La memoria rende liberi
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La memoria rende liberi

La vita interrotta di una bambina nella Shoah

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La memoria rende liberi

La vita interrotta di una bambina nella Shoah

Informazioni su questo libro

"Un conto è guardare e un conto è vedere, e io per troppi anni ho guardato senza voler vedere." Liliana ha otto anni quando, nel 1938, le leggi razziali fasciste si abbattono con violenza su di lei e sulla sua famiglia. Discriminata come "alunna di razza ebraica", viene espulsa da scuola e a poco a poco il suo mondo si sgretola: diventa "invisibile" agli occhi delle sue amiche, è costretta a nascondersi e a fuggire fino al drammatico arresto sul confine svizzero che aprirà a lei e al suo papà i cancelli di Auschwitz. Dal lager ritornerà sola, ragazzina orfana tra le macerie di una Milano appena uscita dalla guerra, in un Paese che non ha nessuna voglia di ricordare il recente passato né di ascoltarla. Dopo trent'anni di silenzio, una drammatica depressione la costringe a fare i conti con la sua storia e la sua identità ebraica a lungo rimossa. "Scegliere di raccontare è stato come accogliere nella mia vita la delusione che avevo cercato di dimenticare di quella bambina di otto anni espulsa dal suo mondo. E con lei il mio essere ebrea". Enrico Mentana raccoglie le memorie di una testimone d'eccezione in un libro crudo e commovente, ripercorrendo la sua infanzia, il rapporto con l'adorato papà Alberto, le persecuzioni razziali, il lager, la vita libera e la gioia ritrovata grazie all'amore del marito Alfredo e ai tre figli. Un racconto emozionante su uno dei periodi più tragici del secolo scorso che invita a non chiudere gli occhi davanti agli orrori di ieri e di oggi, perché "la chiave per comprendere le ragioni del male è l'indifferenza: quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c'è limite all'orrore".

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
Print ISBN
9788817084000
eBook ISBN
9788858681398
Argomento
Storia
1

