Jihad
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Jihad

Guerra all'Occidente

  1. 246 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Jihad

Guerra all'Occidente

Informazioni su questo libro

"Da Raqqa a Parigi, dalla Siria all'Europa: porteremo la guerra dove vive il nemico." Con queste parole al-Baghdadi ha annunciato di voler andare "all'attacco dei crociati" per non "farli più vivere in pace". È la minaccia che ha generato le stragi di Parigi dimostrando che l'Europa è diventata un fronte della guerra combattuta in Siria e Iraq contro i gruppi jihadisti. Ma non è l'unico. Maurizio Molinari, giornalista esperto di questioni mediorientali, disegna per la prima volta una mappa dettagliata del fenomeno jihad. Nei novemila chilometri che separano Tangeri da Peshawar è presente una galassia di gruppi, organizzazioni, cellule e tribù rivali fra loro, ma accomunate dal predicare la jihad come forma di dominio sul prossimo. "Il detonatore è il disegno apocalittico del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi" scrive Molinari "attorno a cui ruotano le sfide fra due rivoluzioni islamiche, cinque potenze regionali di Medio Oriente e Nordafrica, dozzine di grandi clan tribali e una miriade di gruppi armati e sigle terroristiche che si snodano dalle coste del Marocco alle montagne dell'Afghanistan." Il risultato è un conflitto di civiltà tutto interno al mondo musulmano e che ha identificato nell'Europa un proprio campo di battaglia. I gruppi jihadisti e salafiti hanno già colpito nelle nostre città e pianificano di trasformare le nostre strade in mattatoi di apostati e infedeli, non solo per sottometterci ma soprattutto per imporsi sui loro rivali interni in una lunga guerra destinata a ridisegnare le nostre vite.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
Print ISBN
9788817085915
eBook ISBN
9788858682883
Categoria
Religione

