Infinita commedia
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Infinita commedia

  1. 386 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Infinita commedia

Informazioni su questo libro

Dal marciapiede, all'angolo tra corso Buenos Aires e piazzale Loreto, due senzatetto osservano l'affannata umanità che passa loro davanti. Moses, il più vecchio, è un ex bibliotecario; Camerata, il suo compagno, un tempo è stato uno scrittore di grande fama. Entrambi hanno un conto in sospeso con il passato e fantasmi più o meno morti: seminaristi plagiati, vecchi solitari, ragazzine smarrite, kebabbari e prostitute, un universo di dimenticati che ogni giorno si riunisce al bar Number One per il rito dell'Ora Felice. Ma quando il loro barista di fiducia si impicca nel retrobottega la routine si spezza: l'uomo è l'ennesima vittima della misteriosa epidemia di suicidi che sta contaminando Milano e l'Italia intera. L'unico modo per fare luce sulla faccenda è immergersi nel sottosuolo metropolitano che Moses e Camerata conoscono bene, fatto di miracoli e allucinazioni, dove tra culti pagani e fumi del peyote è possibile scorgere lo spettro di Mussolini e seguire Dostoevskij per le strade di Pietroburgo. Che forse non è Pietroburgo, ma solo piazzale Loreto, il luogo in cui tutte le storie si incontrano alla ricerca di un senso. Ferruccio Parazzoli ci conduce in un viaggio esistenziale tra i gironi di una Milano senza tempo, consegnandoci una commedia umana del quotidiano in cui gli ultimi e la strada sono i veri protagonisti.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
Print ISBN
9788817083072
eBook ISBN
9788858682050

MOSES

Dal marciapiede

Sì lunga tratta di gente, ch’io non averei creduto – diceva a suo modo il mio predecessore all’Inferno nel libro che finì a fuoco con gli altri tremilacinquecentocinquanta volumi della mia Biblioteca Circolante. Neppure io – io, Moses – lo avrei mai creduto di vedermi sfilare davanti così lunga processione di anime a cominciare da quella di costui che mi sta più vicino, steso qui accanto a me sul marciapiede e al quale ho dato nome di Camerata. Io, Moses, la mia decisione l’ho presa. A lui, Camerata, mancava una sola decisione da prendere prima che venisse a chiedermi ospitalità sotto la vetrina della Chicco.

