggio: «Prima di prendere qualsiasi decisione aspettate il ritorno dello zar». Il messaggero lo prese in consegna e dopo un lungo cammino giunse infine al palazzo, ma la tessitrice, la cuoca e la vecchia Babaricia tramavano per derubarlo: gli offrirono da mangiare e da bere, tanto di quel vino che l’uomo si ubriacò e cadde in un sonno profondo. Le tre donne frugarono nella sua borsa, trovarono il messaggio e lo sostituirono con un altro, che il messaggero, ripresosi dall’ubriachezza, portò il mattino dopo alla zarina. Così recitava il messaggio: «Lo zar ordina ai suoi boiardi di non perdere tempo, e di buttare la zarina e l’animaletto che ha generato nel profondo del mare».
Disobbedire a un ordine dello zar era impossibile: i boiardi, seppure a malincuore, entrarono negli appartamenti della zarina per annunciarle la volontà del marito. Dopo averle letto il messaggio chiusero madre e figlio in una botte, la sigillarono con cura con la pece, e infine la fecero rotolare fino al mare, dove le onde se la presero. Così voleva lo zar Saltàn.
Le stelle splendevano nel blu profondo del cielo, le onde si frangevano nell’azzurro intenso del mare, le nuvole attraversavano lo spazio come greggi insonnolite, e una piccola botte nera galleggiava sul pelo dell’acqua. Erano ormai passate molte ore da quando la zarina e suo figlio erano stati gettati in mare, e il bambino cresceva a vista d’occhio. Passò altro tempo, e mentre la zarina si lamentava e batteva i pugni contro le pareti della botte, il piccolo (che a dir la verità non era più così piccolo) supplicava i flutti: «Onda, mia onda, tu che vai libera nel mare, che ti infrangi dove più ti piace, che modelli le pietre della costa, inondi i regni e sorreggi le navi, aiutaci a scampare alla morte, e portaci a terra!».
L’onda, lusingata dalle parole del giovanissimo principe, lo ascoltò e depose dolcemente la botte su una spiaggia, prima di fare ritorno in mare aperto. La madre e il bambino non erano più alla mercé degli abissi, ma il tempo passava e nessuno dei due riusciva a trovare il modo per uscire dalla botte. “Possibile che il Signore ci abbia dimenticati?” pensava la zarina, ma il figlio puntò i piedi contro il legno e con la testa spinse contro il coperchio, pensando, e mentre pensava cresceva. “Come possiamo aprire una finestrella in questa botte?” si chiese, e mentre ragionava spingeva con la testa, e cresceva e cresceva, finché il coperchio saltò con un rumore di tappo di bottiglia.
Finalmente liberi, madre e figlio uscirono sulla spiaggia. In lontananza videro pianure e verdi colline, e sopra le colline una magnifica quercia. Il figlio, pensando a quanta fame avrebbero avuto di lì a poco, corse alla quercia e ne staccò un pezzo per farne un arco, e alle estremità tese il cordone di seta del crocifisso che portava al collo. Colse una canna sottile, ne fece una freccia e si allontanò sulla costa in cerca di prede.
Era sulla riva del mare quando alle sue orecchie giunse un suono che sembrava un lamento. Chiedendosi quali altre disgrazie ospitasse quella spiaggia si mise a cercare, e vide un atroce spettacolo: un cigno sbatteva furiosamente la ali sulla cresta delle onde, intorbidando l’acqua con le zampe, mentre un avvoltoio volteggiava su di lui cercando di carpirlo. L’uccello aveva già sfoderato gli artigli, aveva sollevato il becco ricurvo e stava per sferrare l’attacco definitivo, quando la freccia sibilò nell’aria e gli trafisse il collo spelacchiato, mandandolo ad agonizzare nell’acqua, gettando lamenti che non erano di avvoltoio né di altra bestia che si fosse mai sentita al mondo. Il cigno lo raggiunse e lo finì a colpi di becco, poi sollevò l’ala e con essa lo spinse a fondo, prima di rivolgersi al ragazzo parlandogli in russo: «Principe, sei il mio salvatore, mi hai liberato, e mi dispiace che a causa mia questa sera tu non possa mangiare, perché la tua unica freccia è finita sul fondo del mare. Ma non affliggerti: presto sarà chiaro che questa non è una vera perdita. Ti offrirò grandi ricompense, e ti sarò debitrice a vita: perché tu non hai salvato un cigno, ma una fanciulla, e non hai ucciso un avvoltoio, ma un malvagio stregone. Per un secolo intero sarai il primo dei miei pensieri. E ora torna da tua madre, non ti scoraggiare e mettiti a dormire».
