
- 400 pagine
- Italian
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I legami pericolosi
Informazioni su questo libro
I personaggi principali, coloro che muovono la macchina lucidissima, parlano due lingue: il lettore è informato benissimo quale delle due sia quella schietta, sincera. È messo a parte del giuoco. Nessun colpo di scena gli svelerà che Valmont o la Merteuil è un demonio. Quei personaggi manifestano i loro propositi con un'accuratezza petulante e, trattandosi di persone che fanno satanicamente professione di furbizia, finanche ingenua… Giovanni Macchia
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Informazioni
Print ISBN
9788817120838eBook ISBN
9788858669259LETTERA I
CECILIA VOLANGES A SOFIA CARNAY,
PRESSO LE ORSOLINE DI *
Vedi, cara amica, che mantengo la promessa: cuffie e gale non mi piglian tutto il tempo, ne avrò sempre un poco per te. Eppure, soltanto in questo giorno, ho visto più bei vestiti che in tutt’e quattro gli anni che abbiamo trascorso insieme; e credo che l’orgogliosa Tanville1 proverà più invidia alla mia prima visita, che voglio farle presto, di quella che ha voluto farci provare tutte le volte che è venuta a trovarci in fiocchi2. Mamma m’ha domandato il mio parere su ogni cosa, mi tratta molto meno da collegiale di prima. Ho una cameriera mia; ho una camera e uno studiolo per me, ti scrivo su una gentile scrivania di cui m’han dato la chiave e dove posso rinchiudere ciò che mi pare. Mamma m’ha detto che la potrò vedere ogni giorno quando si alza; che basterà che per colazione io sia pettinata, siccome saremo sempre sole, e allora mi dirà l’ora in cui dovrò andare da lei nel pomeriggio. Posso disporre a modo mio del resto del tempo, ho l’arpa il disegno e i libri come in convento; con questo, che non c’è suor Perpetua a sgridarmi, e non dipende che da me starmene senza far nulla: ma siccome non c’è la mia Sofia per chiacchierare e ridere, preferisco occuparmi a qualche cosa.
Non sono che le cinque; e devo andare da mamma soltanto alle sette: vedi quanto tempo, avessi qualche cosa da raccontarti! Ma ancora non m’hanno detto niente; non fossero i preparativi che vedo fare, e le tante operaie che vengon per casa e tutte per me, direi che non pensano affatto a maritarmi: sarà una delle tante balordaggini della buona Giuseppina1. Tuttavia mamma m’ha detto così spesso che una damigella deve starsene in convento fin che non si sposa, che, se m’ha fatto uscire, bisogna bene che la Giuseppina abbia detto giusto.
S’è appena fermata una carrozza giù al portone, e mamma mi fa dire di andar da lei subito subito. Che sia lui? Sono ancora in disordine, mi trema la mano, mi batte il cuore. Ho domandato alla cameriera chi c’è da mamma. « Veramente », m’ha detto, « è il signor C. ». E rideva. Oh! credo che sia lui. Tornerò certo a raccontarti ciò che sarà capitato. Frattanto eccotene il nome. Non devo farmi aspettare. Addio, a fra poco.
Come ti burlerai della tua povera Cecilia! Oh! che vergogna! Ma ci saresti cascata anche tu, come me. Entrando da mamma, vedo un signore in nero, ritto accanto a lei. Ho salutato come meglio ho saputo e son rimasta lì impalata. Figùrati come lo guardavo! « Signora », dice a mamma salutandomi, « che bella damigella, apprezzo più che mai le vostre bontà ». A quelle parole così esplicite son stata presa da un tal tremito che non mi sapevo più reggere; ho trovato una poltrona, mi ci son seduta, tutta in fiamme, sconcertatissima. C’ero appena, ecco che il mio uomo mi si inginocchia davanti. Allora la tua povera Cecilia ha perduto la testa; come dice mamma, ero spaventatissima. Mi sono alzata con uno strillo… toh, come quel giorno del tuono. Mamma è scoppiata a ridere, e mi fa: « Ma che cosa ti prende? Siediti a dài il piede al signore ». E difatti, amica mia, il signore era un calzolaio. Non so dirti come son rimasta male; per fortuna non c’era che mamma. Credo che una volta sposata non mi servirò più da quel calzolaio.