L’Acchiappamosche

Mi restava una sola decisione da prendere: o mi sarei ucciso o l’avrei ucciso. Ma non era una decisione urgente, non avevo fretta. Rimandare l’una o l’altra esecuzione mi aiutava a valutare i fatti ora in una luce, ora nell’altra, così come la stanza, che conosciamo in ogni particolare – il piccolo Buddha dorato, made in China, sei centesimi al Continental Market di viale Monza, l’edizione degli Ossessi, Foligno 1928, terzo ripiano scaffale Alfa (tutti gli scaffali sono indicati con una lettera dell’alfabeto greco fino all’Omega, e ritorno) –, la stanza barricata all’ottavo piano – “Vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori”– cambia di aspetto appoggiando il palmo aperto della mano ora su un occhio, ora su un altro. Nulla è mutato, né in noi né in ciò che ci circonda, eppure l’intera stanza, con la sua storia colmata, nel tempo, dai detriti della nostra vita – e quelli invisibili, fantomatici di chi ci ha preceduto, addormentati dietro la carta da parati – assume un significato completamente diverso pur restando la medesima stanza e la medesima storia che ripassavo mentalmente ogni giorno, ora rinarrandomela alla luce del suicidio, ora a quella dell’omicidio. Ma se, a conclusione della storia, la denominazione di suicidio calzava perfettamente, non così quella di omicidio, che rimandava a un atto di violenza o, almeno, sicuramente, a un atto di passione. Ma in me non era rimasta alcuna traccia di passione. No, se avessi deciso di uccidere, non sarebbe stata alcuna forma di passione a muovermi ma soltanto la scelta del migliore finale. Di finali sono esperto, assai più che degli incipit, sempre ingannevoli, la frase con cui ho chiuso ognuno dei miei sedici romanzi, l’atteso addio che ogni mio lettore era ansioso di scoprire, l’estrema emozione contenuta nelle ultime righe dell’ultima pagina.
Ma veniamo a noi.
Se non avete mai visto due barboni stesi l’uno accanto all’altro sullo stesso gradino di marciapiede, passate per corso Buenos Aires, come so che fate ogni giorno – riconosco i vostri piedi – e li vedrete. Io e Moses, accovacciati tra i nostri stracci sotto la vetrina della Chicco, articoli per bambini. Moses, se abitate il Quartiere, lo conoscete già, me invece no, non potreste in alcun modo riconoscermi anche se abitavo anch’io, come voi, il Quartiere, un appartamento di centocinquanta metri quadri all’ottavo piano del numero 1 di piazzale Loreto, edificio emarginato rispetto alla piazza.
Avevo una terrazza da cui contemplavo la Stazione Centrale, presenza mitica, necessaria a definire la natura del luogo e dell’aria, l’odore di delitto del piazzale, l’aria bianca e nera che soffia dalle arcate e dalle latebre sotterranee della Cattedrale.
È un vecchio scherzo che facevo agli ospiti, sospingendoli sulla terrazza, il gambo dell’aperitivo tra le dita ormai artritiche. «Attenti» dicevo, «attenti, tira vento quassù, angeli, schiere di angeli neri e bianchi, giù le teste, passano radenti.»
Ridevano, come tartarughe ritiravano la testa nei colletti, le signore rientravano smarrite, non temevano gli angeli, temevano me.
«Via, care» le confortava mia moglie. «Che dovrei dire io che lo sento parlare tutto il giorno con i fantasmi? Sapete, è uno scrittore.»
Non lo ero già più, ma lei non lo sapeva. Anche se era vero che venivano a trovarmi scivolando in silenziosa processione da dietro la tappezzeria, altri non erano se non i personaggi mai vissuti nell’unica storia che avrei voluto scrivere e mai avevo scritto, Le Tre Torri, in cui per tre volte avrei visitato la sedicesima carta dell’Arcano Maggiore, seguita due volte dalla tredicesima carta, la Morte, conosciuta anche come l’Arcano senza nome, unica carta che può essere contrassegnata solamente con il numero tredici. A mio modo, i cinque personaggi di ognuna delle cinque carte, li avevo nominati Dèmoni – daimones – ma di essi non voglio neppure fare i nomi.
