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Le giuste priorità
Crescere la generazione successiva è forse il compito più appagante e il traguardo più alto di una vita. Per contro, però, i bambini piccoli sembrano nati per distruggere tutto ciò con cui vengono in contatto, dal guardaroba ai mobili di casa, dal sistema nervoso alla vita sessuale. Talvolta persino il matrimonio. Anche quando crescono, le loro esigenze sono tante e tali da richiedere molto del vostro tempo, al punto che è facile perdere di vista il partner. Per fortuna, questo non è un esito obbligato. In oltre trent’anni di esperienza come analista ho visto molte coppie sconfitte dagli anni passati a crescere i figli, ma ne ho aiutate anche molte altre a tramutare i bambini nel collante che ha reso più saldo il loro legame. Dunque, qual è il segreto? In estrema sintesi, si tratta di stabilire le giuste priorità e di bilanciare tre elementi chiave: il matrimonio, il benessere dei bambini e le esigenze individuali.
All’inizio della relazione, voi e il partner avevate occhi solo l’uno per l’altra. L’amato era il centro dell’universo, la luce della vostra vita, il motivo per cui vi alzavate dal letto ogni mattina. Scambiandovi gli anelli davanti all’altare o in una sala di municipio, credevate che niente avrebbe potuto dividervi. Entrambi volevate dei figli, in futuro, ma ne avevate parlato solo in astratto, e in teoria eravate certi che la nascita dei bambini vi avrebbe resi ancora più uniti: sarebbero stati la prova vivente del vostro attaccamento reciproco, e sentivate di avere amore ed energie a sufficienza per tutti. Poi, però, travolti dalle mille responsabilità di mettere su famiglia, occuparsi dei bambini e guadagnare abbastanza per mantenerli, siete stati scalzati nel rispettivo elenco di priorità, e vi siete sorpresi a dire (o a sentirvi dire): «Per te vengo sempre ultimo/a».
Gli uomini scoprono che la compagna mette al primo posto i bambini, la casa (per esempio rifiutandosi di andare a letto e magari di fare sesso finché non ha finito di riassettare la cucina), il proprio impiego e magari persino il cane. Le donne scoprono che il compagno privilegia la carriera, i bambini (gli piace giocare con loro quando torna a casa, ed è bello vederlo impegnarsi a essere un buon padre, ma per lei è inevitabile sentirsi ignorata) e addirittura la sua squadra di calcio.
Dopo le promesse allettanti dell’amore romantico, la fatica quotidiana di occuparsi dei bambini costituisce un vero e proprio shock. In un mondo ideale, una coppia siederebbe a parlare con calma della delusione che prova, del rimpianto per ciò che ha perduto, e dedicherebbe il tempo necessario a consolarsi e ad aiutarsi a vicenda nel difficile transito da amanti a genitori, senza mai perdere di vista l’uno o l’altro ruolo. Nella realtà, purtroppo, molte coppie imboccano una spirale discendente in cui lui, sentendosi escluso in casa, si butta nel lavoro (e in fondo che c’è di male? Dopotutto è il suo stipendio a pagare le bollette e a mantenere la baracca) e lei, non vedendolo quasi mai – lui rincasa sempre tardi e la sera si chiude in camera per rispondere alle email o partecipare a una videoconferenza – si dedica anima e corpo ai bambini (e in fondo cosa c’è di più importante che accudire la nuova generazione?). Forse il problema esisteva già da prima: lei si è sempre sentita un po’ secondaria rispetto alla carriera del compagno e l’arrivo di un figlio – che invece la mette senz’altro al primo posto – ha rafforzato la sua autostima, fornendole un incentivo in più per concentrarsi su questo nuovo ruolo, impegnativo ma gratificante. Ma comunque sia cominciata, il rischio è di irrigidirsi nei rispettivi stereotipi maschili e femminili, fossilizzandosi nel ruolo di madre e di padre e trovando sempre più difficile comunicare e fare squadra come coppia.
I risentimenti repressi si accumulano e si finisce per dare priorità assoluta al tempo dedicato alla famiglia rispetto a quello di coppia. È un buon espediente per preservare il quieto vivere, ma diventa fin troppo facile nascondersi dietro una rassicurante collaborazione genitoriale, dimenticando completamente di essere anche marito e moglie.
Tuttavia, non è detto che debba per forza andare così…
Un’idea rivoluzionaria
Al cuore di questo libro c’è un concetto radicale, talmente rivoluzionario che io stesso mi sorprenderei di riuscire a convincervene. Quindi siete liberi di avanzare obiezioni, protestare che non capisco, o addirittura considerarmi un matto pericoloso. Per il momento vi chiedo solo di sospendere il giudizio e di riflettere sui miei suggerimenti invece che liquidarli seduta stante. Dunque, qual è la mia proposta?
Dovete mettere i figli al secondo posto.