1

Sfida per l’Islam

Progetto Apocalisse

Ad accendere la miccia della grande guerra per l’Islam è lo Stato Islamico (Isis) del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, portatore di un progetto apocalittico, fondato sulla volontà di eliminare fisicamente chiunque gli si opponga al fine di dominare il Pianeta. Al-Baghdadi teorizza la distruzione degli sciiti perché hanno tradito il Profeta Maometto, l’eliminazione dei sunniti takfiri – ovvero apostati, traditori, corrotti –, la sottomissione di tutte le minoranze che si vengono a trovare nei suoi territori – yazidi, curdi, cristiani, ebrei – e la distruzione di tutte le testimonianze archeologiche di civiltà e culti non islamici – dagli antichi Assiri alle tombe dei profeti sufi – presentando un programma basato sull’affermazione assoluta, totale, della purezza dell’Islam delle origini.
È questa visione totalitaria che porta al-Baghdadi a prevedere la conquista di Najaf e Kerbala, città sante sciite, passando attraverso un bagno di sangue, come anche spiega il suo portavoce Abu Muhammad al-Adnani, chiedendo ai «musulmani nei Paesi dell’Occidente» di «trovare un infedele, colpire la sua testa con un sasso, avvelenarlo, investirlo con un’auto o distruggere i suoi raccolti».1 È una forma di punizione totale che affianca l’omicidio del singolo alla distruzione totale di qualsiasi collettività umana a cui appartenga: famiglia, tribù, città, società e nazione. Il giornalista tedesco Jürgen Todenhöfer, dopo aver passato dieci giorni nel Califfato, afferma che «la loro filosofia ufficiale prevede che cinquecento milioni di persone debbano morire».2 Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi sottolinea la pericolosità di tale approccio condannando «l’ipotesi folle che si possa perseguire l’uccisione di un miliardo di persone».3 Ma la dottrina takfiri, secondo la quale lo Stato Islamico deve purificare il mondo uccidendo un gigantesco numero di esseri umani, è l’architrave dell’ideologia del Califfo, maturata dal predecessore Abu Musab al-Zarqawi e, prima di lui, dall’ideologo salafita Muhammad al-Maqdisi. Ciò spiega perché il più alto numero di vittime di Isis sono musulmani accusati di essere apostati.
I riferimenti all’Apocalisse sono una delle differenze più nette fra al-Qaida e lo Stato Islamico. Osama bin Laden e il successore Ayman al-Zawahiri assai raramente li hanno adoperati, preferendo i messaggi sulla distruzione dei Satana dell’Occidente, mentre nella propaganda del Califfo il Giorno del Giudizio viene citato molto spesso. Un altro degli argomenti ricorrenti è che vi saranno solo dodici legittimi Califfi, al-Baghdadi è l’ottavo, e gli «eserciti di Roma si ammasseranno per confrontarsi con le armate dell’Islam nel nord della Siria» in uno scontro finale fra l’Islam e una sorta di anti-Messia destinato ad avvenire a Gerusalemme.4 Da qui l’importanza di Dabiq, la città siriana vicino Aleppo da cui prende il titolo il magazine di Isis, perché si tratta del luogo dove, secondo la profezia apocalittica, l’«esercito di Roma erigerà il proprio accampamento» trasformandosi in una sorta di Waterloo dei nemici dell’Islam. I riferimenti a «Roma», «Gerusalemme», ai takfiri musulmani e agli odiati sciiti confluiscono verso un momento finale di scontro destinato a portare alla distruzione totale dei nemici della purezza islamica incarnata dai Califfi successori del Profeta. È tale visione della jihad che induce singoli gruppi terroristici associati a Isis a fare frequenti riferimenti all’Apocalisse. Ad esempio quando viene decapitato l’ostaggio americano Peter Kassig, nel novembre 2014, la rivendicazione ricorda la «decapitazione dei nemici sulla pianura di Dabiq» così come quando Isis decapita quattordici copti egiziani sulle spiagge della Libia, nel febbraio 2015, preannuncia la «conquista di Roma» che è, ancora una volta, un richiamo all’Apocalisse. E ancora: la resa dei conti finale diventa programma militare con lo Stato islamico del Khorasan in Afghanistan-Pakistan che si propone di attaccare l’India per innescare una versione locale dell’Apocalisse, ovvero un attacco atomico di New Delhi contro il Pakistan destinato a spingere Islamabad a fare altrettanto, innescando un conflitto nucleare. Ecco perché al-Adnani riassume il progetto di Isis con l’espressione «ridisegnare il mondo grazie alla metodologia profetica del Califfato» che si basa sul «non riconoscimento dei confini» in quanto l’obiettivo strategico finale è il dominio sul mondo dopo l’eliminazione totale dei nemici.

