PRIMA PARTE
Nella Tana delle Tigri
Lasciate che vi presenti Caracas,
ambasciata dell’Inferno,
terra di assassini e di pistoleros.
OneChot, rapper venezuelano assassinato nel 2012
1
Ojos de Viejo
Un giorno prima
La borsa e nient’altro.
Claudio Accardi la stringe nella mano sudata.
E prega.
È partito da Roma con trentacinquemila dollari e un piano facile facile: comprare la coca alla fonte, tremilacinquecento al chilo, e tornarsene a casa con dieci chili di polvere finissima da vendere.
Non ha fatto i conti con Caracas: cento morti ammazzati a settimana, cinquemila in un anno, e dieci milioni di armi da fuoco in circolazione. Né tantomeno ha considerato che i dollari, nell’Inferno dove lo stanno aspettando, non servono a niente.
È stata la prima cosa che Enrique, la formica inviata da Luz, lo ha obbligato a fare appena atterrato al Simón Bolívar: cambiare i verdoni in valuta nazionale. E il rotolo nascosto nelle mutande è diventato un borsone pieno di carta straccia, un avambraccio indolenzito e la certezza che il primo niño di strada sarebbe pronto a stenderlo pur di strappargliela di mano.
Enrique lo precede di qualche metro, Claudio cammina in silenzio, tre uomini li seguono a distanza. La striscia di benvenuto che gli hanno fatto tirare all’aeroporto è l’unica cosa che fa morale, ma è un vigore a tempo, perché tra non molto l’effetto della polvere bianca svanirà e rimarrà solo l’adrenalina a fiaccare il cuore.
«¿Donde coño vamos, Enrique?» chiede a voce troppo alta.
L’uomo si volta, sorride e con un cenno della mano gli fa capire che deve avere pazienza.
Il confine del barrio 23 de enero assomiglia all’ingresso blindato di un bunker: strade sbarrate dai secchi dell’immondizia, filo spinato e sentinelle armate che imbracciano AK-47. A quindici minuti dal palazzo presidenziale di Miraflores, nella terra di nessuno che protegge i sogni svaniti dell’ennesima rivoluzione, la polizia è bandita e la legge viene imposta da gruppi paramilitari simpatizzanti di Chavez.
La Piedrita è uno di loro.
Quando negli anni Sessanta i genitori di Luz sono rimasti uccisi negli scontri tra il Movimiento de Izquierda Revolucionaria e l’esercito regolare, la Piedrita lo ha adottato. E adesso è quella la sua famiglia.
Non è più un ragazzino, Luz, e dopo una vita passata a spingere la polvere bianca ai turisti, ha deciso di fare il salto cominciando a vendere all’ingrosso. La rivoluzione gli ha offerto un alibi, la Piedrita un esercito e il 23 de enero la protezione ideale per fare la grana rimanendo invisibile.
Una volta nel barrio, Enrique guida Claudio attraverso un intreccio di vicoli battuti dal sole. Superano i palazzoni di cemento a passo svelto e si fermano un istante a guardare il murales del Cristo in bianco e nero che imbraccia un kalashnikov. LA PIEDRITA, VENCEREMOS è scritto di fianco agli occhi tristi del Salvatore. Claudio li fissa e si domanda se anche lui riuscirà a vincere. L’effetto della coca sta svanendo, la fronte si bagna di sudore e il caldo umido gli appiccica la camicia sulla pelle.
Quanti chilometri da Ponte Milvio, pensa mentre costeggia le casette colorate costruite mattone su mattone dagli uomini dei collettivi. Giallo, viola, senape, verde. E tanto rosso.
Enrique le passa in rassegna come se le stesse contando, poi ne punta una uguale a tutte le altre, entra dalla porta principale ed esce dall’ingresso secondario. E la cosa si ripete per almeno tre volte: dentro e fuori, dentro e fuori, dentro e fuori.
La sicurezza è tutto, in questo alveare dove centomila persone sono pronte a farsi la guerra.
Luz li accoglie in un garage di fortuna: marmitte appese ai muri, una catasta di pneumatici in un angolo e un cric che non serve solo per sollevare automobili. Siede su uno sgabello di ferro.
«Amigo» esclama allargando le braccia, «bienvenido en Caracas.»