Certo, ci saranno momenti in cui avranno bisogno di voi, magari quando sono malati o nel loro primo giorno di scuola. Io mi riferisco al quotidiano. Nella vita di ogni giorno la priorità assoluta spetta al partner. So che è dura da digerire – in particolare se mi leggete tenendo in braccio un neonato che dipende da voi in tutto e per tutto –, ma in futuro i figli se ne andranno, mentre il matrimonio dovrebbe durare per sempre (anche se oggi sono tutti convinti del contrario: i matrimoni finiscono, mentre un figlio è per la vita). Prima di scagliare via il libro – o l’e-reader –, permettetemi di precisare che non suggerisco di mettere il partner al primo posto solo per il bene del matrimonio, ma anche per quello dei bambini. Detto in parole povere: i figli di una coppia felice sono a loro volta più felici. Se date sempre e automaticamente priorità a loro, il vostro matrimonio ne uscirà impoverito, e i bambini avvertono l’insoddisfazione degli adulti: si sforzeranno di fare da pacieri nelle vostre liti, finendo coinvolti in questioni superiori alla loro comprensione, o peggio, si sentiranno responsabili dei vostri conflitti. Innumerevoli volte, il primo segnale di una svolta positiva nell’analisi dei miei pazienti era la maggiore serenità dei figli.
Ma cosa accade, nel concreto, quando mettete i bambini al primo posto? Amanda ha quarantun anni e una figlia di tre. «I nostri fine settimana ruotano intorno alla bambina e ogni iniziativa è pensata specificamente per lei. Magari organizzo qualcosa con conoscenti con cui io e mio marito non siamo in confidenza o non abbiamo molto in comune, salvo i bambini della stessa età, perché non mi sembra giusto costringerla a vivere da figlia unica. Ieri pomeriggio, per esempio, ho invitato a casa sei bambini con cui potesse giocare, usando il tavolo di cucina come un laboratorio creativo per disegnare, ritagliare o impastare dolci.» La determinazione di Amanda di offrire alla figlia ogni possibile occasione per socializzare con altri bambini aveva un costo. «Se ho in programma una cena con mio marito, da soli o con amici, e un’altra madre mi telefona per proporre un’attività destinata ai bambini, non ci penso due volte ad annullare l’impegno preso con gli adulti.» A quel punto le ho chiesto quale fosse l’impatto sul marito. «Io penso al bene della bambina, ma per lui significa spesso trovarsi incastrato a parlare con un altro padre mai visto prima. Quindi è capitato che obiettasse: “Non potremmo organizzare qualcosa per noi tre soli?”.»
Non mi era difficile immaginare l’espressione del marito quando, rincasando dopo una lunga giornata di lavoro, aveva trovato la cucina invasa da sei bambini sconosciuti. Ma era stata l’ultima frase di Amanda a preoccuparmi davvero. Non soltanto suo marito era ben consapevole di avere un posto infimo nell’elenco di priorità della moglie, ma non si sentiva nemmeno in diritto di chiedere: «Non potremmo organizzare qualcosa per noi due soli?».
Quando propongo di mettere il partner al primo posto, in genere i miei pazienti mi guardano interdetti. È come se avessero sentito cosa ho detto, ma non fossero in grado di capirlo. Certo non hanno deciso intenzionalmente di trascurare il proprio matrimonio, ma vogliono garantire ai bambini ogni opportunità nella vita e, sebbene non lo dicano in modo esplicito, ambiscono a essere genitori «perfetti». E se per riuscirci devono mettere in standby la propria relazione nei cruciali anni formativi dei bambini, in fondo ne vale la pena, no?
A questo punto devo introdurre il concetto complementare a quello di mettere i figli al secondo posto, ovvero: siate genitori abbastanza buoni. Purtroppo nemmeno questa idea riscuote grande successo. Noi tutti vogliamo il meglio assoluto per i nostri bambini. Ora vi spiego cosa intendo per abbastanza buoni. Donald Winnicott (1896-1971) è stato uno dei pediatri e psichiatri infantili più influenti del mondo anglosassone. Era convinto che, se per magia fossimo riusciti a realizzare ogni desiderio dei nostri figli, li avremmo cresciuti nell’illusione di essere al centro dell’universo. Peggio ancora, non si sarebbero mai trovati nella necessità di affrontare un ostacolo, perché ci saremmo stati sempre noi a toglierlo di mezzo o ad aiutarli a superarlo, privandoli della possibilità di mettersi alla prova, commettere errori, crescere e diventare autonomi. D’altra parte, trascurarli è altrettanto dannoso, quindi Winnicott propose una via di mezzo: essere genitori buoni quanto basta. In altre parole, prestare attenzione ai bambini, ma senza spingersi agli eccessi del micromanagement.
