Questa libertà
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Questa libertà

  1. 196 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Questa libertà

Informazioni su questo libro

Un romanzo per fare i conti con se stesso. Dall'infanzia all'età adulta, Cappello si confronta con il passato per afferrare il proprio presente, dai primi anni di scuola e la scoperta della letteratura all'esperienza traumatica del terremoto del Friuli del 1976, fino a quell'incidente che a soli sedici anni lo ha costretto su una sedia a rotelle. Un racconto di formazione di uno scrittore, ma anche di una terra, il Friuli, che dal piccolo borgo medievale di Chiusaforte osserva e vive i grandi cambiamenti sociali e territoriali dell'Italia tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta. Una vicenda umana intensa e poetica diventa la storia collettiva di un paese intero, alla ricerca della verità su se stesso. Che è la più grande e assoluta forma di libertà.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2016
Print ISBN
9788817086455
eBook ISBN
9788858683118

Sangue e ossigeno

1983, 10 settembre, sabato
La mattina è tersa. Dal campo di atletica si vedono le montagne senza peso, come se qualcuno di notte avesse sostituito alle pietre un’anima. C’è appena un po’ di vento, che passa sulle cosce e sulle spalle libere del ragazzo ma non smuove le bandierine della pista di salto in lungo. Più in là, recintato, c’è un campetto da calcio, da dove arrivano i tonfi sordi dei palloni di cuoio e le urla da caserma di un allenatore.
Faceva ancora buio quando il ragazzo è uscito di casa. Per dormire un po’ di più e non svegliare il fratello, si è preparato la borsa la sera prima, infilandoci in fretta un paio di pantaloncini rossi, una canottiera da atletica azzurra, un paio di scarpette da tennis – basse, come le vuole l’allenatore – e tutto il necessario per una doccia. Quando ha finito, ha portato la borsa in cucina, dove è stato avvolto da un silenzio denso.
Il padre è adagiato sul divano e segue un telefilm poliziesco in bianco e nero alla tv, mentre la madre è al lavello di spalle, che asciuga le stoviglie della cena. La cucina è illuminata. Il ragazzo si è fatto strada nel silenzio ignorandolo per come ha potuto, ha sistemato la borsa vicino al divano e si è accomodato a tavola a cercare di seguire il telefilm con il padre; invece si sente inseguito dallo sguardo della madre, lo avverte sulla schiena e sul collo come un laccio che si stringe.
Sua madre è sempre di malumore quando lo vede prepararsi per andare in città e questa volta lo è ancora di più, perché lunedì riapriranno le scuole, lui dovrà tornare in collegio e ricomincerà daccapo il lungo periodo di separazione. Per cui lei non vede il motivo, non lo vede proprio, di scendere in città di sabato, mentre avrebbero potuto rimanere ancora un po’ insieme. A cena c’è stata una discussione accesa, con recriminazioni aspre da entrambe le parti, cose tra genitori e figli, dove si ferisce e si è feriti senza pietà.
«Parti con il treno delle sei?» si sente chiedere il ragazzo, e nel voltarsi trova sua madre in piedi, con lo strofinaccio in mano.
«Sì» risponde, sapendo che quella prima domanda è il passo incerto di una distensione.
«E quando torni?»
«Penso che sarò a casa alle tre, se faccio in tempo a prendere il treno dell’una e mezza a Udine» dice, ormai del tutto voltato verso la madre.
«Dovrai mangiare qualcosa, no?» osserva lei e, nel farlo, passa davanti al marito, che si era tenuto estraneo alla discussione di prima e che ora sbuffa perché gli è stato interrotto il telefilm.
«Mangerò qualcosa al bar della stazione» risponde il ragazzo, mentendo.
La madre, ora, è davanti al mobile vicino alla tv, apre un cassetto, tira fuori un borsellino nero, ne estrae due banconote marroni da mille lire e una, più piccola e azzurrina, da cinquecento. «Con quali soldi? Tieni questi, almeno così so che non giri in città come un barbone» sbotta, lasciando le tre banconote sul tavolo e aspettando una reazione del figlio.
Il figlio raccoglie le banconote, le ripiega, le infila nel taschino del giubbotto appeso all’attaccapanni e ringrazia. «Vado a letto, domani mi alzo presto, cercherò di non svegliarvi, buonanotte.» Nel dirlo, e nell’entrare in camera chiudendo la porta dietro di sé, lascia madre e padre nel cerchio di luce della lampada, in un silenzio meno opprimente di prima.