Ma avevo già chiuso quando giocai con mio padre l’ennesima partita del nostro gioco. Non avevo dubbi che fosse lui quando, come gli altri fantomatici ospiti, uscì da dietro il gigantesco manoscritto rilegato in tela nera, archiviato sotto la lettera Omega, avendo settoriata l’intera biblioteca, come ho detto, secondo le lettere dell’alfabeto greco.
Era lui: mio padre. Come suo solito, doveva avere la rivoltella in tasca perché vi teneva sopra la mano destra aperta. Di Torri di Babele e di Arcani ne doveva sapere qualcosa anche lui. Anche lui aveva la sua Torre che, in verità, era solo una torretta sopra il solaio di casa dove era solito salire con la pistola in tasca. Mio padre era davvero uno scrittore. Aveva scritto un libro di 1554 pagine, Shaul, la storia dell’apostolo Paolo, che nessun editore volle mai pubblicare. Mio padre non mi invitò mai a leggerlo né io glielo chiesi mai.
Sono certo che nessuno mai lo lesse eccetto mia madre, donna di umile cultura, che, fino alla morte di mio padre, e poi fino alla sua, si dovette chiedere cosa mio padre avesse voluto dire con quel libro gigantesco su cui aveva consumato la sua vita fino all’evento che lo capovolse in un furibondo scultore di due sole opere, fatto che io, quando lo racconto, chiamo la sua conversione.
Il gigantesco Shaul lo lessi solo alla sua morte, e solo in parte. L’inizio era conforme alla leggenda narrata, non so bene dove, con Paolo, Shaul, che regge i mantelli dei lapidatori di Stefano. Ma era alla scena della conversione di Shaul che le cose cambiavano perché quando vide la luce e udì la voce, Shaul, invece di cadere da cavallo, come vuole la tradizione, si aggrappa alla criniera e grida: «Se credi con questi trucchi di buttarmi a terra, ti sbagli, chiunque tu sia! Non avrei più rispetto di me stesso se cadessi nella polvere». A questo punto smisi anch’io di leggerlo, come di certo dovette fare ogni editore al quale mio padre lo presentò.
Usciva, appunto, in quel momento, da dietro il tomo delle sue 1554 pagine che aveva fatto rilegare in tela nera con incisioni in argento. Non avevo mai parlato molto con mio padre se non nel gioco assurdo che lui chiamava “acchiappamosche”, al quale gli piaceva sfidare i suoi pochi amici e, quando fui in grado di parteciparvi, anche me. Era una specie di corsa su un filo sospeso nel vuoto. Doveva essere il rischio di precipitare quello che piaceva a mio padre. Così, ogni qual volta sgusciava da dietro il Shaul, riprendevamo il gioco che avevamo improvvisamente interrotto nell’ultimo anno della sua vita, quello che io chiamo della sua conversione.
«Tu puoi rispondere oppure no. Questa è la formula.»
«Finché rispondo la mosca vivrà. Questa è la formula.»
«Se non rispondi la mosca morirà. Questa è la formula.»
Così, sempre, aveva inizio il gioco – la rivoltella in tasca.
«Osservi costantemente quanto avviene attorno a te?»
«Osservo ininterrottamente.»
«Sapresti dirmi con esattezza il numero delle persone che in questo momento si trovano sulla piazza sotto di noi?»
«Milleduecentoquarantasette.»
«Ti capita di ricordare i tuoi sogni?»
«Con precisione. Come adesso. Sto infatti sognando di essere qui, insieme con te che mi stai chiedendo se ricordo i sogni che faccio.»
«Il tuo ultimo libro parlava di sesso?»
«Di sesso? Be’, non proprio, a parte quella scena in cui c’è la prostituta che entra in un bar e sbatte le tette sul bancone, poi esce, e la ritrovano ubriaca e violentata.»
«Il sesso no. E la morte?»
«La morte mai.»
«Sei vegetariano?»
«Mangio carne. Mai il cervello, però.»
«Perché no il cervello?»
«Il cervello è tabù.»
«Avrei diverse storie da raccontarti, se ti interessano.»
«Non faccio più lo scrittore.»
«Vuoi fare Dio?»
«…»
«Ecco, la mosca è morta.»
A questo punto mio padre esplodeva nella tempestosa risata che teneva in serbo per l’inevitabile fine del gioco.