Califfato contro ayatollah

La Repubblica Islamica dell’Iran del leader supremo Ali Khamenei e lo Stato Islamico del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi sono portatori di progetti rivoluzionari rivali per il dominio dell’Islam, riproponendo con armi e ideologie del XXI secolo una contesa che risale alla successione al Profeta Maometto. Khamenei e al-Baghdadi esaltano l’identità religiosa – sciita in un caso, sunnita nell’altro – per farne un punto di aggregazione di vaste popolazioni, nel mondo arabo e non, al fine di arrivare a esercitare un’influenza decisiva nello spazio geografico che va dai confini con l’India alle sponde dell’Atlantico, dal Caucaso al Corno d’Africa. Si tratta di uno scontro assoluto, perché entrambi i contendenti perseguono attraverso la jihad una vittoria totale, che si articola attorno a tre dimensioni: teologica, istituzionale e militare.
La sfida teologica ha a che vedere con le origini dell’Islam. La Repubblica Islamica dell’Iran, frutto della Rivoluzione khomeinista del 1979, si fonda sullo sciismo, ovvero la fede dei seguaci di Ali che, dopo la morte di Maometto, nel 632, contesero ai Califfi sunniti la guida dei musulmani. Lo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi si basa invece proprio sull’eredità di tali Califfi sunniti, considerandosi il proseguimento naturale di quella stagione. Sotto tale profilo la contesa è dunque sulla leadership dell’Islam contemporaneo, rinnovando il duello che seguì alla scomparsa del Profeta. Lo scontro allora fu sul metodo della successione perché i sunniti – da ahl al-Sunna, il popolo della tradizione – volevano seguire le tradizioni delle tribù arabe mentre gli sciiti – da shiat Ali, la fazione di Ali – sostenevano che la nuova guida avrebbe dovuto essere un appartenente alla famiglia del Profeta, e dunque Ali, il cugino che poi era anche genero di Maometto. La diversità di approccio si accompagnò a una diversa visione di leadership: i sunniti si diedero i Califfi, considerati dei condottieri umani, incaricati di mantenere l’ordine e far rispettare la legge del Profeta, mentre gli sciiti si affidarono agli imam, giudicati infallibili proprio perché discendenti diretti di Maometto. Quando Ali venne nominato quarto Califfo si verificò una temporanea unificazione fra le due correnti teologiche, ma dopo cinque anni morì in circostanze misteriose e il figlio, Hussein, non venne nominato successore bensì ucciso da parte della famiglia degli Omayyadi nella battaglia di Kerbala, in quello che è diventato il momento-chiave della separazione fra sunniti e sciiti. È noto il canto sciita Ogni giorno è Ashura, ogni luogo è Kerbala che ribadisce il carattere immanente e perpetuo del torto subito.
Tale contrapposizione originaria illustra come l’oggetto del contendere sia la legittimità a guidare l’intero Islam, i cui 1,57 miliardi di fedeli5 sono composti all’80 per cento circa da sunniti e al restante 20 per cento da sciiti. Ma la contrapposizione demografica è causa di maggiore tensione in Medio Oriente perché si tratta di una regione dove i sunniti sono in maggioranza in Arabia Saudita, Egitto, Turchia e Siria mentre gli sciiti prevalgono in Iran, Iraq e Libano, dando vita a un equilibrio complessivo assai più instabile: 161 milioni di sunniti contro 110 milioni di sciiti. Se a ciò si aggiunge che in questi Paesi – come negli Emirati del Golfo e in Yemen – minoranze sciite si trovano a vivere in territori dominati dai sunniti, non è difficile arrivare a comprendere l’entità di una miscela di rivalità locali, odii religiosi e competizione territoriale capace di innescare conflitti. Anche perché l’ostilità reciproca si nutre di messaggi politici che sovrappongono passato e presente: gli sciiti si identificano con il «martirio» di Hussein imputando ai sunniti una repressione secolare, mentre i sunniti accusano gli sciiti di «rigettare» la vera fede, ovvero di tradire il Profeta.