Ammetti che ne sappiamo ben poco! Addio. Son quasi le sei, la mia cameriera dice che mi devo vestire. Addio, cara Sofia; ti voglio bene come se fossi ancora in convento.
P. S. Non so a chi far spedire la lettera; aspetterò che venga la Giuseppina.
Parigi, 3 agosto 17**.
1 Educanda nello stesso convento.
2 [In italiano nel testo.]
1 Portinaia del convento.
LETTERA II
LA MARCHESA DI MERTEUIL AL VISCONTE DI VALMONT,
AL CASTELLO DI *
Tornate, caro visconte, tornate; che cosa fate, che diavolo potete mai fare da una vecchia zia che ormai vi ha legato tutti i suoi beni? Partite senza indugio; ho bisogno di voi. M’è venuta una bellissima idea e mi degno affidarvene l’esecuzione. Tanto dovrebbe bastare; e, onoratissimo della scelta, dovreste accorrere a ricevere in ginocchio i miei ordini. Ma voi abusate delle mie bontà, anche da quando non ne fate più uso; e, davanti al dilemma, odio eterno o eccessiva indulgenza, la vostra fortuna vuol che la mia bontà abbia il sopravvento. Eccomi dunque a istruirvi dei miei disegni: ma da fedel cavaliere giuratemi che non v’imbarcherete in altra impresa prima d’aver condotto questa in porto. È degna di un eroe; servirete l’amore e la vendetta; sarà insomma una scapestrataggine1 di più da inserire nelle vostre memorie; già, nelle vostre memorie, siccome voglio che sian stampate un bel giorno, e mi incarico di scriverle. Ma lasciamo stare, torniamo a bomba.
La signora di Volanges sposa sua figlia: è ancora cosa segreta, me ne ha parlato ieri. E chi credete abbia scelto per genero? il conte di Gercourt. Chi m’avrebbe mai detto che sarei diventata cugina di Gercourt? Sono così inferocita che… Ma che! ancora non capite? eh, che lentezza! Ma gli avete perdonato l’avventura dell’intendentessa, allora? E io, non ho forse diritto di lagnarmi anche più amaramente di lui, mostro che non siete altro2? Ma pace, e che la speranza della vendetta mi rassereni lo spirito.
Siete stato scocciato cento volte, come me, dall’importanza che Gercourt attribuisce alla moglie che si piglierà, e dalla sciocca presunzione che gli fa credere di saper evitare la sorte comune. Conoscete le sue ridicole prevenzioni in favore dell’educazione conventuale, e il suo ancor più ridicolo pregiudizio circa la maggior riservatezza delle brune. Scommetterei che, nonostante le sessantamila lire di rendita della piccola Volanges, non avrebbe mai consentito a questo matrimonio, non fosse bruna o non fosse stata educata in convento. Dimostriamogli perciò che non è altro che un asino cornuto: un giorno lo sarà, a non averne dubbio; ma il bello sarebbe che cominciasse sin d’ora. Che spasso, sentirlo vantarsene, il giorno dopo! perché se ne vanterà; inoltre, se educate per bene la ragazzina, sarebbe una scalogna se Gercourt non diventasse, come ogni altro, la favola di Parigi.
D’altra parte l’eroina di questo romanzo merita tutte le vostre attenzioni: è davvero carina; non ha che quindici anni, un bottoncin di rosa; goffa, a dir vero, più del bisogno, e niente educata; ma son cose che non vi fan paura, a voi uomini; inoltre, un certo sguardo languido che promette assai, in verità; aggiungete che son io a raccomandarvela; non avete che da ringraziarmi e ubbidire.