Il cigno volò via e la zarina e suo figlio si rassegnarono serenamente a prender sonno senza aver mangiato nulla. Il mattino seguente, alle prime luci dell’alba, il ragazzo aprì gli occhi, scacciando dalla testa brandelli di sogni, e con grande meraviglia vide di fronte a sé una città con alte mura bianche, dietro cui occhieggiavano le torri delle chiese e dei monasteri, splendendo nel sole nascente. Subito svegliò la madre, che rimase a guardare la scena con il suo stesso stupore.
«E non sarà l’ultima volta che spalancheremo la bocca per la meraviglia» disse suo figlio. «Di certo il mio cigno è esperto di magia, e si diverte a mostrarci i suoi incantesimi!»
Non appena raggiunsero le mura della città le campane delle chiese presero a suonare a distesa, le porte si aprirono e l’intera popolazione uscì di corsa ad accoglierli, festante. Nobili e boiardi accorsero su carri d’oro ad acclamare, la folla urlò la sua gioia, i cori dei monasteri intonarono inni a non finire. Venne messa una corona sulla testa del principino, e con il permesso della zarina il giovane fu proclamato sovrano della città. Iniziò a regnare quello stesso giorno, con il nome di principe Gvidòn.
Il vento correva sul mare come se inseguisse le onde, e sulla superficie increspata spingeva una piccola nave a gran velocità. I marinai sul ponte osservavano pieni di stupore il miracolo che aveva trasformato quell’isola sperduta e solitaria: una grande città era sorta dal giorno alla notte, con cupole d’oro, alte chiese e un porto solido e sicuro. Dalla costa i cannoni spararono un colpo in aria: nel codice marinaresco significava che la nave poteva attraccare. I mercanti e i marinai ormeggiarono e il principe Gvidòn li convocò. Offrì loro cibo e bevande e chiese loro: «Che cosa commerciate, e dove siete diretti?».
«Commerciamo in zibellini e in volpi argentate. Dietro la nostra poppa abbiamo lasciato il mondo intero, e siamo diretti all’isola di Bujàn, nel regno del glorioso zar Saltàn.»
«Vi auguro un buon viaggio, miei signori. Che il grande mare vi abbia in amicizia nel tragitto verso il glorioso zar Saltàn. Vi prego, portategli il mio saluto.»
I mercanti promisero, si congedarono e salparono. Il principe li seguì dalla riva, scuro in volto, mentre scomparivano oltre l’orizzonte, quando sulla superficie azzurra vide nuotare un candido cigno.
«Salve, o principe! Perché sei cupo in volto come un giorno senza sole? Cosa ti rattrista?»
«Ahimè, cigno, la tristezza mi assedia fin dal giorno in cui sono nato. Vorrei tanto vedere mio padre.»
«Se questa è la causa della tua tristezza, puoi rallegrarti: ti trasformerò in zanzara, così potrai volare dietro alla nave e seguirla finché vorrai.» E così dicendo sollevò entrambe le ali e con un movimento secco le spostò in avanti, spruzzando d’acqua il principe dalla testa ai piedi. Di colpo egli diventò così piccolo che quasi non si vedeva più, e volando con un ronzio sottile raggiunse l’imbarcazione nascondendosi in una fessura tra due assi.
Il vascello scivolava sul mare, sospinto da un vento impetuoso, e in poco tempo la meta fu raggiunta: di fronte ai marinai si stendeva l’isola di Bujàn nel regno del glorioso zar Saltàn. I mercanti e i marinai sbarcarono sulla riva, e subito una delegazione del sovrano si presentò per invitarli a palazzo. La zanzara li seguì in volo, ed entrò nella splendida reggia. Sul grande trono sedeva lo zar Saltàn, avvolto in vesti che rifulgevano di ori, con la corona sul capo e la tristezza dipinta negli occhi. Accanto al trono stavano sedute la cuoca, la tessitrice e la comare Babaricia, e non lo perdevano di vista un istante.
Il sovrano fece sedere i mercanti al suo tavolo e prese a interrogarli: «Avete viaggiato a lungo? E dove andate? Oltre l’orizzonte avete trovato il bene o il male? E quali meraviglie avete visto fuori del mio regno?».
«La nostra prua ha solcato tutte le acque del mondo, e oltre l’orizzonte non è poi molto diverso che qui. Ma ecco la grande meraviglia: nel mare c’era un’isola deserta e tutta scogli, cattiva come un deserto e senza alcun porto. Solo una quercia vi cresceva, ma ora c’è una città con mille torri, mille chiese e mille monasteri, e giardini e cupole d’oro da far fatica a contarle. E il signore di questa isola incantata è il principe Gvidòn, che vi manda i suoi saluti.»
«Se il tempo me lo concederà, visiterò quest’isola fatata, e sarò ospite del principe Gvidòn.»
