Tre
Il tuo casco è una dichiarazione esplicita. Così credo, pensiamo in tanti. Sole e Luna. Gialli e arancioni; blu notte, blu scuro. Sono una infinità le declinazioni del disegno originale, artistici e curiosi i ghirigori, la grafica di Aldo Drudi a interpretare una costante tassativa, abbinata ad altre. Il 46 per cominciare, che è il tuo numero da quando eri alto così, ereditato da Graziano; il giallo un po’ ovunque, la scritta sul sedere “The Doctor” che pare un’allusione ai caratteri del pongo, il cane Guido e poi i cani, due, gli adesivi da applicare con una cura maniacale nell’ombra dei tuoi box. È un sistema di segni caratteristico e immutabile anche questo, s’intende. Sì ma il casco, quella scelta delle due metà, conta molto, conta di più.
Il sole: be’, illumina e schiarisce, rende semplice la comprensione, evidente il significato. Luce per uscire a giocare, la luce di un sorriso, di uno sghignazzo, la voglia di correre, di mostrare un abito, un comportamento, una esuberanza scatenata. Il sole emana ciò che tutti vediamo, da anni. È un sole amico, caldissimo, sotto il quale stiamo, insieme a te, con il bisogno di inforcare gli occhiali scuri talvolta, tanto è forte il riverbero, il riflesso di un lampo.
Il sole è allegria, vacanza, estate. Cappellini con la visiera, birrette, ragazze e motori. È il piacere di aprire il gas, tenerlo spalancato, prendere la corda, battersi, guadagnare un vantaggio, lottare metro su metro. Roba buona per tutti, possiamo tentare di farlo ogni tanto pure noi con una Vespa, una Triumph, una vecchia Kawasaki, il cui suono squarcia una via, la piazza, il pomeriggio.
La luna: ecco, un attimo.
Notte. È, prima ancora, un’ombra che si allunga e scompare. La marchi, si stira insieme al tramonto, è un capitolo nuovo, a sé stante, si infila in un silenzio adesso, bisogna fare piano. Buio vagamente illuminato, magicamente rischiarato. La dimensione propizia a una confidenza, una confessione, un gesto piccolo ma mirato, da far giungere a una destinazione unica, precisa.
Con la luna, la notte si libera degli odori, dei sudori, disperde i resti del giorno, riesuma ciò che le appartiene. Altre ombre, riflessioni più acute, rifinite e nette. Solo che non lo si vede, lo si intuisce soltanto, e qualche volta. Sotto la luce della luna sono diversi i movimenti, meno disposti a essere dichiarati, figuriamoci a essere commentati.
Non sappiamo il tuo senso, i significati precisi. Ma sono tratti evidenti, che vediamo da quando ti osserviamo. Dipinti sull’elmo, un simbolo a sua volta, l’attrezzo più esplicito di ogni guerriero, ciò che cela il viso, le espressioni, le emozioni. La visiera diventa una patina scura, plastificata, così come un tempo l’armatura si faceva maschera. Una maschera da guerra, impressionante e distintiva.
A furia di girare il mondo, girare in tondo, non ci faccio più caso. Ma se isolo il tuo casco, quell’immagine incisa, modificata in continuazione ma identica a se stessa, mi accorgo di avere a che fare con un segno singolarissimo e significante. Un atto chiaro, un avviso. L’annuncio di una condizione. Un accenno di ammissione. Se ci penso, mi dico: per forza. Sono diverse le tue parti, sintetizzate e divise in due. Da un lato ciò che sta in piazza, in piena vista, il tuo modo di camminare, di comunicare, il carattere del campione, l’esternazione del talento, di un giramento di balle, di una soddisfazione. Valentino Rossi per quello che offre, condivide, decide di esporre e concedere. In pubblico, sotto la luce di quel sole caldo.
Il resto sta nella luna, riguarda una sfera della quale nulla o quasi sappiamo, perché abbiamo già a disposizione sin troppo dall’altra metà. Una riservatezza altrettanto potente, esattamente contrapposta, che induce domande più timide ma non comporta per forza risposte. Interpretazioni, piuttosto, e non sempre. Un altro Valentino, dunque, direi. Che maneggia sentimenti comunque intensi ma niente affatto divulgabili. Che tiene per sé un dubbio, una fatica, un dolore o una gioia estranea a quelle che saltano fuori da un podio, da un paddock, da una intervista.
È così, caro Vale? Talvolta ho il sospetto che non ti conosciamo affatto. O, meglio, che conosciamo solo una parte, pur vasta, generosa, assai diversa da quell’altra. Quella che muove una persona assai riservata – appunto – con le sue debolezze, una serie di incertezze, qualche punto più fragile di altri. Nascosta, salvo rarissimi incidenti di percorso.
