Il mio nome è Parvana
eBook - ePub

Il mio nome è Parvana

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il mio nome è Parvana

Informazioni su questo libro

Nell'Afghanistan finalmente libero dal regime talebano i soldati americani arrestano una ragazzina trovata a vagare tra le macerie di una scuola bombardata, perché sospettata di terrorismo. Interrogata per giorni, lei si rifiuta di parlare nonostante le minacce e le pressioni estenuanti a cui è sottoposta. Mentre attende di conoscere il suo destino, Parvana, che ormai ha quindici anni, ripercorre gli ultimi avvenimenti, dal momento in cui ha ritrovato sua madre e le sue sorelle, fino all'apertura di una scuola per ragazze: un sogno divenuto realtà. Ma questo è l'Afghanistan di oggi, un Paese in cui la guerra non è mai davvero finita e molti continuano a guardare all'istruzione femminile e alla libertà delle donne con sospetto e paura.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2015
Print ISBN
9788817083621
eBook ISBN
9788858680919
Argomento
Literatura

Sei

«È tutto qui quello che hai fatto?»
Sua madre era in piedi accanto alla sedia di Parvana e guardava il foglio. Avrebbe dovuto essere pieno di frazioni. Invece c’era una sola operazione incompleta in cima alla pagina. Il resto era occupato da una mappa della città che Parvana, potendo, avrebbe voluto progettare: era piena di fiumi, ponti e giardini segreti dove una ragazza avrebbe potuto rifugiarsi senza che nessuno la scocciasse. Si era dimenticata che avrebbe dovuto fare i compiti di aritmetica.
«Hanifa ha riempito tre pagine. Sharifa quattro. E non sono mai andate a scuola.»
Dopo essere stata ridotta al silenzio dai Talebani la voce di sua madre aveva ritrovato il suo piglio.
«E tu, che sei stata a scuola e hai avuto un padre insegnante, non sei in grado di completare una pagina di frazioni facili. Passerai l’intervallo qui. Se ti impegni, puoi rispondere a tutte quelle domande prima che suoni la campanella.»
Hanifa e Sharifa fecero un sorrisetto compiaciuto e lasciarono la sala da pranzo insieme a sua madre. Erano due delle altre alunne adolescenti della scuola e tutto ciò che facevano durante il giorno – oltre ai compiti – era guardare Parvana e sorridere compiaciute.
Parvana rimase da sola. I suoni delle bambine che giocavano in cortile entravano dalle finestre.
Si abbandonò sulla sedia e sbatté la penna sul tavolo. Poi la scagliò attraverso la stanza.
La mamma non aveva il diritto di parlarle in quel modo, soprattutto non davanti alle altre ragazze. Aveva lavorato sodo per mettere in piedi la scuola. Come faceva a sapere che frequentarla sarebbe stato tanto impegnativo?
Alcune cose erano facili. Leggere i libri della loro piccola biblioteca? Facile. Il suo inglese era migliorato tantissimo, solo leggendo quei libri che avevano ricevuto in dono. Le piacevano le lezioni di pronto soccorso, perché riusciva a trovare un’utilità in ciò che le veniva insegnato. Le piaceva conoscere il posto di ogni singola cosa nella scuola e far sì che tutto venisse fatto per bene. Le piaceva quando le alunne venivano da lei a farle domande, a cui lei sapeva come rispondere. Ma odiava essere un’alunna come le altre. E odiava restare ferma e seduta a lungo. Come potevano aspettarsi che stesse seduta a un tavolo per tutto quel tempo a fissare un mucchio di numeri? Lei era abituata a fare. Era abituata a rubacchiare, a raggirare e a sopravvivere.
Non a stare seduta a fissare un foglio.
Parvana fissò il suo disastroso compito di matematica. Moltiplicazioni tra frazioni. Perché mai qualcuno dovrebbe saper fare qualcosa del genere? Non riusciva a capirlo ed era stanca di provarci. Sua madre le aveva spiegato come fare. Nooria le aveva spiegato come fare. E anche le altre insegnanti ci avevano provato. Lei continuava a non capire come fare a moltiplicare un terzo per un quinto, o perché qualcuno avrebbe dovuto volerlo fare.
Non poteva più stare in quella stanza. Non sopportava l’idea di passare altre due ore con quelle ragazze dal sorrisetto compiaciuto. Si sentiva soffocare.
Doveva uscire.
E uscì.
Lasciò la sala da pranzo, passò davanti alla faccia della signora Weera sul Muro delle Grandi Imprese, uscì dalla scuola e dal cancello, senza fermarsi neanche quando il signor Fahir la chiamò.