Nascere ebrei

Il 5 settembre 1938 ho smesso di essere una bambina come le altre. Prima di allora, essere ebrea significava per me venire esonerata dall’ora di religione: mentre tutte le alunne restavano in classe, io e quattro o cinque compagne correvamo libere nel corridoio. Prendevamo lunghe rincorse per poi lanciarci in ardite scivolate sul pavimento incerato dai bidelli. Le nostre compagne ci invidiavano molto. Non ricordo di aver mai sentito pronunciare la parola «ebreo» a scuola, né dalle allieve né dagli insegnanti. Del resto, io stessa ne conoscevo a malapena il senso.
La mia era una famiglia di ebrei laici, come lo era la maggior parte delle famiglie di ebrei italiani: non ci attenevamo alla Kasherut, in casa nostra si mangiava di tutto, e non frequentavamo mai la sinagoga. Sono entrata una sola volta, da bambina, in una sinagoga. Nel tempio di via Guastalla si celebravano le nozze di Ornella Calabi, sorella di Tullia, il cui padre era cugino di mio nonno, e io ero stata chiamata a fare da damigella. Conservo un ricordo vago di quel giorno: reggevo il velo della sposa con la sensazione di trovarmi in un teatro, al centro di una recita. L’ebraismo nelle sue implicazioni più profonde come nella sua ritualità quotidiana allora mi era completamente estraneo.
Ho trascorso l’infanzia in casa dei nonni paterni, Olga e Pippo Segre. Mia mamma Lucia era morta a ventisei anni per un tumore all’intestino e mio papà Alberto, rimasto vedovo a trentun anni con una bambina di pochi mesi, aveva deciso di tornare a vivere dai propri genitori. Mio nonno era un uomo di umili origini che dal niente aveva creato una ditta solida assicurando alla famiglia un discreto benessere, una bella casa in corso Magenta e persino una piccola scuderia. Era una persona pratica e determinata e, per quanto avesse un titolo di studio modesto, aveva voluto che i suoi figli frequentassero l’università (mio padre si laureò alla Bocconi). Ateo convinto, amava vivere nel presente e non si poneva troppe domande su quello che lo attendeva dopo la morte. Per lui l’aldilà era il «Grande nulla», non un luogo di beatitudine. Si atteneva a pochi e solidi principi e fu capace di trasmetterli ai suoi cari: mai avere debiti, mai fare il passo più lungo della gamba.
Tanta forza d’animo, però, nulla poté contro la malattia. Fu colpito dal morbo di Parkinson e nel giro di poco tempo cominciò ad avere tremori in tutto il corpo. Dovette lasciare il lavoro, che per lui era la vita, e divenne un relitto. Necessitava di assistenza in ogni momento del giorno e della notte.
La nonna Olga lo aveva sposato molto giovane, a diciassette anni, con un matrimonio combinato. Era una donna umile e alla buona, con pochi interessi, che si occupava personalmente delle faccende di casa e usciva solo per fare la spesa, mentre le signore bene lasciavano fare tutto alla donna di servizio. Non sopportavo la sua ingenuità, le sue superstizioni: un gatto nero, l’olio rovesciato, un cappello lasciato sul letto o un ombrello aperto in casa la riempivano di terrore e io, con cattiveria sottile, facevo di tutto perché questi segni di sventura si materializzassero puntualmente sotto il suo naso. Era la vittima prediletta dei miei dispetti, dell’impazienza che allora suscitavano in me le persone lente e poco brillanti. Non ero molto affettuosa con lei, anche perché la confrontavo inevitabilmente con Bianca, la mia nonna materna. Alta, elegante, con splendidi capelli bianchi e un filo di perle perennemente al collo, Bianca era il mio idolo. Era per me una regina piena di fantasia e sempre pronta a giocare, mentre Olga incarnava tutte le caratteristiche della femminilità da cui una ragazzina spericolata come ero io non poteva che allontanarsi. Era servizievole e ubbidiente, non diceva mai una parola fuori posto e faceva tutto quello che le si diceva di fare. Quando nel 1942 su Milano cominciarono a piovere le prime bombe, sveniva dalla paura, cadeva in deliquio e occorreva farla rinvenire con i sali. A ripensarci, aveva ottime ragioni per spaventarsi, ma a me sembrava tutta una messinscena: ero solo una ragazzina e vivevo ogni cosa come un’avventura.