È in tale cornice che le due rivoluzioni islamiche sono portatrici di progetti concorrenti per il dominio non solo dell’Islam ma del Pianeta. Al-Baghdadi interpreta il Corano e la Sunna attraverso una dottrina jihadista salafita – per il ritorno alle origini dell’Islam – il cui intento è porre ogni singolo centimetro di terra sotto l’autorità del Califfato, arrivando così a stabilire la sottomissione del mondo ad Allah. Ciò significa proporsi di abbattere non solo l’ordine stabilito dalla Pace di Westfalia, basato dal 1648 su riconoscimento e convivenza fra gli Stati nazionali, ma qualsiasi entità geopolitica estranea: per questo Isis accompagna la proclamazione della nascita del Califfato con la pubblicazione di un calendario che prevede la conquista del Pianeta in cinque anni, con tanto di cartina su come si presenterà l’assetto geopolitico della Terra a risultato ottenuto.6 Anche la rivoluzione iraniana ha una vocazione universale che si ritrova nel linguaggio adoperato dall’ayatollah Khomeini: «Né Oriente né Occidente, Repubblica Islamica». L’islamista Bernard Lewis spiega tale messaggio con la volontà di «proporre l’Islam come modello alternativo al comunismo sovietico e al capitalismo occidentale» destinato a essere costruito attraverso «la lotta a paganesimo, oppressione e imperi».7
Entrambi vogliono impossessarsi del mondo, ma è una sfida apparentemente impari perché gli ayatollah iraniani non hanno rivali nella guida degli sciiti, mentre Abu Bakr al-Baghdadi tenta di impossessarsi di un mondo sunnita che ancora, in gran parte, non lo segue, gli si oppone o gli è lontano. Il solco tra i due è piuttosto evidente: la Repubblica Islamica ha trentasei anni di età e lo Stato Islamico deve ancora compierne due, Teheran conta su un’economia che vale 550 miliardi di dollari e Raqqa non arriva a tre, l’Iran ha un esercito efficiente e ben armato la cui punta di diamante sono i Guardiani della Rivoluzione, i pasdaran, che proteggono il programma nucleare mentre Isis possiede meno di cinquantamila miliziani che si muovono soprattutto su pick-up, gli ayatollah sciiti dispongono di una rete di istituzioni legali in più Paesi per la raccolta di fondi e la diffusione di idee a cui il Califfo risponde con un network clandestino di cellule, sostenute dall’uso efficiente del web. In sintesi, la Rivoluzione khomeinista sciita è più ricca e meglio armata di una rivoluzione islamica sunnita appena agli inizi. Si tratta di vantaggi strategici che si sommano al diverso modello istituzionale. La Repubblica Islamica si basa sulla Costituzione del 1979 che prevede un doppio sistema, con il presidente alla guida dell’apparato dello Stato ma sottomesso al leader supremo, capo religioso assoluto, dando vita a una diarchia che, se da una parte suggella la supremazia del clero sciita, dall’altra concede spazi importanti a chi non ne fa parte. Basta mettere piede a Teheran per accorgersi che la vita degli iraniani si svolge all’ombra di una rigida osservanza pubblica delle leggi khomeiniste, che vengono spesso trasgredite nella vita privata di milioni di famiglie. Nel Califfato islamico sunnita il modello istituzionale invece è rigido, basato sull’imposizione ossessiva della purezza dei comportamenti, con il leader religioso che è anche il capo dello Stato (e della struttura militare) e notevoli risorse, umane ed economiche, che vengono destinate per ottenere dai cittadini l’adesione totale all’applicazione della versione della sharia, la legge islamica, imposta dal «principe dei fedeli». L’Islam radicale sciita consente de facto a milioni di iraniani di violarlo, aggirarlo e beffeggiarlo all’interno delle case private perché il regime khomeinista si accontenta di dominare il Paese ed estendere l’area di influenza regionale mentre il Califfato sunnita manda le pattuglie della polizia religiosa nelle singole abitazioni, da Raqqa a Mosul, per verificare l’osservanza della sharia perché punta a ottenere la sottomissione individuale e incondizionata di ogni singolo suddito.
Ma l’apparente squilibrio a favore degli ayatollah contro il Califfo si corregge quando la disamina tocca la situazione sul terreno tattico: lo Stato Islamico, pur disponendo di mezzi minori e meno efficienti, è riuscito in un arco di tempo inferiore a ventiquattro mesi a imporre un tipo di conflitto che ha obbligato Teheran ad adattarsi all’avversario. Isis combatte una guerra che si articola in micro-guerriglie, con unità numericamente ridotte che si muovono rapidamente, puntano ad assumere il controllo di luoghi strategici e a stipulare accordi con tribù locali, creando un fronte d’offensiva frastagliato, irregolare e imprevedibile contro il quale le forze armate dell’Iran, strutturate in maniera tradizionale, si trovano in difficoltà, quando non in affanno. La contromossa di Ali Khamenei è stata assegnare la guida della campagna anti-Isis a Qassem Soleimani, il