Camminava spedita, perché provava il bisogno di usare i muscoli e di sentire il cuore battere forte. Proseguì senza guardarsi intorno, brontolando tra sé col fiatone sull’inutilità delle frazioni e sulla slealtà di sua madre.
Imboccò una strada di ghiaia fiancheggiata da campi. Alcuni di questi erano coltivati a papaveri da oppio, che rivestivano la vallata di verde e rosa quando erano in fiore. Colline rocciose circondavano la valle come le pareti di una scodella.
Parvana percorse la strada a passi pesanti fino al villaggio. Quando raggiunse i primi negozi e le prime case, la sua rabbia si era stemperata.
La gente si era accampata al limitare del villaggio. Alcuni avevano vere e proprie tende, ma la maggior parte avevano steso delle cerate sopra assi di legno o borse piene di paglia o sabbia. Alcune capre rovistavano nell’immondizia. Bambini vestiti di stracci sedevano in terra o tiravano calci a una vecchia lattina.
Era una versione in miniatura del campo per rifugiati afghani dove Parvana aveva finalmente ritrovato la sua famiglia. Ciò che restava di quel campo non era molto lontano da lì, ma Parvana non aveva nessuna voglia di tornarci. La vita laggiù era davvero molto dura. Dopo le tende venivano le case di fango: costruzioni basse e squadrate fatte di mattoni di fango. Pallottoline di letame pressate a mano erano state messe a seccare contro i muri; venivano usate per accendere il fuoco per preparare i pasti e riscaldare le case. Alcune di quelle capanne avevano piccoli negozi sui davanzali delle finestre: barattoli di vetro con dentro gomme, caramelle, biscotti e sapone.
Parvana passò davanti a un fornaio e sentì il profumo del nan che cuoceva. Passò davanti a un macellaio, con la carcassa spellata e senza testa di una capra appesa a un gancio e con svariate teste di capra esposte su un vassoio. Poi venivano i fruttivendoli, con arance, cipolle e pomodori impilati in piramidi. Barattoli di spezie e cataste di noci venivano venduti sulle bancarelle intorno alla frutta, accanto a negozi di ferramenta e casalinghi.
Parvana era cresciuta a Kabul e aveva trascorso parecchio tempo al mercato della città. Il villaggio ne aveva una sua versione ridotta e meno caotica.
Magari potrei trovare un lavoro qui, pensò. So abbastanza aritmetica da contare i soldi che guadagno e da capire quanto costano le cose. Non mi servono delle stupide frazioni.
Le sarebbe piaciuto avere di nuovo dei soldi suoi. Da quando era cominciato il progetto scuola, sua madre gestiva tutto il loro denaro, che non era molto.
Una volta Parvana gliene aveva chiesto per sé. Voleva andare al villaggio a comprare qualche albicocca secca o qualche altra piccola prelibatezza.
“Non ti servono soldi” aveva sentenziato sua madre. “Hai tutto ciò che ti occorre. E poi non voglio che tu vada al mercato. Ci hai passato fin troppo tempo negli anni passati. Non ti sarebbe d’aiuto a metterti tranquilla.”
Era quello che volevo, pensò Parvana mentre superava un venditore ambulante con il carretto pieno di sandali di plastica. Tutto ciò che aveva desiderato, in tutti quegli anni, era una vita normale: sedere in un’aula, indossare abiti puliti, avere attorno la sua famiglia.
E adesso che aveva tutte quelle cose, non faceva altro che lamentarsi.
«Che cosa c’è che non va in me?» si chiese ad alta voce.
Attraversò il villaggio e ne uscì sul lato opposto. Era di nuovo circondata da spoglie colline, erba stentata e cielo immenso. Sapeva quanto era facile perdersi nel paesaggio afghano, come le colline cominciassero presto a somigliare l’una all’altra.
Si arrampicò su quella più vicina e arrivata in cima si fermò. Dopo essersi accertata che non ci fossero scorpioni o solifugi, si sedette appoggiandosi a una grossa roccia. Da lassù vedeva l’intero villaggio e alle sue spalle anche la scuola.
Le gambe le facevano male ma lei si sentiva lo stesso benissimo. A scuola facevano ginnastica tutti i giorni, ma tutte quelle flessioni e quel saltare sul posto non le bastavano, perché era troppa la sua voglia di andare in giro, di correre per il mondo e di vederselo scorrere attorno.
Che cosa c’è che non va in me? si chiese di nuovo.
Aerei da guerra sfrecciarono sulla vallata alle sue spalle rombando. Parvana non batté ciglio. Erano comuni quanto i corvi. Come pure il fumo di un’esplosione che si levava all’orizzonte.
Qualcuno in quel momento stava mangiando terra, con i timpani che esplodevano e il mondo che andava in frantumi.