Da anni il suo ricordo mi riempie di rimorsi, e mi imbarazza molto pensare a quanto sono stata ingiusta con lei. Nonna Olga ha affrontato con eccezionale forza la malattia del marito, dedicandosi a lui con amore e dignità nell’ora del suo inesorabile declino, e ha poi vissuto con grande coraggio la tragedia della Shoah.
Mio papà, Alberto, e mio zio Amedeo erano affettuosissimi con i loro genitori. Lavoravano entrambi per conto del nonno: papà si occupava della parte economica e suo fratello di quella commerciale, girando per l’Italia come rappresentante. Avevano solo un anno di differenza e si volevano molto bene, ma erano su posizioni politiche nettamente distinte.
Mio papà era del dicembre 1899 ed era stato richiamato dopo Caporetto, come tutti «i ragazzi del ’99». Aveva quindi partecipato alla Grande guerra solo per pochi mesi. Lo zio, invece, nazionalista convinto, aveva combattuto in trincea ed era stato decorato. Tornato dal fronte, era rimasto scandalizzato dal fatto che a Milano i «rossi» sputassero sui reduci e fu forse anche per questo che con l’avvento di Mussolini diventò un sansepolcrista, un fascista della prima ora. Faceva parte di uno dei primi nuclei formatisi in città, il Gruppo rionale Crespi di Porta Magenta, che si riuniva sopra il Biffi di piazza Baracca. Era il tesoriere della sezione e quando il fascismo gli voltò le spalle lo visse come una beffa atroce. «Con tutti i soldi che ho dato al Gruppo!» commentava amareggiato.
Mio papà era invece pessimista e disilluso, detestava Mussolini ed era profondamente antifascista. In famiglia regnava un clima di totale rispetto reciproco, ma papà non perdeva occasione per cercare di smorzare gli entusiasmi del fratello. «Amedeo, tu ti sbagli» continuava a ripetergli.
Non sopportava le parate, i gerarchi carichi di decorazioni e le lezioni di ginnastica di Achille Starace, come istintivamente non le sopportavo io, ma a quelle manifestazioni di forza, a quelle spacconate così tipiche del fascismo non c’era modo di sottrarsi. Oltre che in strada e a scuola, toccava vederle anche al cinema. Il nonno mi ci portava spesso, andavamo al Dal Verme o all’Eden di largo Cairoli, e quando le gambe smisero di reggerlo fu mio padre ad accompagnarmi. Prima dell’inizio del film, in sala veniva proiettato il cinegiornale Luce, e lui non riusciva a trattenersi. Quei servizi per celebrare il regime, quegli spezzoni con tronfi gerarchi impettiti nel saluto romano lo facevano contorcere sulla poltroncina e commentare ad alta voce, e lo stesso accadeva se nei filmati appariva qualche alleato tedesco o giapponese. Sentivo che il suo comportamento poteva essere pericoloso, ma solo in modo confuso, ero troppo piccola per rendermi davvero conto del rischio che correvamo.
Mio padre era un uomo sobrio e austero, e molto esigente con me, perché voleva essere sicuro di educarmi nel modo giusto. Mi faceva da papà e da mamma, quindi era severo, ma aveva sviluppato nello stesso tempo una dolcezza femminile, che non mi fece mai realmente sentire la mancanza di una mamma.
Quando non volevo mangiare la verdura, per punizione mi mandava in cucina. Se solo avesse saputo quanto mi divertiva stare fra le domestiche… Parlottavano tutto il tempo dei loro fidanzati e fra una confessione e l’altra scappava sempre qualche indiscrezione. Fu proprio da loro che appresi che mio zio aveva un’amica – una «mantenuta», come si diceva allora – di modesta estrazione sociale.
«Eh, Amedeo ha la fidanzata che è commessa alla Rinascente.»
La mia balia, una donna curiosissima, mi portò un paio di volte alla Rinascente per capire chi fosse… L’interesse intorno a questa misteriosa signorina, che si chiamava Enrica, si spense quando nel 1937 lo zio, eterno scapolone, si decise finalmente a sposarla.
Verso la fine dell’estate del 1938, la mia vita d’improvviso cambiò. Avevo otto anni e mio papà aveva preso in affitto una villetta a Premeno, sul lago Maggiore. Era convinto che in quel periodo dell’anno il clima del lago fosse un toccasana, ma io mi annoiavo moltissimo.
Un giorno, mentre eravamo a tavola insieme ai nonni, sentimmo alla radio che da novembre gli ebrei avrebbero subito una serie di restrizioni.