generale a capo della Forza «al-Qods», ovvero le unità speciali dei Guardiani della Rivoluzione, la cui missione è operare all’estero per addestrare, armare e spesso guidare in battaglia milizie locali, composte unicamente da sciiti. La Forza «al-Qods» nasce ben prima del Califfato – la genesi risale alla guerra Iran-Iraq del 1980 –, ma era stata impiegata da Teheran come unità paramilitare a sostegno di alleati in conflitti locali – dalla Bosnia al Libano – fino a quando il debutto militare di Isis come forza organizzata, nel giugno 2014, l’ha trasformata nel contingente più importante dell’esercito iraniano. La necessità di adattare il proprio schieramento militare in Medio Oriente a quello di Isis suggerisce quanto l’Iran consideri pericolosa la sfida del Califfato sebbene, dal punto di vista economico e istituzionale, sia in netta posizione dominante.
A giocare a vantaggio della rivoluzione di Isis è anche il fattore ideologia: quella del Califfato è nella sua fase crescente, attira seguaci arabi e occidentali disposti all’estremo sacrificio pur di imporsi sugli «infedeli» e punta alla realizzazione di uno Stato basato sulla purezza della fede sunnita, capace di accattivarsi milioni di fedeli mentre l’ideologia della Rivoluzione khomeinista è, dopo quasi quattro decadi di regime, nella sua fase calante, quasi di stagnazione, non attira più volontari, deve dedicare ingenti risorse a fronteggiare il dissenso interno e non ha un serbatoio di risorse umane paragonabile alla galassia dei salafiti sunniti. Se lo Stato Islamico attira un fiume di volontari stranieri – uomini e donne – da cinque continenti, la Repubblica Islamica deve impiegare reparti militari e ingenti risorse economiche per arruolare i miliziani sciiti, dall’Iraq all’Afghanistan, da schierare a difesa di Damasco e Baghdad. Spesso trovandosi obbligata a reclutare minorenni, vista la mancanza di combattenti adulti. È tale differenza che spiega perché sull’interpretazione della jihad come movimento rivoluzionario il Califfo appare in vantaggio rispetto agli ayatollah.
Il martirio, gli attacchi suicidi e la lotta senza tregua contro gli infedeli vennero inaugurati dagli Hezbollah sciiti negli anni Ottanta, nella guerra in Libano contro Israele seguita da simili attentati anti-occidentali in più Paesi, ma oggi sono l’indiscutibile bandiera dei jihadisti di Isis, dalle strade di Parigi alle spiagge della Tunisia. La rivoluzione islamica di Isis si è appropriata dei metodi terroristici inaugurati dai jihadisti sciiti e li adopera oggi per imporsi in Medio Oriente e Nordafrica su ogni avversario, Iran incluso. E ancora: il Califfo rappresenta l’espressione più brutale di una galassia salafita che ha le proprie origini nei Fratelli Musulmani, organizzazione islamista fondata in Egitto nel 1928 da Hasan al-Banna con l’intento di respingere la modernizzazione dell’Islam promossa dalla Turchia di Kemal Atatürk, che da allora ha generato teologi e militanti accomunati da un’ideologia che legittima la violenza contro gli infedeli e i takfiri e ha fatto nascere gruppi terroristici come al-Qaida di Osama bin Laden, la Jihad islamica di Ayman al-Zawahiri e al-Qaida in Iraq di Abu Musab al-Zarqawi che hanno portato ad al-Nusra e allo Stato Islamico. Alle spalle di Abu Bakr al-Baghdadi c’è un jihadismo sunnita che, pur frammentato al suo interno, condivide un ritorno alla «purezza» dei Califfi, all’origine dell’Islam da cui si legittima la campagna per l’eliminazione degli sciiti. Dal 1979 al 2014 la rivoluzione islamica sciita è potuta crescere nel mondo musulmano, attorno al rafforzamento politico-militare dell’Iran, perché si è trovata davanti regimi e monarchie, ovvero Stati di tipo tradizionale, ma la rivoluzione islamica sunnita le pone una sfida più pericolosa, contestandole con efficacia la guida della jihad globale.
Ciò che rende incandescente la sfida fra le opposte rivoluzioni islamiche è la moltiplicazione dei fronti di combattimento armato – Siria, Libano, Iraq, Arabia Saudita, Bahrein, Yemen – sullo sfondo della rivalità sunniti-sciiti che si esprime nella contrapposizione strategica fra due Stati, Arabia Saudita e Iran, leader di opposte coalizioni nel mondo musulmano in concorrenza per il dominio della regione del Golfo con le sue ingenti risorse energetiche. Da qui il rischio che il conflitto in corso fra milizie jihadiste sunnite e sciite porti a una guerra fra Stati.