Avrete questa lettera domattina. Esigo che domani sera alle sette siate da me. Non riceverò nessuno prima delle otto, nemmeno il cavalier regnante: non ha cervello abbastanza per affare di così gran momento. Vedete che l’amore non m’acceca. Alle otto risarete libero, tornerete alle dieci e cenerete con il caro oggetto: siccome mamma e figlia cenano da me. Addio, è mezzogiorno passato: fra un momento non m’occuperò più di voi.
Parigi, 4 agosto 17**.
1 Codeste parole, scapestrato e scapestrataggine, erano assai in voga quando queste lettere furon scritte; per fortuna la buona società ora comincia a non più adoperarle. [I termini francesi, roué e rouerie, vennero in voga durante la reggenza del duca di Orléans.]
2 Per capire questo passo, bisogna sapere che il conte di Gercourt aveva abbandonato la marchesa di Merteuil per l’intendentessa di ***, la quale gli aveva sacrificato il visconte di Valmont; in quella congiuntura la marchesa e il visconte divennero amanti. Si tratta di un’avventura assai anteriore agli avvenimenti narrati in queste lettere, perciò s’è creduto bene di sopprimerne tutta la corrispondenza relativa.
LETTERA III
CECILIA VOLANGES A SOFIA CARNAY
Ancora nulla, amica mia. Ieri sera c’era molta gente a cena da mamma. Avevo sì grande interesse a guardare, gli uomini soprattutto: ma come mi sono annoiata. Uomini e donne, tutti m’hanno molto guardata, poi si bisbigliavano all’orecchio: capivo bene che dicevano di me; e arrossivo, non sapevo vincermi. Eppure avrei voluto; perché ho osservato che quando guardavan le altre donne, quelle non arrossivano; o forse è per via del rossetto che mettono e che non lascia vedere il rossore del loro impaccio: perché dev’essere difficilissimo non arrossire, quando un uomo ti guarda fisso.
La cosa che più mi inquietava era il non sapere cosa pensavano di me. Però mi sembra di aver sentito una volta o due la parola graziosa; ma ho anche sentito molto distintamente la parola goffa; bisogna che sia proprio così, la donna che lo diceva è amica e parente di mamma; si direbbe anzi che ha sùbito preso a volermi bene. È l’unica persona che m’abbia parlato un poco, in tutta la serata. Domani andremo a cena da lei.
Ho sentito anche, dopo cena, un uomo che certo parlava di me e diceva a un altro: « Bisogna che maturi, vedremo quest’inverno ». E forse è lui che devo sposare; ma allora ci sono ancora quattro mesi! Che non darei per sapere come stanno le cose.
Ecco la Giuseppina, e dice che ha fretta. Ma ti voglio lo stesso raccontare un’altra mia goffaggine. Oh, credo che quella signora ha ragione!
Dopo cena si son messi a giocare. Mi son seduta vicino a mamma; non so com’è stato, ma mi sono addormentata di colpo. Un grande scoppio di risa m’ha svegliata. Non so se ridevano di me, credo di sì. Mamma m’ha permesso di ritirarmi, e m’ha fatto un grande piacere. Figùrati che eran le undici passate. Addio, cara Sofia; vogli sempre bene alla tua Cecilia. Ti garantisco che la società non è quella cosa divertente che ci figuravamo.
Parigi, 4 agosto 17**.
LETTERA IV
IL VISCONTE DI VALMONT
ALLA MARCHESA DI MERTEUIL
A PARIGI
I vostri ordini sono incantevoli; il modo di darli, anche più amabile: da innamorarsi del dispotismo. Non è la prima volta, lo sapete, che rimpiango di non più essere il vostro schiavo; e per mostro che dite ch’io sia, non ricordo mai senza piacere il tempo in cui mi onoravate di più dolci nomi. Anzi desidero spesso di meritarmeli ancora, e di offrire insieme con voi un esempio di costanza al mondo. Ma ben altri interessi ci sollecitano: il nostro destino è la conquista; lo dobbiamo seguire: e forse in capo alla carriera ci ritroveremo ancora; perché, sia detto senza offendervi, mia bellissima marchesa, mi seguite con un passo per lo meno eguale; e da quando, separandoci per la felicità del mondo, predichiamo la fede ognuno dalla sua parte, mi sembra che in codesta missione d’amore voi avete fatto più proseliti di me. Conosco il vostro zelo, il vostro ardente fervore; e se codesto dio ci giudicasse secondo le nostre opere, sareste un giorno la patrona di qualche gran città, mentre il vostro amico sarebbe al più al più un santo da villaggio. Questo linguaggio vi stupisce, vero? Ma da otto giorni non ne parlo e non ne ascolto altro; e per portarlo alla perfezione mi vedo costretto a disubbidirvi.