In pista fate la guerra, del resto, voialtri. A questo siete allenati, sin da bambini. È una scelta che determina una condizione. In lotta, dalla mattina alla sera, presi a scovare punti deboli altrui, a fare perno sulle proprie armi per apparire solidissimi, per proteggervi e attaccare. La divisa è un’armatura, a forma di tuta, con le sue protezioni, i guanti, gli stivali. Pronti sempre, guai a mollare, a rinunciare, pena la gogna, la vergogna. Oh, sì, uomini contro. Alla faccia delle strette di mano, delle frasi di circostanza, dei gesti cavallereschi, da concedere soltanto a giochi fatti.
Buona parte del fascino emanato dai piloti sta in questa immagine obbligata. Casco chiuso. L’armatura cela un livido, una ferita, una smorfia di dolore, un presentimento allarmante. Ogni sembianza umana, accostabile alla nostra, viene preclusa. Per lasciare campo libero all’immagine dell’eroe. Combattenti ai quali richiedere prove di forza, mosse micidiali, slanci fenomenali. Chi sbaglia perde e paga. Nessuna indulgenza, nemmeno una deroga. Il conto arriva all’istante ed è sempre salato. Per questo resto sulla griglia di partenza più che posso. Rimango a osservare una prodigiosa trasformazione, qualcosa che in pochi istanti spazza via ogni chiacchiera, rende ingombranti gli invitati, riduce a presenze trascurabili quelle ragazze con l’ombrellino – che pure altrove come lì, sino a un attimo prima, rubano spicchi ampi di scena, svestite come sono, una cosa da belle statuine, donne e motori, quelle scemenze lì, un po’ troppo maschiliste, persino antiquate. Tette e culi, come ripeteva Lenny Bruce. Gambe, tette e culi, assorbiti da una mastodontica liposuzione mentre compaiono i nervi tesi lungo il collo. Aria fritta: terminata, stop. C’è solo un percussionista a suonare un timpano gigante, il ritmo è crescente, il cuore gli va dietro.
Questo modo di guardarti, di guardare tutti voi piloti, contiene un meccanismo potentissimo e antico, ciò che ha determinato un mito solido, il mito più rappresentativo del Novecento, che poi è un secolo di un’ora fa, vicinissimo, quello che ha messo al mondo la maggioranza di noi. La meccanica come dinamite, macchine e moto come esplosioni, fuochi artificiali. Strumenti mai visti prima, boati mai uditi, a squarciare un paesaggio silente, fatto di aratri trainati da buoi. Cavalli meccanici al posto dei cavalli con la coda, gli zoccoli e le zampe. Mostri mai visti, soltanto immaginati, e poi apparsi all’improvviso, in transito a un metro, a un passo da noi. Mostri dominati da uomini speciali, destinati a stupirci pure loro, capaci di compiere imprese assurde, pazzesche, memorabili. Pronti a trasformarsi, appunto, una volta abbracciato un volante, inforcata una motocicletta, indossati gli strumenti del mestiere. Caschi e tute per carrozzerie e carene: una dimensione a sé stante, roba da circo, da meraviglia.
Abbiamo imparato a guidare anche noi. Abbiamo capito che auto e moto avrebbero assunto forme più docili, accessibili a tutti. Ma è rimasta, ci mancherebbe, una frontiera riservata a voi soli, dove i limiti si spostano continuamente dentro una spirale iperbolica, iperveloce, fatta di potenze scovate chissà come, di forme aerodinamiche inedite, di prestazioni riservate a una élite. Come se avessimo bisogno di vedervi consegnati in un altrove. Piloti come astronauti, come esseri superiori, preparati a combattere, per giunta, in una stratosfera spettacolare. Così siete, così state. Il destino ha regole rigide. Nel vostro c’è un’attitudine protratta a mostrare punti di resistenza estremi, c’è un obbligo gladiatorio. Guai e dichiarare una linea di febbre, una emozione improvvisa. Ciò che potremmo decifrare all’istante come un sentimento comune e che invece non è ammesso, nemmeno tollerato, perché una volta scelta la guerra, diventi un guerriero, con l’obbligo di lottare. Niente paura, impossibile voltarsi e fuggire. La paura è cosa nostra, non vostra. E facciamo finta un po’ tutti che non si possa cambiare ruolo mai e poi mai.
Dicesti un giorno: «Ma no, la paura la sento, mi serve, mi consiglia, mi impedisce di fare una cazzata, in qualche maniera mi trattiene». Per questo, soprattutto, quella luna sul casco è preziosa. Ci ricorda che non è tutto lì, in bella vista, non è solo così. Che sotto quell’elmo c’è una persona, un essere umano complicato e complesso, il quale ha bisogno della propria ombra per mostrarsi in piena luce. Un eroe meno decifrabile e proprio per questo più esplicito, più forte.