Potenze regionali in conflitto

Lo scontro fra le rivoluzioni islamiche sciita e sunnita precipita il mondo arabo nell’anarchia, portando a una decomposizione degli Stati nazionali che pone le basi per un conflitto aperto fra aspiranti potenze regionali. Iraq, Siria, Yemen, Libia: sono quattro su ventidue gli Stati della Lega Araba che non esistono più a causa di una implosione di governi, parlamenti ed eserciti che ha cancellato i confini esistenti trasformando Nordafrica e Medio Oriente in uno spazio dove organizzazioni terroristiche, potenze locali e clan tribali competono nell’accaparrarsi territori e risorse al fine di imporsi.
Lo Stato Islamico di al-Baghdadi riassume e descrive questa «era dell’anarchia», come la definisce l’ex segretario della Lega Araba Amr Moussa, perché è l’epicentro dei due grandi conflitti che hanno cancellato l’ordine di Sykes-Picot, ovvero l’architettura di accordi coloniali siglati fra le potenze europee al termine della Prima guerra mondiale che andò a disegnare la mappa degli Stati arabi contemporanei.
Il primo conflitto del XXI secolo fra sunniti e sciiti ha i suoi prodromi nel 2003 dalle rovine dell’Iraq di Saddam Hussein, si estende alla Siria sfruttando la rivolta del 2011 contro il regime di Bashar Assad, sbarca in Yemen con il colpo di Stato dei ribelli houthi nel marzo 2015 e minaccia di contagiare più Stati, dal Libano al Bahrein, dal Pakistan al Kuwait, fino all’Arabia Saudita. Quasi ovunque sono gli sciiti, sostenuti dall’Iran di Ali Khamenei, a passare all’offensiva innescando nei sunniti il timore di essere travolti, fino al punto da spingerli a sostenere organizzazioni terroristiche come lo Stato Islamico e al-Qaida.
Il secondo conflitto è invece interno al mondo sunnita e vede gli Stati arabi ancora in piedi, guidati dall’Arabia Saudita di re Salman e dall’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi, in competizione con la Turchia di Recep Tayyp Erdoğan, sospettata di fomentare le rivolte islamiche per perseguire la creazione di una zona di influenza neo-ottomana con il sostegno dell’emirato del Qatar, con cui Ankara ha creato un Consiglio di cooperazione strategica. Sebbene Riyad e Il Cairo alternino fasi di attrito e dialogo nei rapporti con Ankara e Doha, la divergenza di approccio è netta: le prime sostengono i regimi esistenti, le seconde i gruppi rivoluzionari. Il Califfato è...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Introduzione
  6. 1. Sfida per l’Islam
  7. 2. Campi di battaglia: il fronte orientale
  8. 3. Campi di battaglia: il fronte occidentale
  9. 4. L’Europa sulla linea del fuoco
  10. 5. Protagonisti militari
  11. 6. Leader rivali
  12. Note