Quel momento è rimasto impresso nella mia memoria come un fermo immagine. Di quell’attimo ricordo tutto: il volto della domestica ritta in piedi che serviva dal piatto da portata, i dettagli della sala da pranzo, l’ordine in cui eravamo seduti, le espressioni di mio papà e dei miei nonni. Mi guardarono e mi comunicarono che non avrei più potuto andare a scuola. Non avrei potuto frequentare la terza elementare. Io ero figlia unica, orfana di madre, e anche per questo andavo a scuola volentieri. Ho sempre avuto un temperamento molto socievole ed ero piena di amiche: improvvisamente venivo espulsa dal mio mondo.
Quella parola – «espulsa» – pronunciata da mio padre fu per me uno shock. Quando a un bambino si dice «Sei stato espulso da scuola», lui si convince di aver fatto qualcosa di sbagliato: è stato espulso perché ha una colpa. E infatti replicai: «Ma perché? Che cosa ho fatto?». Ci volle molta pazienza e grande tenerezza per farmi capire – per quanto potessi capire allora – che non ero stata io ad aver fatto qualcosa di male. Si trattava di una legge che aveva stabilito che tutti gli ebrei dovessero essere «espulsi» dalla scuola e da molte altre attività.
In quell’autunno fu promulgata una infinita serie di divieti che a poco a poco ci avrebbero spogliato di ogni diritto, le famose Leggi razziali: gli individui «di razza ebraica» furono espulsi dall’esercito, dalla pubblica amministrazione, dalle università, dalle assicurazioni e dalle banche, fu vietato loro di esercitare moltissime attività commerciali, di possedere immobili e aziende oltre un certo valore, di sposarsi con «ariani», di prestare servizio nelle loro case o semplicemente di possedere un apparecchio radiofonico.
Qualche giorno dopo tornammo a Milano. Alle mie spalle il papà e il nonno parlavano a bassa voce e abbozzavano mille ipotesi su cosa sarebbe stato meglio farmi fare. In ogni città gli ebrei stavano organizzando scuole private, scuole ebraiche dove i bambini avrebbero potuto continuare a studiare. Ma mio papà non ne voleva sapere: lui stesso non aveva mai frequentato l’ambiente ebraico al di fuori della cerchia dei parenti. Il giro dei suoi amici era pieno di cognomi di persone che non avevano niente a che fare con il mondo ebraico: Civelli, Bernasconi, Moia e tantissimi altri. Erano amici dei tempi dell’università o persone con cui aveva legato frequentando le corse a San Siro.
Alla fine prevalse la proposta di mia zia Enrica, che era cattolica. Convinse la famiglia che per mettermi in salvo avrei dovuto assolutamente essere battezzata, e consigliò a mio papà di iscrivermi all’Istituto delle Marcelline. Lei aveva già discusso il mio caso con le suore, che le avevano detto: «Noi prendiamo questa bambina, ma a patto che si battezzi». Un giorno ci portò anche me e, devo dire la verità, quell’universo di veli fruscianti e di sole donne – allora era una scuola esclusivamente femminile – non mi dispiacque affatto. Andammo in chiesa a vedere Gesù bambino e notai che in tutto quel che mi circondava c’era qualche cosa di armonioso, di gentile. «Gentile» mi sembra l’aggettivo più adatto. Gentile nei miei confronti. E a quel punto mi annunciarono che sarei stata battezzata. Io, che non avevo mai sentito parlare di religione, non sapevo nemmeno che cosa significasse.
Così, un pomeriggio dell’ottobre 1938, con il papà, i nonni Segre e la zia che mi faceva da madrina andammo alla chiesa di San Vittore. I miei nonni materni, i Foligno, pur essendo blandamente religiosi, si dichiararono contrarissimi e non si presentarono. Non si battezzarono mai né si iscrissero al Partito fascista. Il nonno, avvocato Alfredo Foligno, restò massone fino all’ultimo.
Fu una giornata terribile. Mi ritrovai vestita di bianco, con un abito compratomi per l’occasione, in una cerimonia che non comprendevo. Mio padre, ateo convinto, piangeva come un pazzo dietro a una colonna. Lo vidi e cominciai a piangere anch’io. L’acqua del fonte battesimale e le mie lacrime divennero una sola cosa.
Finito questo rito tra singhiozzi, lacrime e disperazione, andai con mia zia Enrica in piazza Tommaseo, dove le suore Marcelline – un po’ per scarsa sensibilità, un po’ per mancanza di psicologia – avevano preparato una festicciola in cui alcune bambine sconosciute mi battevano le mani. Di quella giornata ricordo solo i pianti disperati.
2

