Sesta parte
IL DISGELO
Coccarda e gelato
La bambina è consapevole, come tutti, di star vivendo giornate indimenticabili.
Il 25 aprile, diffusa da una meravigliosa aria di primavera, risuona dalle finestre spalancate la voce della radio che ripete ossessivamente, quasi a contraddire la generale incredulità : «La guerra è finita, la guerra è finita…».
Per giorni erano sfilate, sotto le finestre di casa, schiere di soldati tedeschi in ritirata. Alcuni portavano sulle spalle ricurve un comodino, una poltrona di vimini, una lampada da tavolo, come se il bottino di guerra potesse giustificare la sconfitta e la resa.
Nonostante la nazione sia già liberata dall’invasore straniero e dall’oppressore fascista, la festa esplode a Manerbio con l’arrivo delle truppe alleate. Suonano le campane mentre sfilano per la strada principale camion carichi di soldati americani che lanciano ai ragazzini tavolette di cioccolato. Banchetti improvvisati distribuiscono bandierine tricolori ed è comparso persino un triciclo a forma di gondola che vende coni gelato, mai visti prima. La mamma e i figli, con una vistosa coccarda tricolore puntata sul vestito, sfilano orgogliosi tra la folla del paese che sembra aver sciolto i vincoli del sospetto e della paura. Ma, oltre la chiesa, la bambina scorge, con la coda dell’occhio, una scena che contrasta con la generale allegria: tre giovani donne (una si dice sia una maestra ma a scuola non si è mai vista), con i capelli rapati a zero, vengono strattonate, spinte e schernite da un gruppo di compaesani che le accusano di essere amanti di repubblichini.
Gioia e dolore, orgoglio e vergogna si presentano simultaneamente, come accade nella vita. La bambina, registrando sulla pellicola della memoria quell’esperienza, si sente turbata ma avverte anche che il suo raggio mentale è diventato più ampio e più capace di cogliere la complessità degli eventi.
Dopo le processioni religiose e le adunate fasciste, viste nei Film Luce, la bambina partecipa per la prima volta a una festa di popolo, spontanea e sincera. Sul clima di entusiasmo collettivo soffia un vento nuovo, quello della speranza. Come tutti i bambini, è osservando le reazioni della mamma che coglie il senso della situazione. Poiché la mamma esprime, con i gesti e con il volto, sentimenti di soddisfazione, di allegria e di orgoglio, li fa propri e si sente in sintonia, come non mai, con l’anima del paese. Non le sfugge però che, dietro tanta luce, permangono ombre inquietanti di colpa, di paura e di rancore. In questi anni una educazione sempre più protettiva tende a evitare ai bambini ogni emozione negativa, a crescerli in un mondo ovattato, separato dalla realtà esterna, sottratto agli eventi della società , spesso perturbanti. Si teme che l’impatto con contraddizioni, ambivalenze e conflitti possa traumatizzare la loro fragile mente. Ma senza rischi non si cresce e i bambini hanno bisogno di incontrare l’imprevisto per attivare processi di adattamento. L’esperienza non procede in modo lineare ma elabora percorsi strategici a seconda degli ostacoli che si trova ad affrontare. Può darsi che l’alternativa migliore sia procedere baldanzosi in avanti, ma può accadere che sia meglio fermarsi per riflettere e, in certi casi, tornare indietro per ristabilire la situazione precedente (resilienza). Oppure prendere la rincorsa per saltare più in alto e più in là . Se impediamo ai bambini di entrare nel mondo reale, si confronteranno con quello virtuale, spesso più ingannevole e pericoloso.
La forza dell’eros
Sin dai primi giorni di pace il ritorno a casa degli uomini cambia completamente l’atmosfera del paese. La nube di cupa rassegnazione si dissolve per lasciar posto a una impetuosa vitalità . Dal solaio la bambina scorge, sul tetto della Casa del popolo (ex Casa del fascio), coppie che ballano nelle notti calde d’estate. Gli uomini in canottiera, le donne in sottoveste, la pelle lucida di sudore, si stringono in una promessa d’amore che ben presto arrotonderà il grembo delle giovani spose. La sessualità , che sino a poco prima sembrava inesistente, anima nuovi repertori di canzoni e di balli mentre gli abiti femminili si fanno provocanti, le calze trasparenti, il trucco vistoso e i gesti audaci. Il moralismo del paese cerca di arginare il «peccato che dilaga» con critiche e anatemi rivolti come sempre alle donne. Ma invano, perché la vita che rinasce non si lascia arginare.