«Ma non io» disse ad alta voce. «Non oggi. Ho avuto la mia parte. Adesso tocca a qualcun altro.»
Il terreno sotto di lei era duro ma confortevole. Sapeva dormire all’aperto. A scuola divideva un toshak con le sue sorelle. Era sempre schiacciata nel mezzo, tra Nooria, che era convinta di avere il diritto di occupare più spazio degli altri, e Maryam, che non la smetteva mai di agitarsi, neppure nel sonno. La maggior parte delle volte Parvana ci rinunciava e dormiva per terra.
Non sentiranno la mia mancanza, pensò.
Costruire la scuola era stato divertente. Aveva avuto un progetto, uno scopo. Ma andare a scuola? No, sentiva di non potercela fare. Non poteva passare il resto della sua vita seduta tra quelle due odiose ragazze a fissare la stessa pagina di frazioni.
«Troverò lavoro come costruttrice di scuole» disse al cielo. «Viaggerò per il Paese. Ogni volta che arriverò in un villaggio dove non c’è una scuola, andrò dagli anziani e mi offrirò di progettarla. Mi troveranno un’anziana vedova gentile da cui stare. Andrò a prenderle l’acqua e l’aiuterò al mattino con le faccende domestiche e la sera leggerò per lei. Durante il giorno progetterò la scuola e dirò agli uomini del villaggio che cosa fare. “La finestra mettetela lì, che affacci sul giardino!” dirò. “Il campo giochi dev’essere più grande. E fate altri scaffali per la biblioteca.”»
Riusciva a immaginarla. Il tetto piatto su cui giocare, con un cornicione abbastanza alto perché i bambini più piccoli non cadessero, dove avrebbero fatto volare gli aquiloni durante la festa della primavera e dove avrebbero potuto dormire nelle notti più calde. Il grande orto con le gabbie per le galline da una parte, un grande albero sotto cui andare a leggere dall’altra. Ogni alunno che lo desiderasse avrebbe potuto avere a disposizione un pezzetto di terra per coltivare fiori.
«E potranno vendere i fiori al mercato e guadagnare qualche soldo.»
Parvana si era sempre sentita un po’ più forte con qualche soldo in tasca.
Alla cerimonia d’inaugurazione della scuola, l’uomo del governo avrebbe fatto un altro lungo discorso. Stavolta, però, il discorso sarebbe stato tutto per lei, sulle sue capacità e i suoi talenti, e su come era stata capace di fare così tanto pur senza saper moltiplicare le frazioni.
Tutti avrebbero applaudito e si sarebbero guardati attorno per vedere dove fosse e consegnarle una targa, ma non l’avrebbero trovata. Lei sarebbe sgattaiolata via, già in viaggio lungo la strada, diretta al prossimo villaggio, per costruire la prossima scuola.
«O magari mi taglierò di nuovo i capelli» disse. «Asif ha uno shalwar kameez che dovrebbe andarmi bene. Lo prenderò dalla sua stanza quando lui è a cena. La mamma ha le forbici. Mi travestirò di nuovo da ragazzo, andrò in giro per il mondo e farò tutti i lavori che riesco a trovare. Risparmierò e…»
Quel pensiero non la portava da nessuna parte. Quando si era travestita da ragazzo, quando era più piccola, aveva avuto uno scopo per guadagnare del denaro. Aveva una famiglia da sfamare e un padre da tirare fuori di prigione.
Adesso per chi avrebbe risparmiato? Capiva che stavolta sopravvivere non sarebbe stato sufficiente. Le serviva un sogno più grande.
Ciò che desiderava davvero era costruire case, in cui la gente potesse vivere e che la facessero sentire al sicuro e felice.
Una parte del suo cervello era sul punto di ammettere che, per fare una cosa del genere, probabilmente avrebbe dovuto essere capace di moltiplicare le frazioni. E anche molte altre cose.
Allontanò quel pensiero.
«Farò come Shauzia» decise. «Guadagnerò soldi travestita da ragazzo e poi andrò in Francia. E mi metterò a costruire cose laggiù, e quando ci incontreremo in cima alla Torre Eiffel tra…» fece una pausa per contare «sedici anni, sarò un famoso architetto.»
Quel sogno era abbastanza ambizioso da farla alzare, ripulirsi gli abiti e avviarsi giù dalla collina. Si tenne a mente quell’immagine mentr...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Uno
  6. Due
  7. Tre
  8. Quattro
  9. Cinque
  10. Sei
  11. Sette
  12. Otto
  13. Nove
  14. Dieci
  15. Undici
  16. Dodici
  17. Tredici
  18. Quattordici
  19. Quindici
  20. Sedici
  21. Diciassette
  22. Diciotto
  23. Diciannove
  24. Venti
  25. Ventuno
  26. Ventidue
  27. Ventitré
  28. Ventiquattro
  29. Venticinque
  30. Ventisei
  31. Ventisette
  32. Ventotto
  33. Nota dell’autore