Niccolò
Avevo sentito i passi di Lodovico dietro di me, l’avevo sentito sedersi dall’altro lato della balaustra di legno, nella sedia che dava le spalle alla mia. E mi sembrava di aver riposto una cosa preziosa nel suo astuccio.
Sapevo che era importante non perderla.
Ma il mio cuore era affacciato sul buio, adesso. Sul buio che la parola “bambino” portava con sé.
Con una pena infinita, feci scorrere tra le dita le pagine del Menu.
Cercavo un nome.
“Ciao, mamma.”
Una vocina azzurro pallido.
Un bambino biondo con un pigiamino tutto abbottonato si stropicciava gli occhi con la piccola mano grassottella. Doveva essersi appena svegliato. Sulla guancia aveva una minuscola macchia rosa scuro, forse aveva dormito su un fianco. È così che devono dormire i bambini. Sul fianco, per non soffocare. Il pigiamino mi inteneriva. Era di una stoffa morbida, lieve, ma a righe regimental, da uomo. Un piccolo uomo pronto a crescere.
Un piccolo uomo che non era cresciuto mai.
Mi era sempre piaciuto sciare.
Ci ero anche riuscita bene, da subito. Mi portarono a Cortina a sei mesi e a tre anni già mi buttavo giù dalla discesa del campetto di Pocol, mentre Fräulein Ilke cronometrava il tempo.
A ogni inverno, diventavo più veloce. Sciare mi trasformava in quello che non ero, una persona sicura di sé, in grado di decidere in una frazione di secondo la traiettoria della discesa e di battere tutti, anche i maschi.
Mi infilavo gli sci e diventavo un’altra.
La trasformazione stupiva me per prima. Era una specie di benedizione delle montagne, arrivava dal Pordoi come la tempesta, dal Passo Rolle come la primavera, e mi dava respiro, forza, speranza. Era una droga sciare, per me. Non potevo fare a meno di quella Mirella lì, che, quando sciava, si chiamava Cosima, anche se non lo sapeva. Allo stesso modo in cui un fumatore non sa smettere di fumare, un alcolizzato non sa smettere di bere, un cocainomane non sa smettere di tirare, io dovevo sciare. Sciavo per sopravvivere. Scendevo protesa in avanti, salda di un coraggio che possedevo solo con gli sci ai piedi, disegnavo un ricamo di serpentine, chiudevo la discesa con un cristiania deciso come un taglio di forbici. E poi mi toglievo il casco, scuotevo i capelli.
Sapevo di essere bella, in quel momento preciso, ero bella perché ero me, la vera me. Non avevo bisogno di nessuno, non dovevo più essere ubbidiente né debole né conciliante né gentile. Ero selvatica. Ero libera.
Nessuno poteva prendermi, se avevo ai piedi gli sci.
Ero incinta di sette mesi, era febbraio, l’ultima settimana di febbraio.
Eravamo tutte lì, con i bambini, chi li aveva già, chi con il pancione (Lavinia Mortarotti, Giada Secchi e io), i mariti in città a lavorare sarebbero saliti per il weekend. Noi giocavamo a fare le signore come avevamo visto fare alle nostre madri, passavamo la mattina a prendere il sole, il pomeriggio a perlustrare boutique, andavamo da Lovat per il tè, facevamo l’aperitivo al Posta e cenavamo in pizzeria, tanto il sabato avevamo il tavolo al Caminetto per colazione e a Villa Oretta per cena, con i mariti.
Solo io sciavo.
Avevo trovato una postura capace di riequilibrare il peso della pancia, portavo pantaloni con l’elastico in vita e un enorme piumino da uomo che tirava comunque davanti. Sciavo il necessario, poche piste ma indispensabili, e facevo molta attenzione a non prendere velocità.
I valligiani delle seggiovie mi guardavano storto e capitava che mi borbottassero dietro, ma non me la prendevo, loro non potevano sapere che io sciavo per sopravvivere.
Non ero mai caduta.
Ero a Piè Tofana, mi stavo allacciando gli scarponi. Margherita Terzi era impaziente di buttarsi giù dalla discesa. Era già in coda, pronta a salire sulla seggiovia, io ero in ritardo. Mi sentivo stranamente impacciata.