Per la bambina, cresciuta da vecchi parenti e da una madre sola, l’erotismo rappresenta un’esperienza imprevista e inquietante. Guardando donne più o meno giovani, che stanno recuperando gli anni persi nell’attesa dei coetanei, e ragazzine che scoprono le attrazioni del corteggiamento, si chiede se vuole essere come loro. E si risponde di no. Di temperamento malinconico, anche se animato da guizzi di allegria, all’eccitazione, la provocazione, l’eccesso preferisce una quieta normalità . Per questo, durante la prima campagna elettorale, apprezzerà particolarmente le gigantografie della «famiglia felice» esposte dalla Democrazia cristiana. In fondo ciascuno desidera ciò che non ha o non ha avuto.
Il sogno d’amore
Nell’aria tersa della prima estate di libertà risuona una canzone destinata a diventare emblematica: In cerca di te. Sull’onda di una musica malinconica, una voce femminile canta la ricerca e l’attesa di un amore perduto: «Sola me ne vo per la città , passo tra la folla che non sa, che non vede il mio dolore, cercando te, sognando te, che più non ho…». La bambina ne resta incantata. I temi dell’estraneità , della solitudine, la promessa di un vero, grande amore fanno vibrare le corde del suo cuore come non le era mai accaduto prima. Il vuoto che ha contrassegnato la sua infanzia non sembra più definitivo da quando sullo schermo del futuro si proietta il sogno d’amore, una benaugurante anticipazione.
«Se la vita è un grande palazzo, la felicità abita nell’anticamera» recita una saggezza antica. Le donne lo sanno e forse per questo si compiacciono per tutta la vita del sogno d’amore, nella forma della speranza prima, della ricerca poi, del rimpianto infine. Sinora la bambina ha conosciuto l’amore solo nella frettolosa conclusione delle fiabe: «e vissero felici e contenti».
Ed è con meraviglia che lo incontra quando, per strada, si sente avvolgere da una melodia che esprime una disperazione leggera, temperata da una speranza altrettanto lieve. Le sembra che parole e musica si rivolgano a lei, al suo passato, al suo futuro. In realtà non ha mai vissuto un grande amore e non ha alcun motivo d’attenderlo ma, evidentemente, «il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce».
Poiché questa rivelazione compare di solito nell’adolescenza, può sembrare prematura in una bambina di sette anni, ma l’evoluzione della mente non si accompagna necessariamente a quella del corpo e può accadere che le gambe rincorrano i pensieri.
La vestina troppo corta
La domenica si festeggia all’oratorio dove l’«ordenari», la paghetta di cinque lire, permette alle bambine di scegliere, sul banchetto allestito dalle suore, tra alcune caramelle, un rametto di legno dolce o, meraviglia, un piccolo limone rinsecchito da cui, rigirando al suo interno un cilindro di liquerizia, si ricava un gradevole succo. Quella domenica, la bambina indossa una vestina bianca a pallini rossi, allacciata da due nastri sui fianchi. È la sua preferita ma, rispetto allo scorso anno, si è fatta corta, come osserva sdegnata la madre superiora bloccandola sulla porta del convento: «Vestita così non puoi entrare!». Mentre si accinge a tornare a casa ripercorrendo le vie assolate e deserte del paese, l’anziana suora portinaia la richiama cautamente e, dopo averle appuntato una striscia di giornale lungo l’orlo della gonna, le permette di accedere al cortile e concedersi, tra moleste punture di spilli, vertiginosi giri di giostra.
Il convento, che le sembrava un universo compatto come un esercito in procinto di affrontare la battaglia, grazie alla suora portinaia si rivela un insieme composito di persone capaci di assumere atteggiamenti diversi e trasgressivi rispetto all’intransigenza della morale tradizionale. Mentre la superiora cerca disperatamente di difendere le norme consuete, l’umile portinaia si permette di trasgredirle prendendo le parti della piccola, dolorosamente scacciata per il modesto peccato di mostrare le coscette sovrastanti le appuntite ginocchia infantili.
