Le storie di Vanessa
Ed eccole, le mie piccole
e grandi storie.
Il mio nome, Vanessa, significa
farfalla, ed è curioso, ho sempre
voluto volare.
Barcellona, 3 luglio 2014
Isal e mia madre erano usciti per fare una passeggiata nel parco. Chissà quando sarebbero tornati, funzionava sempre così con lei. Diceva che andavano a fare un giretto, al massimo a mangiare un gelato, che sarebbero tornati presto, ma non succedeva mai! Nonna e nipote insieme erano micidiali, si perdevano non si sa dove, di certo dietro a ogni capriccio di entrambi, non solo del piccolino, ma anche della nonna sempre fantasiosa e superenergica. Spesso salivano su un autobus a caso, si fermavano a fare merenda in qualche pasticceria o andavano a zonzo per le strade di Barcellona, con la mamma che intanto spiegava, o inventava, cosa era successo in quel tal edificio o in quella piazza dove si trovavano a passare.
Io avevo deciso di prendermela comoda e riposare un po’. Certo, da fare ce n’era… Potevo buttarmi nella vita di Barcellona o fare un giro nel bellissimo negozio di stoffe di Azucena e poi magari avrei incontrato Luisa, che mi avrebbe raccontato del suo ristorante e spero null’altro di strano. Avevo l’imbarazzo della scelta, ma intanto avevo bisogno di stare un po’ da sola, mi capitava così poco ormai.
Ero indecisa tra un film e un libro. Mi trovavo in sala, mi guardai attorno, sul tavolino basso nell’angolo c’era il portatile rosa della mamma, quello da cui non si separa mai. L’aveva comprato così perché è sempre “sobria” nella scelta dei colori. Accanto al tavolino, c’era il mobile con la televisione e tutti i suoi DVD preferiti, tra cui, sempre in prima fila, American Beauty che avevamo visto tantissime volte insieme. E poi libri ovunque, così tanti che ormai non ci stavano più nella libreria. Mi cadde l’occhio su Cuore di ghiaccio di Almudena Grandes, un romanzo che la mamma stava leggendo, una storia d’amore strana con tante sorprese, di cui mi aveva parlato entusiasta, come fa con tutto quello che le piace del resto.
Mi ricordo che mi arrabbiavo tanto quando, da piccolina, volevo giocare e lei o Alice erano sedute da qualche parte con un libro in mano. «Uffa, e basta leggere!» dicevo annoiata.
Sono sempre state lettrici incallite. A me, da bambina, i libri neanche interessavano. Poi, da ragazza, mi venne la voglia di imparare, di mangiarmi il mondo, di leggere. Con i libri potevo immaginare le vite di altre persone, visitare Paesi sconosciuti e, soprattutto, tuffarmi in emozioni immense. Non era poi così diverso da quello che facevo recitando.
Aprii il computer di mia madre, così senza pensarci. Non volevo certo curiosare tra le sue cose, ma mi ritrovai a leggere un’email. Riconobbi il nome del mittente, era l’insegnante di scrittura che rispondeva ad alcune domande sul “nostro” progetto di raccogliere le storie di famiglia: «Scrivere, cara Alicia, metterà a nudo la vostra sensibilità, strani meandri del vostro subconscio troveranno la luce. Dovrete stare attente, le storie possono sfuggirvi di mano, i personaggi stessi sono difficili da dirigere. A voi il compito di metterli in riga, far rispettare le direttive, anche se, alle volte, può essere difficile…».
Che strano, pensai, proprio quello che succede a me lavorando. Quando interpreto un ruolo, quando recito, alcune volte i personaggi si impadroniscono di me al punto che devo sforzarmi per mantenere una certa distanza, altrimenti sarebbe un disastro alla fine di ogni film che giro. Ci sarebbe successo lo stesso con le nostre storie?
Senza nemmeno accorgermene, e senza nemmeno aver dato una risposta a mia madre sull’idea che aveva avuto, mi ritrovai a pensare al progetto di cui mi aveva parlato qualche mattina prima. Ero salita sulla barca senza rendermene conto. Certo, sarebbe stata mia madre il motore, ma anch’io avevo delle storie da raccontare, storie di amiche che mi avevano fatto riflettere, ma anche storie che avevo rubato ascoltandole per caso. Alcune, come la violenza subita da una ragazzina che conoscevo, mi avevano colpito così tanto che sentivo quasi il dovere di raccontarle.
Il tappeto che non fu rubato
Avevo conosciuto Azucena nel negozio di stoffe in cui lavorava e in cui andavo di tanto in tanto. Era una ragazza timida, ma quando prendeva confidenza diventava uno spasso. All’inizio mi era sembrata molto sola, mi faceva una tenerezza infinita, ma poco alla volta siamo diventate amiche e, quando ero a Barcellona, andavamo insieme al cinema, a fare delle passeggiate, a prendere un gelato. Non l’ho vista per quasi quattro anni, per colpa dei miei viavai e del mio lavoro.
«Dovresti andare a trovare Azucena, mi chiede sempre di te!» mi ha detto mia madre un po’ di tempo fa. «Vedrai com’è cambiata e anche il negozio… da non crederci!»