“Spicciati, sono stufa di doverti sempre aspettare.”
Mi guardava come all’università, quando io ero sempre l’ultima a consegnare.
Mentre forzavo sul gancio dello scarpone per stringerlo, la manica del piumino rimase incastrata dentro la molla, in uno strano modo tenace, così strano e così tenace che non riuscivo a liberarla. Chiamai Margherita, ma anche lei non fu capace di sbloccare il gancio, sembrava incollato. Si fermò un ragazzo, provò, senza riuscire, a liberarmi e poi sparì. Tornò con un cacciavite preso in prestito dal gabbiotto dei custodi dell’impianto e, forzando con la punta il gancio, aprì la molla.
Mentre salivamo con la seggiovia, Margherita era tutta allegra.
“Guarda che bel tempo” diceva e mi mostrava con un gesto largo del braccio i pendii dove gli sciatori si muovevano come pulviscolo nel sole.
Era carina, Margherita, nel suo completo bianco di Jet Set, lei era abituata a Sankt Moritz e il clima di Cortina la incantava.
Io guardavo dall’alto le miriadi di sciatori, guardavo come si affollavano tutti negli stessi punti, come si muovevano a gruppi. Parevano tirati da fili invisibili.
“Se mi facessi male, non vorrei andare all’ospedale, ma in clinica” dissi, soprappensiero.
“E perché ti dovresti fare male, scusa?” si infastidì Margherita.
“Boh.”
“Sai che Marzia e Pollo hanno una storia?”
“Ma dai.”
Era bello salire in seggiovia con una amica simpatica una mattina di sole in Tofana, vedere le punte smerigliate delle montagne, le cascate di neve intatta, il cielo color blu di Prussia e il profilo maestoso delle rocce. Dong! faceva il braccio meccanico del nostro sedile ogni volta che sgusciava intorno a uno dei piloni. Dong! Come è facile superare un ostacolo, quando sei seduto in seggiovia.
“Vuoi un po’ di cioccolata?”
Margherita si era tolta un guanto e ora frugava nella tasca della sua giacca bianca e argento.
“Sì, grazie.”
Quanta gente c’era sulle piste, quella mattina.
Erano le tre passate e il tempo era cambiato. Al posto del sole, era salita una nebbiolina ghiaccia, non così fitta da impedire la visibilità, ma lugubre, strana.
Come lacrime in agguato.
Avevamo mangiato agli Scoiattoli, era il mio posto preferito. Polenta e cervo, sulla terrazza, insieme ai Centurelli, due fratelli gemelli di Roma che costeggiavano il nostro mondo sperando di riuscire a entrarci, prima o poi. Appena ci avevano visto infilare gli sci nella neve, davanti al rifugio, si erano sbracciati perché andassimo a sederci al loro tavolo. Avevo mangiato anche la crostata, e era troppo, mi capitava di mangiare più della fame che avevo, quando ero nervosa. E ero nervosa, lo sentivo. Ma non sapevo perché. Non c’era nessuna ragione per essere nervosi. Andava tutto benissimo.
Tutto era in ordine perfetto.
“Si va?”
Margherita si era alzata di scatto, come se il suo livello di sopportazione dei gemelli Centurelli fosse stato irrimediabilmente valicato.
“Boh.” Feci una pausa, ero strana. “Sì, va bene, dai.”
I Centurelli scattarono in piedi anche loro per farci il baciamano.
“Ci vediamo, eh.”
“Eh” rispose Margherita, mentre filavamo via in diagonale sul pendio che portava alla partenza della funivia di Ra Valles. Ero sicura che i Centurelli non avessero capito che li canzonava.
“Sei una stronza vera, sai” dissi a Margherita, mentre le infliggevo un cristiania secco a un millimetro dalla punta dei suoi sci.
“Tu di più” scoppiò a ridere lei.
Era bello essere in Tofana e ridere con una amica dopo aver mangiato polenta e cervo agli Scoiattoli, era bello ascoltare lo scricchiolio della neve fresca sotto la soletta dei miei sci nuovi.
Un po’ troppo lunghi, forse.
“Ohi, guarda che il tempo peggiora” fece Margherita e con il solito gesto cardinalizio allargò il braccio per mostrarmi una nuvola nera che si allargava sulla valle.
“Facc...