Tra il sole e la luna ho immaginato esista un confine, una striscia sottile occupata dalla ferocia. Ferocia agonistica. Viene fuori al sole ma nasce dalla parte più scura, la parte lunare. Questo qui è uno spettacolo a parte che riguarda soltanto i campioni, non tutti, peraltro. Campioni di prima fascia, campioni scelti.
Ormai ho molti anni eppure l’ho colta di rado, impressionato e ammirato al tempo stesso. Era feroce Ayrton Senna, trasportato da una voracità indispensabile, dentro la quale doveva incontrare una parte essenziale di se stesso. Era feroce Michael Schumacher, incalzato da una fame perenne, dalla percezione di una povertà sempre in agguato. Sei feroce tu, spinto a oltranza da una furia che non farebbe un solo prigioniero. La ferocia di un predatore che moltiplica ogni sforzo quando sente vicina la preda.
Sto parlando di una dimostrazione di forza. Forza pura, persino bruta. La posseggono molti atleti, parecchi piloti. Il fatto è che servono gli strumenti adatti per dare sfogo. E queste armi, diciamo così, mica tutti le possiedono. Servono artigli affilati, servono riflessi esagerati, serve dirsi qualche parola segreta che funzioni da stimolo efficace, anche quando tutto pare perduto, quando c’è in palio soltanto un panino, quando la fatica consiglia di piantarla, quando arriva un altro pensiero felice o cattivo, una minima distrazione o magari quando arriva un successo e, insieme, l’autorizzazione a sedersi un minuto. Questa la differenza. Non ti siedi, non credo che tu l’abbia mai fatto. Come se si trattasse di provarci per la prima volta anche se ci hai provato un numero di volte interminabile. Una gara da vincere a ogni costo, trattata alla stregua di una prima gara. Necessità di dimostrare qualcosa di inedito, mai visto prima. A chi? A te stesso, immagino soprattutto. Noi cogliamo soltanto i frutti, il bilancio di questo consumo.
Credo che lo spettacolo della vera ferocia agonistica venga generato da qualche avvenimento antico e misterioso. Innescato e poi allevato nella tua ombra, nella tua luna. Sino a trasformarlo in una costante, una specie di droga, un pane quotidiano. È il tratto che determina ogni differenza e scatena un’attrazione da tifo, da affezione definitiva. Per me senza dubbio, per molti di noi sono certo. La certezza, a furia di prove del nove, di avere a che fare con una bestia irriducibile, una capacità smisurata. Con una persona che ci somiglia nelle sembianze e poi più: d’incanto si catapulta nella sua dimensione per comporre una sequenza di atti, di fatti senza confronti, paragoni. Senza prezzo.
Il problema si fa complesso per chi ti corre contro. Per chi, mannaggia la malora, becca in carriera uno così. Uno come te.
Uno come Juan Manuel Fangio. Come Jim Clark. Come Senna o Schumacher. Una rogna, una bella bega, come dici tu.
Max Biaggi è stato il primo, mi sa, preso di petto e di mira. Ho sempre pensato che debba aver commesso un errore in partenza, trattandoti male – mi spiegarono anni fa – quando ti presentasti ancora ragazzino mentre lui era già un personaggio, un campione, una star. Roba da laccio al dito. Stretto e definitivo. Che si trattasse di una allergia ormai in circolo, venne fuori presto con quella Claudia Schiffer a forma di bambola gonfiabile, uno sfottò dichiarato visto che Biaggi vagheggiava una relazione con Naomi Campbell, celeberrima fotomodella. Tiè, beccati questa, tanto per cominciare. Mi faccio la Skiffer.
Le traiettorie erano convergenti, del resto, tracciavano una rotta di collisione, punto di contatto classe 500, l’ultimo anno prima del varo della MotoGP, 2001. L’anno del tuo primo titolo nella massima categoria.
Gli episodi, sempre eclatanti. Una specie di gomitata in pieno rettilineo, replicata con il dito alzato poco più tardi, un “vaffa” esplicito e clamoroso, in Giappone. Quindi, una specie di scazzottata a Barcellona, salendo verso il podio con troppa gente attorno, seguita da una specie di pace, di quelle un po’ finte messe in piedi per calmare acque troppo agitate. Poi, ancora, nel 2002, in Inghilterra, quando avevi tagliato per primo il traguardo e Biaggi passò sfiorandoti, velocissimo, a giochi fatti. Commento, in diretta tv: «È solito fare queste stronzate, evidentemente gli tira il culo arrivar dietro tutte le domeniche».