Così sono andata a trovarla. E sono rimasta senza parole nel sentire le sue brutte e belle avventure.
Azucena camminava veloce lungo una strada appartata che il cielo illuminava con una luce strana. Due cani randagi la guardavano curiosi e abbaiavano appena, quasi come se non volessero svegliare nessuno. Si era fermata a lungo a parlare con Carlos. Viveva in un quartiere nella periferia di Barcellona, era tardi. Sua madre di certo la stava aspettando alzata. Controllava sempre tutto ciò che faceva, la tempestava di domande. Quella sera avrebbe voluto sapere perché non era tornata al solito orario.
«Mamma, non sono più una bambina, ho trent’anni!» le diceva sempre.
E lei: «Là fuori ci sono un mucchio di pericoli, non fare l’insolente, piccola, non sai nemmeno di che parli!».
La bellezza non era importante! Sua madre ne era convinta, e glielo ripeteva sempre: non puoi essere bella fuori se non lo è anche la tua anima. Ad Azucena non sarebbe spiaciuto per niente essere gradevole anche fuori. E invece la sua figura esile, fin troppo sottile, non le piaceva. Bassa di statura, avrebbe voluto essere come le modelle che vedeva nelle riviste, o alla televisione. Le sarebbe piaciuto farsi crescere i capelli neri fino al sedere, ma sua madre diceva che corti erano più pratici, per la gioia della parrucchiera. Aveva gli occhi verdi, erano affascinanti, ma pieni di una tristezza profonda, antica. Era bella, ma non lo sapeva, aveva una sua bellezza pacata, imperfetta.
Sua sorella era andata a lavorare lontano, molto lontano, in Australia, si vedevano pochissimo. Con suo padre ancora meno, era un uomo molto occupato che non aveva mai avuto tempo per le figlie.
Non aveva mai avuto un ragazzo. Adesso però c’era Carlos che le rivolgeva molte attenzioni. Lui aveva iniziato a lavorare al negozio di tessuti quasi un anno prima. Quel negozio era aperto dall’inizio del secolo scorso e in tutto quel tempo non era cambiato molto, vendeva tessuti rari, difficili da trovare. Nel retrobottega c’erano tappeti vecchi pieni di polvere, stoffe antiche…
Azucena ci lavorava da quando aveva diciotto anni, e si trovava bene, anche se non le sarebbe dispiaciuto qualche cambiamento per renderlo più moderno, vivace. Invece era tutto così vecchio, decadente, triste! Solo l’odore dei suoi sogni le dava un po’ di sollievo. Era profumo di muschio, di terra bagnata, sì, terra bagnata nel chiuso di un negozio, che riportava a vecchie storie del passato. Sognava di volare. Cambiare rotta, città, lavoro, conoscere persone nuove. Vivere al massimo.
Carlos era un tipo estroverso, affascinante e insolente. Non parlava mai di sé, era sempre vago, cosa che lo rendeva ancora più interessante. Sembrava fin troppo sveglio per fare il commesso. Ogni tanto, dopo il lavoro, facevano un pezzo di strada insieme, la faceva ridere, le diceva cose carine… All’inizio lei quasi non gli rivolgeva la parola, la metteva troppo in soggezione. Un ragazzo bello e attraente come Carlos non se la sarebbe mai filata. La gente con lei si annoiava molto, la sua vita fino a quel momento era stata così poco interessante, non aveva niente di eccezionale da raccontare.
Carlos si era accorto che Azucena aveva un debole per lui e le faceva mille complimenti: «Come ti sta bene questa gonna azzurra!», «Che carina che sei con questa camicia bianca di seta». E via dicendo.
Un giorno il caffè, l’altro una scatola di cioccolatini: poco a poco era riuscito ad abbindolarla. Azucena ancora si ricordava con meraviglia quando si era presentato con un mazzo di rose rosse. Nessuno mai, prima, le aveva fatto un regalo del genere, tanto meno un uomo. Quel giorno il cuore aveva cominciato a batterle forte come impazzito per la felicità, un nodo le aveva chiuso lo stomaco. La sua anima aveva cominciato a volare come un gabbiano che sorvola i mari…
«Sei molto bella oggi» le aveva detto porgendole i fiori.
«Non fare lo scemo, non sono bella per niente!»
«Per me lo sei.»
«Sarà… Grazie mille, ma so benissimo che non è vero.»
«Perché sei sempre così sospettosa?»
Una mattina di gennaio, Carlos le si era avvicinato e le aveva sussurrato nell’orecchio: «Dobbiamo parlare, ho una cosa molto interessante da raccontarti».
«Ah sì? Non dirmi!»
«Lo sai, in questo negozio c’è una cosa che vale tantissimo?»
«Sì, certo… un sacco di polvere!» rispose Azucena ridendo.
«Un tappeto del XVIII secolo che vale più di mezzo milione di euro.»
«Cosa? Stai scherzando, vero?»
«No, hai capito bene. E adesso ti dico come possiamo cambiare per sempre la nostra vita.»
«Cos’hai in mente?» chiese Azucena incuriosita.