Non è uno che indugia al caldo delle coperte: i led luminosi della radiosveglia segnano le 5.30 quando scende dal letto, si infila i jeans nel buio e, già lucido, raggiunge a tastoni la porta della camera, sfiorando il fratello che dorme un sonno di sasso. Accosta piano la porta ed entra in bagno, la luce che ha appena acceso è talmente fioca che lascia gli angoli della stanza in ombra, nonostante lo spazio sia angusto. Si lava il torso sul lavandino, con l’acqua fredda, perché quella calda ci mette un’eternità ad arrivare. Quando solleva la testa per lavarsi la faccia, lo specchio rimanda l’immagine di un adolescente dalle spalle ampie, dai tratti regolari, con i capelli che gli scendono sulla fronte in folti riccioli scuri. Si piace e sa di piacere. Un vantaggio non da poco durante l’adolescenza, un’età crudele dove basta avere una faccia tormentata dai brufoli per essere scaraventati senza appello ai margini del branco. Tuttavia, al di là della superficie ben abbronzata e ben allenata del suo corpo, sente di avere un’incrinatura anche lui, la crepa nella porcellana che potrebbe farlo andare in pezzi: gli piace la poesia; e per i posti che frequenta – il collegio di secondo ordine dove abita in città, l’istituto tecnico industriale, il campo di atletica della scuola – leggere versi costituisce una colpa ancora più grave che avere una faccia piena di brufoli.
Quest’anno frequenterà la sezione aeronautica dell’istituto, di gran lunga la più dura, l’ha voluto lui, ha cercato con tutte le sue forze di adattarsi all’ambiente. All’inizio l’impatto è stato violento, veniva da una scuola piccola, di paese, e si sentiva inadeguato alla città. Il primo giorno non sapeva nemmeno arrivare all’istituto, così si è accodato agli altri studenti senza chiedere niente a nessuno per non essere riconosciuto subito come una matricola. Quando è arrivato al centro studi, dove sono concentrate una buona parte delle scuole della città, ha tagliato una folla di ragazzi e ragazze che lo hanno lasciato smarrito e confuso: avrebbe voluto tornare a casa, avrebbe voluto tutta la libertà di piagnucolare come un bambino.
In quella massa è un puntino perso e, mentre gli autobus e le corriere scaricano a decine altri studenti, prova invidia per quelli fra loro che si riconoscono e scherzano e mostrano di avere una dimestichezza con la confusione del posto che a lui è ancora sconosciuta. Dopo un po’ che percorre il viale, riesce a leggere il nome del suo istituto, è lì dove il gruppo degli studenti è più fitto. L’edificio gli pare enorme, se confrontato con la piccola scuola di montagna dalla quale proviene. Al termine della gradinata c’è una porta a vetri dove entrano studenti a flusso continuo; segue il flusso e si ritrova in un atrio abbastanza grande da contenere quattro-cinquecento ragazzini, tutti matricole, come lui.
In fondo all’atrio, pigiato dalla calca, si solleva sulle punte quel tanto che basta per scorgere un professore brizzolato su un palchetto; sembra uno importante, forse è il preside o il vicepreside, e tiene in mano un microfono con il quale snocciola cognomi e nomi e svariati appelli al silenzio per sovrastare il brusio che si alza dalla folla di adolescenti tesi, irrequieti e smarriti. Il ragazzo intuisce che si stanno formando le classi, cerca di riconoscere il suo nome, ma la voce del professore gli arriva a tratti, disturbata dal rumore continuo. Aspetta per un bel po’, vede gruppi di studenti che si allontanano diretti alle aule. Piano piano l’atrio si svuota, finché rimangono lui e pochi altri ragazzini impacciati.
Non ha sentito il suo nome. Anche gli altri studenti rimasti hanno l’aria di non sapere bene che fare, così si aggrega a loro e tutti insieme chiedono a un bidello dove sia la segreteria. Il bidello li guarda senza mostrare alcuna sorpresa: ogni anno, il primo giorno, dopo il marasma, rimangono in atrio dei detriti. Loro sono quei detriti, le briciole cadute fuori dal sacco, e tocca a lui raccoglierle e rimetterle a posto. Vengono accompagnati in un ufficio, dove una segretaria, scorbutica e scocciata per l’imprevisto, consulta una serie di scartafacci e indica a ognuno la sua sezione.
