CAPITOLO SETTE
Il concerto
Dopo aver trovato su Google maps il percorso, ci preparammo per la serata, decidendo entrambe di indossare un vestito e osare dei tacchi. Era un teatrino, niente di che, ma l’idea del concerto di musica classica ci aveva condizionate e i soliti jeans non erano sembrati più l’abbigliamento giusto.
L’edificio era poco distante dai Navigli; tutto sommato sarebbe potuto passare anche inosservato, e ammetto che, di primo impatto, ne fui delusa.
Quando arrivai alla cassa dissi timidamente i nostri nomi e subito la persona ci fece entrare, accompagnandoci in una delle prime file. La sala era in penombra e già discretamente affollata, ma diverse persone si erano aggiunte alla coda alla cassa dopo di noi.
«Gioia, da qui non potrò né tirare fuori le cuffie né dormire.»
«Anna! Siamo qui per ascoltare.»
«Sì, lo so, ma non amo molto la musica classica. Era solo nel caso estremo d’impossibilità a sopportare ancora e…»
Le diedi una gomitata.
«Smettila! Sei terribile.»
Il palco era ancora chiuso da pesanti tende di velluto rosso, i bordi ormai consumati dal tempo. Nell’aria c’era odore di legno, polvere e uno strano aroma di frutta e menta, probabilmente emanazione di caramelle varie di cui la gente si era premunita per evitare incontrollabili e imbarazzanti colpi di tosse o noiose arsure.
Mi sistemai sulla poltroncina con una leggera ansia nel petto.
L’avrei visto? Lui mi avrebbe vista?
Non riuscivo a immaginare Massimo in un simile contesto, non sarebbe stato proprio da lui, e la cosa mi lasciò un po’ perplessa, ma immaginai che le caratteristiche del ricevente si mescolassero a quelle del donante, creando un nuovo e imprevedibile cocktail.
L’annunciatore, serio e impomatato tanto da sembrare uscito dalla televisione in bianco e nero, presentò l’inizio del concerto. Poi le tende si aprirono.
Non so perché, ma all’apparire della piccola orchestra mi venne in mente un vecchio carillon, un regalo di mio padre di ritorno da un qualche seminario in giro per il mondo.
C’era una tenera banda di orsacchiotti che suonava una melodia natalizia girando imperterrita in quel suo percorso senza fine. Trovavo stupido quel loro ripercorrere lo stesso giro infinite volte, e m’immaginavo di staccarli dalla base e liberarli per la stanza dei giochi, finalmente liberi di intraprendere una nuova destinazione. In effetti ci provai, ma ottenni solo la sua distruzione e l’ennesima sgridata dei miei. Forse è per questo che avevo rimosso il ricordo.
Il direttore alzò la bacchetta e iniziò a guidare gli orchestrali nell’esecuzione del brano. Una musica lieve cominciò a diffondersi nell’aria, tutti i musicisti parevano seguire l’ondeggiare delle sue mani come una danza. Non avevo mai osservato con attenzione quei movimenti ora fluttuanti, poi decisi e quasi minacciosi, che legavano tutti i musicisti in una magica alchimia.
Con lo sguardo cercavo Angelo, ma non riuscivo a catturare il suo viso, nascosto com’era in seconda fila. Man mano la musica si fece più cupa e intensa, le note parevano cadere su di noi come lance infuocate, e qualcosa si mosse nel mio ventre, come se quel ritmo facesse riemergere sensazioni ancestrali ormai sopite.
Poi fu di nuovo la quiete, e a quel punto un violinista si alzò per un assolo: era Angelo.
Quella musica suonò subito stridula alle mie orecchie e poi sempre più strisciante e sensuale, incatenandomi in una struggente emozione. Mi guardai intorno e vidi che tutta la sala era rapita da quella melodia eterea, che si diffondeva nell’anima di ogni spettatore come un magico fluido. Sentii le lacrime bussare ai miei occhi e abbassai le palpebre per assaporare ogni nota, estraniandomi da tutto.
Mi rividi correre nell’erba alta, mano nella mano con Massimo, sentii il vento sbattere sul mio viso e le fronde degli alberi bisbigliare il mio nome; ero lì e nello stesso tempo fluttuavo in una zona di mezzo, senza passato e senza futuro. Fu in quell’istante che un rimbombo di tuono echeggiò nella mia testa. Aprii gli occhi di colpo e mi accorsi che il violino aveva smesso di suonare, rimpiazzato dai timpani.
Cercai Angelo con lo sguardo e lo vidi rosso in volto, ma con un’espressione di pace e soddisfazione. Aveva creato lui quella magia di cui ero stata vittima. Lui e il suo cuore.
Sbirciai Anna. Nonostante tutte le sue rimostranze, anche lei si era persa in quella melodia, e ora stava lì con uno sguardo sognante.
Alla fine del concerto, era quasi dispiaciuta. Anch’io non amavo particolarmente la musica classica, ma quella sera ero come stata toccata da una bacchetta magica.
La gente iniziò ad applaudire e io mi unii cercando ancora una volta il suo volto, giacché non pensavo mi avesse vista fino ad allora. Poi il sipario si richiuse e provai una fitta di delusione. Come potevo salutarlo?
«Anna, che faccio ora?»
«Verrà lui a cercarti.»
«Non credo. E poi non mi ha nemmeno vista, non ha mai guardato nella mia direzione!»
«Gioia…»
«Non crederà neanche che sono venuta!»
«Gioia…»
Anna mi guardava in modo strano, ondeggiando la testa come per…
Mi voltai sentendomi decisamente sciocca.
«Ciao, Angelo.»
«Ciao, Gioia. Sono felice che tu sia venuta… che voi siate venute.»
«Lei è Anna. L’amica di cui ti parlavo.»
Si strinsero la mano e non potei non notare lo sguardo di approvazione che Anna mi lanciò.
«Piacere. Confesso che questo non è il mio genere, ma è stato davvero bello.»
«Sì, sei stato bravissimo!»
«Grazie. Volete… volete venire a bere qualcosa?»
«In realtà io sono molto stanca. Sai, devo ancora abituarmi alla vita milanese. Credo che andrò a casa. Ma voi andate, andate.»
«Ma, Anna, vuoi tornare a casa da sola?»
Anna mi fulminò con lo sguardo.
«Non preoccuparti, Gioia. Non preoccuparti.»
Così dicendo afferrò la sua borsa e uscì alla svelta, forse temendo che cercassi di raggiungerla.
Angelo si rivolse a me con un nuovo tono di voce, decisamente più dolce.
«Allora, vieni?»
«Sì, d’altra parte sono stata appena scaricata. Vengo volentieri.»
«Bene, prendo solo il violino.»
Tornò poco dopo con la custodia del suo strumento sottobraccio. Sembrava trattarlo non solo con cura, ma con tenerezza, come fosse una cosa viva.
«Ti va di fare due passi sui Navigli?»
Gli sorrisi accondiscendente e ci incamminammo fuori.
L’aria era stranamente calda e le stelle ci rischiaravano, la luna pareva l’unica padrona della notte. Mi sentii come protetta da un manto invisibile.
«Allora, ti è piaciuto davvero?»
«Sì, sono stata rapita dalla tua musica.»
«Non era solo la mia musica.»
«A me sembrava di sentire solo te.»
Un istante dopo aver pronunciato quelle parole mi morsi la lingua, ma ormai era tardi. Angelo però non mi guardò compiaciuto o con presunzione. I suoi occhi erano sempre velati da una malinconia mista a una dolcezza insin...