«Potremmo prenderlo, tu puoi accedere a ogni parte del negozio. Ho già un compratore… un antiquario molto importante.»
«Sei pazzo! Questo… questo si chiama rubare!»
Carlos ci mise tantissimo a persuaderla, le disse che, se avesse fatto tutto quello che le diceva, sarebbero diventati ricchi e avrebbero potuto iniziare una nuova vita insieme, lontano da tutto. Azucena non poteva crederci… Provò a convincerlo che i signori Delicias, i padroni del negozio, lo avrebbero scoperto, che quello era un furto e che lei non era capace di fare una cosa del genere.
«Non sanno nemmeno cos’hanno in questo negozio, e comunque, prima che se ne rendano conto, saremo già altrove!»
«E dove? Io non so… non so nemmeno dove vorrei andare…»
«Andremo via insieme, ti insegnerò a vivere, mi prenderò io cura di te.»
Azucena non ci dormiva la notte, riusciva appena a mangiare. Carlos, a poco a poco, con i suoi inviti a cena, al cinema, a passeggiare, stava riuscendo nel suo tentativo di convincerla.
Un giorno la invitò a casa sua, le preparò un buon vino bianco e dopo qualche bicchiere lei si lasciò andare completamente. Le mani di Carlos le accarezzarono tutto il corpo, la baciò in posti che non avrebbe mai pensato. Ormai Azucena non riusciva a pensare ad altro, se non a stargli vicino, se non ai suoi baci, alle sue carezze, non c’era nulla di più importante nella sua vita, il tempo si era come fermato. Non aveva mai conosciuto la passione prima di allora.
Un venerdì, dopo la chiusura, con la scusa di fare una fattura arretrata, rimase nel negozio. Prese il tappeto, lo arrotolò e lo sistemò in un tubo di cartone. Carlos la stava aspettando in un bar vicino a casa sua.
«Adesso, amore, dobbiamo stare molto attenti. Tra qualche giorno contatterò il mio amico, quando chiuderemo questa faccenda, per noi comincerà una nuova vita» le disse con un tono affettato.
Azucena si portò il tappeto a casa e lo nascose in un posto sicuro, mentre Carlos non si presentò al lavoro dandosi malato. Ogni giorno la chiamava, tutto stava andando secondo il suo piano.
Una mattina Azucena arrivò in negozio. La signora Delicias la stava aspettando per parlarle.
«Io e mio marito abbiamo deciso di vendere il negozio, ma non preoccuparti per il tuo posto, la società che lo comprerà ci ha assicurato che potrai restare. Hai lavorato sempre sodo, sei sempre stata una persona di fiducia, responsabile e onesta.» Le parole che uscivano dalla bocca della signora Delicias suonavano dolci e affettuose, le sfioravano l’anima con delicatezza. «Ora, potresti cortesemente cominciare a fare l’inventario di tutto quello che c’è nel negozio? Nel retro ci sono pezzi di cui non conosci il valore, mettili lo stesso nella lista, la completeremo noi.»
Ad Azucena prese il panico, stette male tutto il giorno. I padroni stavano per scoprire il furto. Non poteva fare loro una cosa del genere. Era disperata. Nel pomeriggio, con la scusa del dentista, se ne andò di filato da Carlos: quella storia del tappeto doveva finire, glielo avrebbe detto, lui la amava e avrebbe capito. Mentre camminava, provò a chiamarlo diverse volte al cellulare, ma non rispondeva.
Quando arrivò sotto il suo appartamento, salì correndo, due scalini alla volta, aprì la porta con la chiave che lui le aveva dato. Una volta dentro, sentì la voce di Carlos, stava ridendo. Parlava al telefono.
«Sì, non preoccuparti, amore mio. Ho parlato con l’antiquario, è disposto a comprare il tappeto… Non posso crederci… È stato così facile! Quella scema di Azucena ci è cascata in pieno. Come potrebbe piacermi una come lei? Appena finisce questa storia ce ne andremo, come abbiamo fatto altre volte…»
Non poteva credere alle sue orecchie, Carlos continuava a parlare e a ridere di lei, della sua ingenuità. Restò per qualche minuto immobile, appoggiata alla parete. I pensieri le si affollavano nella testa. All’improvviso si calmò ed ebbe ben chiaro cosa fare.
Uscì silenziosamente dall’appartamento chiuse la porta per poi suonare il campanello. Carlos le aprì, si sorprese nel vedersela lì davanti. Gli mancava, disse lei per giustificarsi, e aveva bisogno di vederlo.
«Come va?» chiese Azucena con una vocetta da bambina, sforzandosi di trattenere la rabbia per non rompergli la faccia.
«Molto bene, praticamente stiamo concludendo, e quando avremo i soldi, potremo andarcene, realizzare i nostri progetti.»
«Fantastico! Apriamo una bottiglia di champagne per festeggiare l’affare e sì… anche l’amore» disse Azucena con un sorriso amaro. «Carlos, volevo chiederti una cosa, dovresti ritornare in negozio, devo accompagnare mia madre a trovare dei parenti in paese e ho chiesto una settimana di ferie alla signora Delicias. Quando torno, portiamo tutto a termine. Il tappeto è ...