L’episodio, di per sé insignificante, serve alla bambina per comprendere che il paese sta mutando in diverse direzioni: oltre ai cambiamenti orizzontali, che riguardano le giovani generazioni, sempre più svincolate da un’etica eterodiretta, sono in atto caute trasformazioni verticali, che minano le gerarchie tradizionali di status e di censo.
Il ritorno del padre
Eccolo lì il papà tanto atteso, seduto nel letto divenuto finalmente matrimoniale: il volto pallido ancor più sbiadito dal contrasto con la maglia di lana giallo paglierino, l’unico colore disponibile nell’emergenza della produzione industriale. La bambina lo guarda titubante, da lontano, come le è stato raccomandato perché il papà sta male: ha la polmonite e forse la tubercolosi.
Incuriosita, gira intorno al lettone incerta sul da farsi di fronte a uno sconosciuto che dovrebbe esserle familiare ma che non ha mai visto. Il balletto propizia infine un dialogo cauto, indiretto, neutrale. Il papà le racconta storielle fantasiose sulle sue avventure africane, come quella di un leone cacciato infilandogli un braccio in gola sino ad afferrare la coda e rigirarlo come un calzino. La bambina finge di credergli ed entrambi convengono di limitarsi a una corrispondenza simulata, che non intacca l’estraneità che li divide. Sette anni di esperienze sofferte, differenti e lontane sono troppi per risolversi in un dialogo affettuoso. Ed è piuttosto sul non detto che si stabilisce l’intesa che li renderà per sempre vicini e lontani.
Il padre della bambina, prigioniero degli inglesi a Massaua, è stato rimpatriato più tardi degli altri, dopo una lunga sosta a Londra. Quando giunge a casa, è ormai autunno avanzato ed è sceso sul paese un freddo repentino. Il loro incontro, dopo sette anni di lontananza, rivela la difficoltà di allacciare legami che non si sono mai annodati. Qualche cosa di simile accade anche durante l’adozione ma, in quei casi, esiste un progetto che giustifica l’ignoranza del passato in nome di un futuro desiderato, programmato e volutamente realizzato dai genitori. Qui invece è la storia a decidere l’andamento dei rapporti familiari, non i protagonisti, indotti dagli eventi a recitare un copione «in cerca d’autore». La soluzione non può che essere compromissoria: la figlia tardivamente acquisita non sarà proprio tale, ma una sorta di vicemadre, una figura intermedia tra genitori e figli che giustifica la sua posizione rendendosi, man mano che cresce, disponibile ad aiutare in casa e ad accudire le sorelline. Tanto più che l’estate successiva la nascita di una figlia vera, desiderata e attesa, concluderà le affannose pagine del passato inaugurando un capitolo nuovo nella storia di famiglia.
«Fatti mandare dalla mamma…»
All’improvviso la vischiosa bottiglia del latte che la bambina stringe in pugno cade a terra e il liquido bianco si spande sul cemento grigio del marciapiede. Peccato! Sa già che l’attendono sgridate e probabilmente uno scappellotto: «Sei sempre la solita: distratta, pasticciona, la testa nelle nuvole…». Ma, proprio quando la minaccia sta per realizzarsi, subentra il papà che intercede per lei: «Non facciamone un dramma! Capita. Adesso va a prenderne dell’altro. Dai, corri!». La bambina avverte per la prima volta che l’arrivo del padre ha modificato gli equilibri della famiglia. Il passaggio dei componenti da tre a quattro ha reso il «tavolo» più solido e sicuro e i rapporti reciproci meno instabili.
La presenza del padre al fianco della madre agisce come un fattore di stabilità . Intanto perché induce la moglie, rimasta sola troppo a lungo, a valorizzare, accanto a quella materna, anche l’identità femminile, inoltre perché il «nome del padre» introduce, nella confusività degli affetti, la Legge fondamentale che, impedendo l’incesto, impone la distanza là dove regna il massimo di prossimità .
La famiglia è una scacchiera ove si gioca una partita che prevede regole e posizioni predeterminate. La posta è costituita dalla possibilità , per i figli, di accettare il posto loro assegnato e al tempo stesso di abbandonarlo progressivamente sino a uscire dal gioco e trovarne uno proprio, senza tuttavia spezzare i rapporti preesistenti. Le mosse in campo sono ambivalenti perché, come osserva Arthur Schopenhauer: «Siamo come i porcospini che, se stanno troppo vicini si pungono, se stanno troppo lontani hanno freddo».