Solo e umiliato, il ragazzo entra in aula quando la lezione è cominciata da una buona mezz’ora, viene accolto dalle ironie di un professore basso e tarchiato; da uno sguardo rapido alla lavagna, dove sono disegnati triangoli e bisettrici, capisce che si tratta dell’insegnante di matematica. Sarà la sua nemesi per quasi tutto l’anno scolastico.
In aula c’è un solo posto libero: il banco davanti alla cattedra. Mentre si siede e dà un’occhiata ai compagni, si rende conto di essere vestito in un modo del tutto inadatto alle circostanze: calza un paio di scarpe eleganti e indossa dei pantaloni scuri, con la riga, una camicia ben stirata di un color celestino, come quelle dei ferrovieri, e una giacca in tono con i pantaloni. È un uomo in miniatura, un piccolo geometra, è l’idea che sua madre si è fatta di uno studente che dovrà frequentare le “scuole alte”, come le ha definite una volta, spettinandogli i capelli con la mano. Lui sa che quei vestiti sono i risparmi dei suoi genitori, sa che sono la felicità della madre, la stessa di quando hanno fatto il viaggio in corriera per comprarli in un negozio di abbigliamento fuori paese. Sa che quei vestiti per lei sono quasi l’occasione di un’attribuzione di insegne al primo figlio istruito della famiglia e l’orgoglio che c’è in tutto questo. Eppure, quando si gira mostrando la sua faccia con i capelli corti, tagliati di fresco, e vede i suoi compagni vestiti con magliette, jeans, maglioni sformati e scarpe da tennis, sa anche che potrebbe diventare il bersaglio degli scherzi di una classe intera, così i vestiti cominciano a scottargli sulla pelle e non vede l’ora di sbarazzarsene.
Il primo giorno di scuola è stato un disastro, completato dal ritorno in collegio dove, di nuovo in ritardo, ha mangiato un pessimo minestrone, già freddo e denso, in una mensa semivuota.
Ma il ragazzo che ha appena finito di lavarsi, mentre i suoi stanno dormendo, e si è infilato la camicia sulla pelle ancora umida è molto diverso dal ragazzetto smarrito di due anni prima, che ha dovuto affrontare un quadrimestre terribile meditando più volte di ritirarsi e di tornare all’ordine rassicurante del suo paese. Meno incantato e più cinico, ha imparato l’arte del mimetismo, ha saputo fare come l’insetto stecco, indistinguibile dai rami sui quali si appoggia, e oggi è in tutto simile agli altri studenti: si è fatto crescere i capelli, indossa jeans stinti, non ha più la cartella, ma un tascapane color verde militare dove mette l’indispensabile, prende i treni con disinvoltura e, se capita, infierisce quanto gli altri sulle matricole più sprovvedute.
Legge ancora versi, d’estate, in vacanza, ma anche d’inverno, quando porta con sé nella sala di studio del collegio i libri di testo, in mezzo ai quali occhieggia sempre qualche raccolta di poesie. La sua vita è così: divisa da una paratia d’acciaio – il mimetismo come strategia evolutiva – da una parte gli studi di fisica, gli studi intensi di matematica e lui come adolescente spigliato e conforme, dall’altra, in penombra, un ragazzo che legge Leopardi, Baudelaire, Rimbaud, capaci di cancellare il mondo che vive ogni giorno e di muovere in lui lo sconcerto di sentirsi come l’evaso di un penitenziario.
Oggi però, non appena esce di casa, e il fresco dell’alba gli entra negli occhi e pizzica le guance, i due ragazzi che porta con sé per un momento si vengono incontro e si abbracciano. La mole delle montagne è più buia del cielo, ma a est si affaccia una sottile linea bianca dalla consistenza calcarea che esalta i contorni delle cime scure, mentre il buio è forato dal canto degli uccelli che si leva da un boschetto di acacie oltre l’argine del fiume. Gli uccelli sono sempre i primi / pensieri del mondo gli suggerisce la voce di un poeta che ha appena cominciato a leggere e, subito, mentre indugia sulla porta di casa, un’altra voce, la sua, affiora allacciata alla prima: «Se gli uccelli sono i primi pensieri del mondo, il colore di quei pensieri dev’essere senz’altro il colore dell’alba» si sente dire e, dentro l’alba, con le voci che lo accompagnano, si avvia in fretta verso la stazione.