Su un mare da naufragio

Il mio nome è Moses. Naturalmente non è questo il mio vero nome ma, poiché ho desiderato per tutta la vita di essere ebreo, sono conosciuto nel Quartiere con il nome di Moses. La mia occupazione, dopo l’incendio della Biblioteca Circolante di via Paganini – di cui raccontai altra volta e che tutti nel Quartiere ricordano – è osservare la gente che passa stando seduto sul marciapiede di corso Buenos Aires sotto la vetrina della Chicco, articoli per bambini. Si trattava di una biblioteca circolante, forse l’ultima esistente in tutta Milano, un solo locale con le pareti coperte da scaffali di metallo. I libri più vecchi, rilegati in cartoncino verde, li rilegavo io stesso.
Se vi chiedete come faccio a conoscere tutto ciò che conosco, la risposta è semplice: non lo conosco. Archivio ogni cosa nella mia testa, compendio, riordino.
Come un tempo conservavo carta stracciata delle vite degli altri, io, archivista intisichito, smorto, frusto d’abiti, di cuore, di corpo e di cervello, vice-vice bibliotecario di me stesso, appartenente a quella classe disperata e ingiallita – come ben disse il mio omonimo di un tempo, ramazzatore di estratti cartacei, come io, ora, di vite altrui – che nessun vino al mondo riscalderà mai ma con cui talvolta una persona ama sedersi e, anche se avvilita, diventar gioviale tra le lacrime – io, vice-vice bibliotecario, così come raccolsi ogni straccia allusione a esistenze inchiostrate su carta, ora riferisco di persone presenti o passate nell’eterno, ma sempre presenti nel tormento umano, apro i murales delle loro vite, li espongo qui, dinanzi a voi, tutti riflessi nel mio unico occhio, da quando l’altro bruciò fritto, quest’occhio che qui vedete acceso nella mia faccia bruciata, come braccio luminoso di faro che illumina e abbuia e illumina scoprendo sull’orizzonte le rotte delle navi in fuga dai naufragi.
Mi sorprendo talvolta a cercare un nesso, un filo qualunque che unisca tra loro le storie che vado raccogliendo nel mio archivio segreto ma, per quanto mi sforzi, non lo trovo. Mi consolo pensando che neppure Dio, se esistesse, lo troverebbe. Del resto, che importa? Solo i romanzieri si illudono, o fingono, che esso ci sia. È chiaro, invece, che non c’è, come sa bene costui che da qualche tempo mi ha chiesto il permesso di stendersi accanto a me sotto le vetrine della Chicco. Giura che ormai, dopo avere trovato la soluzione al quesito della scelta tra omicidio e suicidio, solo due libri scriverà ancora: la vita di Buddha Illuminato e la ricostruzione a memoria degli Ossessi di Dostoevskij. Non sa quando, forse mai: bastando pensarle, le storie, in ogni loro sconcertante particolare, non c’è alcun bisogno di riportarle sulla carta. E per chi, poi?
Provate per un istante a guardare dalla vostra finestra tutta quella gente che passa, quelle macchine che corrono via, quegli autobus gialli, i taxi, le ambulanze che spaccano il traffico, le volanti della polizia che non si sa mai dove vadano. Ditemi voi: che nesso c’è in quello che state vedendo? Che filo tiene unita tutta quella gente, quale conclusione razionale e bene ordinata può avere mai tutto questo?
Sul marciapiede di corso Buenos Aires sotto la vetrina della Chicco.
Sul marciapiede di corso Buenos Aires sotto la vetrina della Chicco.
Non c’è più bisogno di un Estensore come fu un tempo, un dio minore che racconta credendosi onnisciente, fantoccio del dio maggiore – no, non più, niente più Estensori, come questo che si è steso accanto a me, sono morti, le storie della vita si raccontano da sole, appaiono e scompaiono, insieme ai corpi che le hanno emesse. Gli Estensori sono morti, adesso ci sono io, Moses, sdraiato davanti alla Chicco, e il mio occhio fritto. Faccio parte della scena, non riordino, ammucchio, lascio vivere, lascio parlare, come quando piove qui, corso Buenos Aires, Milano, che si ingorgano i tombini e c’è rigurgito di acque che ti bagnano i piedi, non puoi ignorare le acque, poi scorrono via, chi le vede più – dove sono i Navigli, l’Olona, scorre la Martesana in memoria dei bambini bruciati a Gorla –, solo barattoli che rotolano, fazzoletti insanguinati di pizza al trancio, plastiche scoppiate. Come scrisse quel tizio che non ricordo chi fosse, in un libro che non ricordo quale fosse, bruciato anche lui insieme con gli altri tremilacinquecento libri, l’attorcersi dell’onda alta del tempo, i graffiti e le insegne commerciali, i mostri ridenti sulle pareti del metrò, vedendo la vita della città nel suo intero – proprio così disse – e a un tempo con microscopica minuzia, compattando insieme a forza – io, invece, non compatto niente: storie come paranze, come vascelli, come galeoni su un mare da naufragio – un portale aperto alla coscienza collettiva, picco vorticoso e affastellato di immagini, tuffandosi nelle vetrine dei negozi o lungo una strada tranquilla per cogliere un’altra manciata di vita, ma, soprattutto, riferisco esattamente dalla memoria dove sta tuttora impresso.
Esattamente, si fa per dire: una versione densa e sognante di quello zoo che è tutta la vita umana, un recinto in cui un certo numero di individui non particolarmente immaginosi o visionari possono collettivamente inseguire un grande, visionario risultato di massa, vivendo le loro belle, ordinarie, pazze vite in continuità l’uno con l’altro.
Una cosa pressappoco così.
Una versione densa e sognante di quello zoo che è tutta la vita umana.
Una versione densa e sognante di quello zoo che è tutta la vita umana.