Ma la tessitrice, la cuoca e la comare si misero a sbuffare tutte insieme. «Sai che meraviglia!» disse la cuoca strizzando l’occhio alle altre. «Una città sul mare, come se non ce ne fossero già tante! Ve lo racconto io un vero miracolo a cui ho assistito di persona. Ebbene, sotto un abete nei boschi c’era uno scoiattolino, che cantava una canzone e mangiava una nocciola, ma non era una nocciola normale, ah, no! Il guscio era d’oro, e il frutto era di puro smeraldo, splendente come se avesse il sole all’interno. Eccolo, sire, un vero miracolo!»
Lo zar Saltàn si meravigliò di queste noccioline fatate più di quanto non avesse fatto per la città sbocciata come un fiore in una notte, e la zanzara si arrabbiò a non finire per questa ingiustizia: iniziò a pungere i presenti, e per prima punse la zia cuoca, proprio sulla palpebra destra. La donna si fece bianca come un muro, svenne e perse la vista da quell’occhio. Tessitrice, comare, servi, dignitari, tutti si misero a gridare e a saltellare intorno per catturare l’insetto inopportuno. «Maledetta bestiaccia! Ma ti prendiamo, ah, se ti prendiamo!»
Ma la zanzara aveva ali che loro non possedevano: uscì tranquillamente da un’alta finestrella e tornò al suo principato, dove ripreso l’aspetto umano andò a passeggiare sulla riva, guardando il mare con un’espressione desolata sul volto. E mentre fissava le onde, ecco che venne verso di lui il bianco cigno: «Salve, principe! Perché sei cupo in volto come un giorno senza sole? Cosa ti rattrista?».
«La tristezza e la nostalgia hanno rapito il mio animo. Vorrei vedere il più stupefacente dei miracoli, che mi hanno raccontato: c’è un bosco e nel bosco c’è un abete, e sotto l’abete uno scoiattolo che canta canzoni e mangia nocciole, ma le nocciole hanno il guscio d’oro e il frutto di smeraldo lucente… Sempre che non sia una menzogna, e la gente non si diverta a raccontare storie non vere.»
«Quella che tu dici è vera, mio principe. È un miracolo che conosco. E in nome dell’amicizia che ci lega presto lo conoscerai anche tu.»
Il principe tornò al suo palazzo, consolato da quelle parole, ed entrato nel vasto cortile, con somma meraviglia, vide un alto abete che fino al giorno prima non c’era. Sotto l’albero uno scoiattolo canticchiava davanti agli sguardi sbigottiti di nobili e dame una canzone che iniziava con: «nel mio orto e nel giardino…». Cantando rodeva una nocciola tutta d’oro, che rivelava al suo interno uno smeraldo purissimo, infine allineava con cura l’oro rosicchiato dai gusci in mucchietti tutti uguali.
Il principe Gvidòn si riscosse dallo stupore e volse gli occhi in direzione del mare. «Grazie, mio cigno! Grazie! Che la sorte conceda a entrambi la felicità.»
Poi ordinò di costruire per lo scoiattolo una casetta di cristallo sorvegliata da una sentinella, e chiamò uno scrivano che tenesse conto delle nocciole rosicchiate. Allo scoiattolo spetta l’onore, ma la ricchezza è del principe!
Il vento correva sul mare come se volesse inseguirlo chissà dove, e sulla superficie increspata spingeva una piccola nave a gran velocità. I marinai guardavano la città miracolosa sorta in una notte. I cannoni del porto spararono un colpo: potevano attraccare, e così fecero. Il principe Gvidòn li fece chiamare e li ospitò nel palazzo.
«Che cosa commerciate, e dove siete diretti?»
«Commerciamo in cavallini e puledri del Don. Tutti i venti del mondo hanno gonfiato le nostre vele, ma ora il viaggio sta per terminare e siamo diretti all’isola di Bujàn, nel regno del glorioso zar Saltàn.»
«Vi auguro un buon viaggio, miei signori. Che il grande mare vi sia amico nel tragitto verso il glorioso zar Saltàn. Vi prego, portategli il mio saluto e ditegli che lo accoglierò volentieri come ospite.»
I mercanti si inchinarono di fronte a Gvidòn e si prepararono alla partenza. Non appena furono spariti alla vista il principe corse verso il mare: il cigno era già lì, e lo aspettava.
«Cigno mio, la mia anima langue e desidera andare lontano…»
E il cigno senza dir nulla alzò le ali e lo spruzzò da capo a piedi, e quando le ultime gocce caddero a terra il principe era diventato una mosca ronzante, che subito si alzò in volo e raggiunse la nave lontana nascondendosi in una fessura tra le assi.
Il vascello scivolava sul mare, sospinto da un vento impetuoso, e in poco tempo la meta fu raggiunta. I mercanti sbarcarono sulle rive di Bujàn, e subito un drappello di dig...