Claudio sorride e si lascia abbracciare. Si conoscono da almeno dieci anni, dalle prime vacanze a Puerto La Cruz. L’italiano ci andava per le donne e per la coca, Luz gliele rimediava entrambe. All’inizio erano quantitativi di polvere bianca minimi, il giusto per dare qualche botta e godersi alla grande la notte. Poi Claudio ha alzato il tiro e, adesso che Luz è tornato a Caracas e fa quello che fa, ha annusato l’occasione per un bel colpo che lo sistemi per un po’.
«Che ti passa per la testa? Ti sei messo a fare el narcotraficante?» domanda divertito il venezuelano. Ride, gesticola, agita le braccia nel lungo camicione nero.
Il garage è buio e il sole filtra attraverso le intercapedini di una lamiera inchiodata per murare una vecchia finestra. Enrique è in piedi accanto a Luz. Alle loro spalle, i tre uomini presidiano l’ingresso con le armi in pugno.
«¿Estás seguro, amigo mio?» insiste. «Una cosa è farsi qualche striscia. Bum, bum, un drink y, como decís vosotros, scopare tutta la notte. Altra cosa è trasportare la polvere bianca… Tanta gente ci ha lasciato le penne.»
Claudio solleva le braccia in segno di pace.
«Grazie per il consiglio» dice, «ma voglio comprare giusto qualche chilo e piazzarlo tra gli amici. Un po’ di soldi facili e torno a fare la vita di sempre.»
«No es nada facil in questo mondo, amigo mio. Ma se sei convinto, que vayas con Dios.»
Basta un cenno del capo. Enrique si muove, infila la mano nella pila di copertoni e tira fuori cinque panetti di coca ben confezionati.
«Diez kilos» commenta Luz, «e adesso la plata.»
Claudio allenta la presa dai manici gettando la borsa in terra. Lo scambio avviene in un istante, poi Enrique richiude la sacca e la porge all’ospite.
«Gracias.»
«Ven aquí» esclama Luz alzando il tono della voce. «Salutami come un criminale.»
Claudio lo accontenta, si lascia prendere la faccia tra le mani e baciare sulle guance.
«Tranquilo» aggiunge il venezuelano, «i miei uomini ti scorteranno fino a Puerto La Cruz. No te pasará nada. Y que tengas suerte, amigo mio.»
L’italiano si ferma sulla porta circondato dai sicarios del gruppo. L’aria è bollente, il sole picchia sulla nuca e lui è ancora vivo. Vorrebbe tirare fuori la coca e farsi lì, in ginocchio, davanti a tutti. Poi si convince che la festa è vicina. Pianta un sorriso radioso, solleva il braccio sinistro e serra il pugno verso Luz.
«Hasta siempre, compañero.»
“Osso”: che soprannome del cazzo.
Batteria di Primavalle, gente brutta, che ha fatto il salto.
Trent’anni, fisico affilato, tatuaggi su tutto il corpo.
«Sei tu il coglione che ha preso a schiaffi mio fratello?» ringhia.
Max Sanna abbozza. Rimane in silenzio, poggiato sul sellino del suo Metropolis. Bermuda, infradito e maglietta: l’aria da villaggio vacanze non aiuta.
Alza appena lo sguardo per intercettare quello di Fabietto. Lo riconosce: è il pischello che ha preso a sberle pochi giorni prima. Sembra cresciuto, forse perché impugna un’automatica e gliela punta contro il naso con una voglia matta di dimostrare quanto ce l’ha duro.
Gioventù ingrata: vogliono la roba e non pagano; meritava una lezione e adesso cerca vendetta.
Gli hanno tagliato la strada con un Range Rover sul lungomare sterrato di Fregene Sud, e non sono soli. Insieme a loro altri due tizi, “il Napoletano” e Marcello, stanno poggiati sugli sportelli della macchina e lo fissano con i ferri in pugno.
Osso non perde tempo.
«Monta in macchina che te sparamo.»
Il volto è bianco, sudato; il respiro pesante e irregolare. Si asciuga la fronte con il palmo della mano e con l’altra gli fa cenno di muoversi.
Max non ha scelta, mette il cavalletto al Metropolis e si accomoda sul sedile posteriore del Range Rover, stretto tra i due fratelli.
Il più grande gli piazza la Beretta sulla nuca. Marcello ingrana la marcia e parte.
Max ha pochi istanti per pensare.
Quei due li conosco: uno è il socio di Checco e l’altro è Tony il Napoletano. Uno tosto, da spaccio in grande e latitanza. Quattro automatiche. Quindici colpi ciascuna, sessan...