Il Valzer del Missouri

«Se a te uscivano visite dalla carta da parati, a parte il papà con la rivoltella in tasca, che preferiva venir fuori dal suo Shaul, a me, qui, steso sul marciapiede, viene davanti – puntuale alle cinque della sera, all’ora delle Ore Felici al Number One – l’immagine di Misticanza, viva come non fosse mai morto, morto come fosse sempre vivo» dico io, Moses, a Camerata che mi siede al fianco, tra coperte e fagotti, sul marciapiede di corso Buenos Aires sotto la vetrina della Chicco. La sensazione che ci sia un fiume sotterraneo, ininterrotto, che ci sia un fiume sotterraneo che scorre al di sotto del clamore e del caos della strada, che si debba, come io e il mio collega facciamo, stendersi sull’asfalto per poterne cogliere la voce.
Là dietro le case, via Stradivari poi a destra, ma sull’altro marciapiede, viale Abruzzi 68, la casa di due piani con mezzanino buio e la saracinesca del centro massaggi nell’interrato, da allora abbassata, da allora quando ci si chiuse in meditazione il professor Misticanza dopo i convegni al Number One, come può dirti Igino – Igino che adesso fa il sacrestano al Redentore, sì, proprio lui, quello che ci permette di andare a pisciare nel cesso dell’oratorio – dove partecipavo anch’io – io, Moses – che già avevo un occhio fritto dopo l’incendio di via Paganini, ma mia moglie faceva ancora la torta di patate. Se n’è andata troppo presto e da allora più nessuno mi ha fatto la torta di patate. Andavo pazzo per la torta di patate con dentro la mozzarella che fila quando la togli dal microonde. Poiché non conoscete la vita, avete continuamente bisogno di morte e di sangue. Ci sono stati anche quelli, e chi non lo sa? Ma un tempo la vita era la torta di patate con dentro la mozzarella. Nient’altro che questo. È difficile da mandarne giù la mancanza, ne vorrei ancora, ne vorreste ancora anche voi, ma per adesso è così.
E mettiamo pure le cose in chiaro. Piazzale Loreto, diciamo, e dintorni anche, un centinaio, due centinaia di metri più giù, mica di più, l’imbocco di viale Brianza, Abruzzi, Buenos Aires, fino a Lima, via Paganini, certo, viale Monza no, solo in parte, Porpora no, solo in parte, fino alla bottega del calzolaio con il Big Ben esposto in vetrina insieme con le scarpine di ceramica dipinta – uno stanzino buio, diviso a metà da uno scomparto di compensato e il calzolaio, uomo grassoccio di mezza età, stava dietro lo scomparto, da dove guardava fuori attraverso una finestrella. Le pareti erano ricoperte di cartoline illustrate e, su una mensola, c’era la gabbia di un merlo che, però, non fischiava mai. Alle otto del mattino lui, il calzolaio, era già lì, anche d’inverno, dietro la finestrella dello scomparto, con la sua lampadina accesa.
Andrea Costa niente, via Padova sì, tutta, fino al sottopasso della ferrovia – mi conoscevano in tanti, naturale, la cosa non meraviglia. Sconosciuti mi salutavano per strada con un cenno del capo, mi sbirciavano da dietro come volessero scoprir...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. MOSES
  5. PEYOTE
  6. LA TENDA GIALLA
  7. STREAMS
  8. LA MOSCA
  9. MAELSTRØM
  10. BAIRES