Adottare questa prassi presenta due vantaggi. In primo luogo vi eviterà di impazzire, insegnandovi ad accettare l’idea che tutti i genitori sbagliano e che questo non è necessariamente la fine del mondo. «Avevo dimenticato che a nostro figlio serviva un costume per la Giornata mondiale del libro all’asilo, ed era lunedì mattina, quindi i negozi erano chiusi» mi spiegò Muriel, trentadue anni. «Me lo vedevo già in lacrime perché era l’unico in classe senza costume, o peggio, preso in giro dai compagni per un costume raffazzonato. In preda all’agitazione, sono andata su eBay e ne ho trovato uno del Trenino Thomas.» Il proprietario del costume, però, abitava in un quartiere di periferia all’altro capo di Londra, un tragitto di tre ore tra andata e ritorno. «Decisa a essere una madre “perfetta”, ho caricato in macchina mio marito, mio figlio e la nostra bambina di un anno, e sono partita. Eravamo tutti di pessimo umore e la tensione cresceva di minuto in minuto.» Per fortuna, in terapia avevamo già discusso del concetto di genitore buono quanto basta e, invece di litigare, Muriel e suo marito Neil si fermarono a discuterne con calma.
«Tre ore di macchina per andare e tornare da Chelmford non mi sembrava un buon modo di passare la domenica» disse Neil.
«E io mi sono chiesta se quel viaggio fosse davvero necessario» aggiunse Muriel. «Potevo ingegnarmi a creare io stessa un costume per il bambino. Non sarebbe stata una tragedia se si fosse presentato con una maschera fatta in casa. Così abbiamo ribaltato la situazione e invece di andare a Chelmford siamo usciti a pranzo tutti insieme.»
Alla fine Muriel realizzò un costume abbastanza buono e suo figlio si divertì molto ad aiutarla a trasformare un cappello nel fumaiolo del Trenino. Nel corso delle settimane successive, Muriel riuscì a liberarsi dalle ossessioni di perfezione e a concedersi qualche momento di pausa – un sonnellino, per esempio – invece che imporsi di essere «sempre presente» e «sul pezzo».
In secondo luogo, cosa altrettanto importante, accettare di essere un genitore buono quanto basta previene la rivalità con gli altri genitori. Rachel, che aveva rinunciato alla carriera per diventare mamma a tempo pieno, scoprì di avere trasferito la sua innata competitività dal lavoro all’educazione della figlia. «Era come se io e le altre madri dell’asilo fossimo rivali in una corsa agli armamenti. La competizione non si limitava soltanto al primato nelle fasi di crescita dei rispettivi bambini. Se una di noi iscriveva il figlio a una nuova attività – yoga per l’infanzia, poniamo –, quel corso diventava obbligatorio per tutti, pena venire accusate di “trascurare” lo sviluppo del nostro bambino. Quando mi sono chiamata fuori dalla gara, e ho cominciato ridere di come ci fomentassimo a vicenda, non soltanto sono finalmente riuscita a rilassarmi e a godere davvero del tempo trascorso con mia figlia, ma ho anche accumulato un vasto repertorio di aneddoti divertenti da raccontare a mio marito David.»
E nel caso di Amanda, quale impatto aveva avuto sulla figlia la sua aspirazione a essere una madre perfetta, invece che buona abbastanza, e il disperato tentativo di compensare la mancanza di fratelli e sorelle? «La bambina ha appena tre anni, eppure ieri, quando ho invitato a casa i suoi amichetti per giocare con lei, si è dimostrata molto prepotente, dando ordini a tutti, compreso un bambino di nove anni. Se non facevano come voleva lei, li spediva in un angolo a “riflettere”, che è il mio castigo per quando disobbedisce.» A mano a mano che parlava, Amanda era sempre più angosciata. «Ho paura che in futuro diventi una persona molto sgradevole, perché si aspetta di essere sempre al centro dell’attenzione.»
In altre parole, mettendo in pratica entrambe le mie proposte rivoluzionarie farete il bene del vostro matrimonio e dei vostri figli. So che ci vuole tempo per abituarsi all’idea, quindi non preoccupatevi. In ogni capitolo tornerò sui due temi centrali – Metti il partner al primo posto e Sii un genitore buono quanto basta – esaminandoli da varie prospettive e in situazioni diverse.
C’è anche un altro concetto che ricorre in questo libro, ma non lo definirei rivoluzionario. Anzi, sulla carta quasi tutti sono pronti ad accettarlo, ma alcuni genitori lo perdono di vista nei primi cinque anni di vita dei propri figli. A cosa mi riferisco?
Anche voi avete esigenze.
Purtroppo, quando ci si affanna a essere genitori perfetti, la prima persona che si finisce per trascurare siamo noi. È dura non sentirsi in colpa, o addirittura snaturati, a pensare: «E io?» quando abbiamo davanti un bambino piccolo, dolcissimo e inerme. Al confronto con le sue esigenze immediate di cibo, cure e protezione, le nostre non possono che sembrare irrilevanti ed egoistiche. Nel corso del libro spero di convincervi a non pensare più in termini così categorici e a rendevi conto che tralasciare d...