È una bella mattina per allenarsi, piena di luce. Quando è sceso dal treno, Udine si è riappropriata di lui con il rumore; quello continuo delle macchine, i rari colpi di clacson, il grattare pesante degli autobus arancioni. Gli piace la città ai primi di settembre, non c’è ancora quella concitazione dell’autunno lavorativo, la luce porta con sé un ricordo d’estate e, nello stesso tempo, le strade non sono vuote come ad agosto, dove ogni settimana sembra un’interminabile domenica. Lui si riappropria della città un momento dopo quando, sull’autobus, vede scorrere le facciate delle palazzine battute dal sole, mentre sotto sono ancora in ombra, e nel verde degli ippocastani comincia ad affacciarsi una prima idea di giallo.
Né uomo né bambino, anche lui, come la città, è in un momento di passaggio, la sua alba ha ormai preso il colore del mattino, ma il suo corpo vibra di impazienza. È l’aereo che scalda il motore prima del decollo e trattiene il suo scalpito per poi scatenarlo e lanciarlo a mordere le nuvole.
Più che una scuola, l’istituto che frequenta somiglia a un’industria, con il suo ampio corpo centrale in cemento armato e vetri e i capannoni con i tetti a forma di dente di sega, dove sono ospitati i laboratori e l’officina aeronautica, capace di contenere sette, otto aeroplani di generose dimensioni. La vista dell’edificio in due anni gli è diventata familiare, l’incombere di tutto quel cemento e quel vetro non lo spaventa più. Anzi, oggi, nella luce tersa, il bianco della facciata del corpo centrale sembra specchiarsi nel cielo e gli restituisce l’impressione di una calma assorta, qualcosa di solido come le sue montagne e, al contempo, qualcosa di protettivo, dove basta assoggettarsi a un insieme di regole stringenti per togliersi di mezzo il fastidio di pensare per conto proprio.
Il ragazzo entra in istituto dalla parte del parcheggio degli insegnanti, mentre il sole comincia a scaldare gli smalti delle automobili; mano a mano che si avvicina alla grande porta a vetri, affretta il passo, desideroso di rincontrare i suoi compagni di squadra, che non vede da giugno. Dopo aver salutato un paio di bidelli annoiati, infila il dedalo di lunghi corridoi interni che lo condurranno verso le palestre.
Non è ancora arrivato quando ritrova i suoi compagni ancora prima di vederli, viene raggiunto dal rumore di una serie di schiocchi sordi, da tonfi, da risate impetuose che si intrecciano a lamenti esagerati, una profusione di vita cieca che proviene dallo spogliatoio, la cui porta è aperta. Entrando, si trova nel bel mezzo di un duello con gli asciugamani, i colpi si abbattono secchi sulle schiene nude, sulle cosce, sulle spalle. Più di una dozzina di ragazzi si rincorre scalza e vociante, le grida rimbalzano sulle pareti dello spazio ristretto e si tagliano a mezza strada nell’aria, come elettroni di una materia suscitata e impazzita.
Non fa in tempo a sistemarsi che viene riconosciu-to da alcuni amici e coinvolto nel caos generale. Cerca di sfilare dalla borsa il suo asciugamano, ma è subito centrato da una staffilata alla schiena, e poi da una alla nuca, mentre con un braccio si protegge, con l’altro riesce finalmente ad afferrare la sua arma, e si getta a corpo morto dentro la lotta, colpisce ed è colpito, ride e si lamenta, insegue ed è inseguito, finché un urlo più alto delle grida e dei tonfi impone il silenzio e il duello cessa di colpo.
L’allenatore è apparso d’un tratto e ora è lì, in mezzo a loro, come se ci fosse da sempre; il suo sguardo di disapprovazione passa da una faccia arrossata all’altra e gli ultimi risolini si spengono, i respiri affannati si placano. L’uomo, con una voce congelata dall’ira trattenuta, intima loro di prepararsi in fretta, ché c’è da andare in palestra per il riscaldamento, e dà un’arcigna lavata di testa al ragazzo il quale, solo allora, si accorge di essere l’unico ancora vestito. A quel punto, una serie di azioni sincrone, precise e concentrate ricompone ordine nello spazio che, fino a un attimo prima, era un subbuglio di atomi matti. Si aprono armadietti, vengono afferrati i calzoncini nelle borse, i tubolari sono infilati e le scarpette allacciate e saggiate con rapidità e con cura.