Diventare inglesi
Quando il padre guarisce, si assenta nuovamente perché, avendo trovato un impiego a Brescia, rientra solo il fine settimana. Deciso a recuperare il tempo perduto, si impegna a realizzare un ambizioso piano di rieducazione paterna. Durante la prigionia, grazie alla laurea in ingegneria elettrotecnica, aveva ottenuto di lavorare come elettricista, nulla di più di una collaborazione occasionale, ma dalla convivenza con i suoi carcerieri ha tratto un’ammirazione incondizionata per lo stile di vita e la cultura inglesi. E ora, tornato a casa, si accinge a trasmetterli ai figli, destando non poche resistenze. Innanzitutto il loro vocabolario va depurato dall’inquinamento del dialetto, considerato un linguaggio «non da uomo ma da selvaggio!», i denti lavati mattina e sera col dentifricio Kolynos, portato appositamente da Londra, i weekend trascorsi in campagna, preferibilmente in bicicletta. In realtà si limiteranno a qualche pomeriggio sulle rive pietrose del fiume Mella, da cui ricaveranno dolorose scottature, e ad alcune visite alla sorellina, affidata a una balia nel paese vicino. Soprannominati «gli inglesi», confermano, con l’insolito comportamento, la generale convinzione che siano sempre e comunque «forestieri».
Alla bambina il programma di rieducazione anglosassone provoca un’insuperabile idiosincrasia per quella lingua e una generica insoddisfazione per il nuovo corso della vita privata. Come canta Guccini in Amerigo: «L’inglese un suono strano che lo feriva al cuore come un coltello».
Per quanto, durante la guerra, la sua condizione fosse insoddisfacente, aveva raggiunto un equilibrio tra mente e cuore, solitudine e appartenenza, che i nuovi giochi sulla scacchiera familiare mettono in crisi. Se prima occupava, con poca convinzione, la casella di figlia della mamma, ora vaga in uno spazio intermedio che la disorienta. Troppo grande per accettare la realtà come l’unica possibile, troppo piccola per distaccarsene e guardarla dal di fuori, non le resta che proseguire il consueto programma di resistenza, ma meno deciso di un tempo. Anche le guerre di trincea logorano le forze lasciando che la stanchezza corroda fiducia e speranza. Arroccarsi nella fantasia, abitare altrove non appare più risolutivo mentre l’istintiva allegria del cucciolo lascia il posto a uno stato di crepuscolare malinconia. Incapace di superare la linea d’ombra che l’immobilizza in una bonaccia senza vento, priva di alternative, la bambina si ammala.
Il rifugio nella malattia
Sono i primi giorni d’inverno e una tramontana gelida s’infila nella via dove la bambina e il fratello, usciti dal cortile di casa, giocano con altri ragazzini a salire sul rimorchio di un camion parcheggiato accanto al marciapiede, per poi, con una certa audacia, saltare a terra.
Lei è la più piccola ma vuole farcela e perigliosamente riesce a salire e a scendere più di una volta quando, improvvisamente, una vampata di caldo le arrossa le guance, la testa gira come una giostra, le gambe si piegano sotto il peso di un corpo divenuto di piombo. Brividi, febbre a quaranta, arrivo di corsa della dottoressa, diagnosi: broncopolmonite.
Il suo letto viene spostato a pianterreno, tra i mobili della sontuosa sala da pranzo appena ereditata dal nonno, scomparso ad Auschwitz. Di giorno, al piano superiore, rimane la nonna che viene di quando in quando a controllare come sta. Per il resto del tempo rimane sospesa in un torpido dormiveglia che confonde il dentro e il fuori, il prima e il poi. Quando sta meglio, scende da lei il fratello e insieme costruiscono, sul grande tavolo da pranzo, una città fatta di carte da gioco. Come se avvertissero il clima di ricostruzione che li circonda, vorrebbero fosse stabile e duratura ma inesorabilmente quei precari edifici crollano lasciando uno sparpaglio di cuori, quadri, fiori e picche. Forse annunciano il loro destino, ma nessuno li vuole interpretare.
Nel primo dopoguerra, per bambini ...