Quando hai un sassolino da cavare, fuori le narici si dilatano, il volto prende una piega da stizza, segnata dalla voglia di dar via una sberla, un cazzotto, non so. Qualcosa da condensare in poche parole che alludono a molte altre. Sono attimi che riassumono da una parte la consapevolezza della propria tempra e dall’altra una insofferenza profonda. Il sale, in sostanza, del duello; la pretesa di togliere di mezzo ogni disturbo, ogni altro attore presente nel copione, soprattutto se l’altro pare ingombrante, dotato di fama, seguito e talento.
Ci vuole un unico protagonista, ecco, il cui ruolo va ribadito in via definitiva.
Fu una stagione a due lunga e intensa. Molto più intensa nelle chiacchiere, nelle discussioni, piuttosto che in pista. Biaggi, romano, tu marchigiano. Biaggi nato nel 1971, tu nel 1979. Otto anni, in generale, nello sport in particolare, sono quasi un abisso. Segnano una differenza che supera ogni radice geografica. Il problema era che, nel momento in cui compariva l’argomento, comparivano gli schieramenti. Ancora oggi, che oramai la polemica non ha più motivo di esistere, ogni opinione assume pesi esagerati, deve per forza cementare un bastione armato, opposto a un altro, come se non fosse possibile apprezzare l’uno senza denigrare l’altro, fare il tifo per questo senza gufare quello. I dualismi, del resto, vanno avanti così. Destra o sinistra, in mezzo poco o niente.
Biaggi era stato il solo potenziale alter ego, del resto, per un bel po’. Aveva vinto quattro Mondiali nella 250, si preparava a un nuovo capitolo della carriera, possibilmente altrettanto felice, sprovvisto di concorrenza almeno qui, nella passione italiana. Non serve un genio per immaginare l’inquietudine e poi lo sgomento nel trovarsi, al fianco e di fronte, un ragazzino come te. Così dotato, scaltro, spudorato e vincente. D’altro canto, non poteva che essere lui, Biaggi, il tuo primo obiettivo. Il riferimento obbligato e quindi, il nemico numero uno.
Abbiamo imparato che i campioni si comportano come i leoni. Capobranco. Individuano immediatamente un possibile rivale, è una questione di odore. Naso. Istinto. È qualcosa che ho potuto osservare più volte. Sul volto e nei gesti di Nelson Piquet quando comparve Ayrton Senna; sul volto e nei gesti di Senna quando comparve Schumacher; sul volto e nei gesti di Fernando Alonso quando comparve Lewis Ginetto Hamilton. Biaggi? Me lo immagino, lo vedemmo. In quel caso e in aggiunta, due persone per qualche verso opposte, nei modi di apparire più che nel modo di sentire davvero.
Nel punzecchiarvi a motori spenti e nel combattere a gas aperto emergeva sempre un diverbio più oscuro di quanto apparisse. Come se entrambi conosceste qualcosa dell’altro, uno triangolo d’ombra, un segreto scabroso, indicibile, ma al quale alludere vagamente, a titolo di avvertimento. Abbastanza per creare due fronti che non mollano ancora adesso, che agitano i blog, il web, chi francamente ha ben poco da fare, come se il tema fosse sempre attuale, una cosa da ultrà, spesso un po’ ottusa, incapace di un ragionamento pacato, anche di fronte a una valanga di risultati, al rispetto dovuto a entrambi. Perché, insomma, è possibile dare a te ciò che è tuo ed è moltissimo, dando a Biaggi ciò che è suo ed è tanto comunque. A cominciare dal fatto di esserci e soprattutto, di esserci stato, perché la statura dei campioni, prende forma in funzione degli avversari.
Per me, per molti di noi, il capitolo chiave è datato 2004, Sudafrica, prima gara della stagione. Una prima in tutti in sensi. Dal calendario alle moto, Yamaha per te, Honda per lui, un esordio per entrambi. Vincesti e fu – credo – uno dei giorni più radiosi, tra i tanti bellissimi che hai avuto e ci hai dato. Una specie di apoteosi, la chiusura di una ennesima diatriba. Valentino fa miracoli, pensammo, indipendentemente dalla moto che usa.
Fu una corsa a due, come succede nelle grandi occasioni, e fu Biaggi il tuo doppio, il tuo partner, il tuo specchio. Battuto ma presente, accanito, efficace. Il vero metro per misurare quel tuo capolavoro. Dunque, un confronto simbolico. Utile, spero, per ciascuno di noi, te compreso, allo scopo di rendere omaggio, riconoscenza compresa, a un vero campione, la cui amarezza possiamo accogliere e immaginare con una umanità svincolata da ogni partigianeria.
Ho sempre pensato che Biaggi nascondesse a fatica le proprie ferite. Segni che incide la vita, la storia personale, che determinano comportamenti non sempre semplici da comprendere e catalogare, come se fossero minutaglie ininfluenti. Così sper...