È quasi un caso che il ragazzo ora sia lì, con gli altri, a fare la corsa di riscaldamento nella palestra con le ampie vetrate, da cui filtra una calda luce settembrina che macchia di chiaro il centro del parquet: sa correre e sa farlo bene, cento metri in undici secondi e quattro a soli sedici anni appena compiuti sono il lasciapassare che gli dà il diritto di appartenere all’élite della scuola.
Il difficile periodo di ambientamento durante il primo anno si può dire concluso dal giorno in cui il professore di ginnastica che ora lo allena gli aveva preso i tempi sui trenta metri. Aveva dovuto farlo due volte, non fidandosi del vecchio cronometro a mano, e per due volte il ragazzo aveva ottenuto un tempo identico. Avvicinato al termine della lezione, gli venne offerta l’opportunità di far parte del gruppo di atletica della scuola. Entrò in squadra così, senza nessun reale interesse, passando il setaccio di una selezione praticata durante le normali ore di ginnastica. E l’opportunità di distinguersi per scomparire e far parte a pieno titolo del branco, per di più in una posizione di rilievo, facendo dimenticare le sue origini montanare e la sua inettitudine alla città, gli parve la fune gettata a un naufrago in piena tempesta.
Col tempo, ha imparato a stare bene dentro il suo corpo, a ricondursi nella concretezza di quadricipiti, deltoidi, dorsali, che si contraggono e si distendono secondo ritmi prescritti, tanto che, se all’inizio gli esercizi di preparazione alla corsa gli sembravano noiosi e pesanti, adesso li trova perfino piacevoli, per quella vacanza da sé che gli permettono. Uno, due, tre, i numeri scanditi, la voce spoglia dell’allenatore, sono le rotaie dove lui può far correre la sua immaginazione, mentre il corpo, libero di sé, viene affidato tutto ai numeri che battono l’aria, nella tranquilla precisione della sua assenza.
Così torna dentro l’estate, vicino al fiume, e si trova disteso e sente di nuovo sulla pelle nuda il tepore della sabbia bianca, e accanto a lui il mangianastri che manda la musica dei Dire Straits, e davanti a lui, ancora in piedi, la ragazza emiliana dal corpo snello e pieno che si raccoglie i capelli scuri. Mentre lo fa, i suoi gomiti, alti sopra la testa, disegnano le punte di una stella controluce e da quella prospettiva, dal basso all’alto, lei gli appare come la sintesi del sole, la punta di lancia dell’estate intera, il vuoto che preme nella gola passato e presente, adesso che la pensa, e uno, due, tre, i numeri scanditi cadono nell’aria. Il ritmo del fiume nella sua testa e il ritmo dei numeri cui è affidato il suo corpo procedono separati per un po’ finché l’allenatore, con tre colpi di fischietto, segna la fine degli esercizi di riscaldamento e porta i ragazzi al campo di atletica.
Fuori, il vento lieve è una carezza, il vento lieve è un abbandono, la pelle del ragazzo si dà tutta intera al fresco della giornata acerba. Nello spazio aperto del campo, le poche parole, le battute fra ragazzi, si stagliano nitide nell’aria e vengono subito portate via, si dissolvono come bollicine nella concentrazione che comincia ad addensarsi, e che lui avverte nella tensione indefinita delle sue fibre. I cinque velocisti sono rimasti con l’allenatore e gli altri ragazzi, separati per specialità, vengono affidati a un paio di assistenti. Si fanno gli ultimi esercizi all’aperto, corse sul posto, saltelli sulle punte, prove di scatto, finché tutti si dispongono ai blocchi di partenza.
C’è sempre un momento, quando posa il ginocchio sinistro sul tartan, mentre con il piede destro che fornirà la prima spinta prova con cura l’adesione al blocco, in cui il ragazzo è preso da un vuoto nello stomaco e da un’eccitazione al ventre: sono i secondi che precedono l’esplosione. L’adrenalina dell’antico cacciatore riaffiora come il marchio ancestrale di quando muscoli, velocità, attenzione erano usati per inseguire o per fuggire, e la posta in gioco era vita o morte, pollice in su o pollice in giù, secondo le sol...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. L’uomo che viveva con le porte aperte
  5. Il tempo che ci vuole
  6. Ogni sguardo è moltitudine
  7. Tutto il mondo al di là delle montagne
  8. Sangue e ossigeno
  9. Ringraziamenti