A scuola dalle Marcelline

Nonostante quel terribile inizio, dalle suore non mi trovai affatto male. In quella scuola incontrai una maestra che amai molto, la signorina Vittoria Bonomi. Il mio amore per lei fu ampiamente ricambiato e ha segnato tutta la mia vita negli anni a venire. Ancora oggi ogni 27 gennaio, il Giorno della memoria, i suoi figli mi mandano dei fiori.
Quando ero in prima media, avendo capito quanto fosse profondo il legame che mi univa a questa insegnante, il mio papà la pregava spesso di venire a trovarci a casa per aiutarmi a fare i compiti. Era una ragazza molto modesta, arrivata a Milano dalla provincia, e arrossiva ogni volta che mio papà entrava nella camera in cui lei mi faceva lezione. Ero ancora una bambina, ma mi ero accorta che, mentre papà non le riservava attenzioni particolari, lei si era innamorata di lui.
Io, che di solito ero visceralmente gelosa di mio papà – una gelosia che non ho mai più provato in vita mia, nemmeno con mio marito, che pure me ne diede motivo –, speravo che la signorina Bonomi potesse interessargli. Era l’unica donna che avrei voluto avere come madre, la mamma così come io me la immaginavo.
Quando dopo la guerra ci rincontrammo – io ero ormai una donna e lei una signora –, le confessai questa mia fantasia d’infanzia: nonostante nel frattempo si fosse sposata e avesse avuto quattro bambini, diventò di nuovo tutta rossa. Ai suoi figli ho sempre detto: «Io sono vostra sorella, perché avrei voluto che vostra madre, la vostra dolcissima madre, fosse stata anche la mia».
La signorina Bonomi non fu l’unico aspetto positivo di quell’esperienza dalle Marcelline. Mi piaceva molto quello che mi insegnavano le suore, il vestito della prima comunione, il profumo dell’incenso, i canti, la scoperta di un mondo nuovo, profondamente femminile. Era un ambiente affettuoso, nel quale non percepivo un clima di esclusione, un ambiente sereno che contrastava con il mondo fatto di problemi che sentivo o intuivo dentro casa mia.
Vivevo su due fronti. Da un lato c’era lo spazio della scuola, dove ridevo, scherzavo, ero una brava alunna con un vestito carino e facevo finta di niente. Dall’altro c’era il privato, fatto di pianti, disperazione, abbattimenti, preoccupazioni finanziarie, mezze parole carpite da un discorso a tavola. Secondo le nuove leggi, nessun ariano poteva prestare servizio nelle case delle famiglie ebree. La polizia faceva controlli continui e la nostra fedelissima cameriera – la meravigliosa e indimenticabile Susanna – non poté più lavorare per noi, se non di nascosto: pur di non abbandonarci continuò a venire ogni giorno, senza il grembiulino, in borghese, come un’ospite.
Le mie ex compagne di scuola mi evitavano. Mi rimasero fedeli solo due o tre. Una di loro è morta, mentre un’altra – Giuliana – vive a Montecarlo e il nostro rapporto non si è mai interrotto. Giuliana aveva i genitori valdesi, quindi – pur non subendo una vera e propria esclusione sociale – sapeva cosa volesse dire essere discriminata.
A scuola non parlavo mai di ciò che succedeva a casa, delle moltissime perquisizioni che subivamo. A un tratto sentivamo scampanellate violente e Susanna interrompeva all’istante le faccende domestiche per fingersi ospite. Io e la nonna Olga andavamo ad aprire la porta e quei poliziotti in divisa, a volte accompagnati da un individuo in borghese, ci trattavano come se avessimo commesso qualche reato.
«Documenti!»
Ero consapevole che nelle case delle mie compagne di scuola non succedevano cose simili, e questo mi faceva pensare. Nessuno mi diceva: «Mi raccomando...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La memoria rende liberi
  4. Introduzione
  5. 1. Nascere ebrei
  6. 2. A scuola dalle Marcelline
  7. 3. La casa di Inverigo
  8. 4. La fuga e l’arresto
  9. 5. Il carcere
  10. 6. Il viaggio verso Auschwitz
  11. 7. La solitudine del prigioniero
  12. 8. Annullate
  13. 9. Allein
  14. 10. Je t’attendrai
  15. 11. La liberazione
  16. 12. Ritorno a casa
  17. 13. La mia nuova vita
  18. 14. Le parole sono pietre
  19. 15. Sopravvissuta per ricordare
  20. 16. Ritornare alle origini
  21. LA STORIA NON SI CANCELLA
  22. Il compito di ricordare
  23. Contro ogni discriminazione
  24. Una festa fondamentale
  25. Chi salva una vita salva il mondo intero
  26. Fermiamo le politiche dell’odio
  27. Ringraziamenti
  28. Inserto fotografico
  29. Copyright