Non arrabbiatevi e statemi a sentire. A voi, depositaria di tutti i segreti del mio cuore, sto per confidare il più gran disegno che mai io abbia formato. Cosa mi proponete voi? di sedurre una giovinetta che non ha visto nulla; che, per così dire, mi si darebbe senza difesa; che il primo omaggio inebrierebbe, e la curiosità la spingerebbe anche più dell’amore. Venti altri ci posson riuscire come me. Non così nell’impresa che mi occupa; la vittoria qui mi garantisce gloria pari al piacere. L’amore stesso, allestendomi la corona, esita tra il mirto e il lauro, o meglio li unirà per onorare il mio trionfo. Voi stessa; mia bella amica, un santo rispetto vi prenderà, entusiasmata direte: « Ecco l’uomo secondo il cuor mio! ».
Conoscete la presidentessa Tourvel, la sua devozione, il suo amor coniugale, i suoi austeri principi. Ecco colei che attacco; ecco un nemico degno di me; ecco la mèta che mi propongo di raggiungere:
Se non giungo a toccare il premio ambito mi resterà l’onor d’avere ardito.
Si posson citare brutti versi, se sono d’un grande poeta1.
Sappiate dunque che il presidente è in Borgogna per un gran processo (spero fargliene perdere uno altrimenti importante). L’inconsolabile sua metà deve trascorrer qui tutta codesta desolante vedovanza. La messa ogni giorno, qualche visita ai poveri della regione, preghiere la mattina e la sera, passeggiate solitarie, devoti colloqui con la mia vecchia zia, ogni tanto un melanconico whist: ecco le sue distrazioni. Sto preparandogliene di più efficaci. Il mio buon angelo m’ha condotto qui, per la sua e la mia felicità. Insensato! rimpiangevo le ventiquattro ore che sacrificavo a doveri d’uso. Che castigo sarebbe, mi Costringessero a tornare a Parigi! Per fortuna bisogna essere in quattro per il whist; e siccome qui non c’è che il parroco del luogo, l’eterna mia zia m’ha insistentemente pregato di sacrificarle qualche giorno. Capite che ho acconsentito. Non potete credere come mi coccola da quel momento, soprattutto quanto è edificata vedendomi regolarissimo alle preghiere e alla messa. Non ha idea della divinità che ci adoro.
Eccomi dunque da quattro giorni in balìa d’una passione violenta. Sapete come è forte il mio desiderio, e come divoro gli ostacoli; ma non sapete quanto la solitudine accresce l’ardore del desiderio. Non ho che una sola idea: di giorno ci penso, la notte la sogno. Ho davvero bisogno di avere quella donna, per salvarmi dal ridicolo di esserne innamorato: giacché dove non conduce un desiderio contrastato? O deliziosa voluttà! Ti imploro per la mia felicità e soprattutto per il mio riposo. Che fortuna la nostra, che le donne si difendano così male! non saremmo altro che timidi schiavi accanto a loro. In questo momento provo un sentimento di riconoscenza per le donne facili che spontaneamente mi conduce ai vostri piedi. Mi prosterno per ottenere il perdono, e termino questa troppo lunga lettera. Addio, bellissima amica mia: senza rancore.
Dal castello di *, 5 agosto 17**.
1La Fontaine [nell’Epistola dedicatoria delle Favole al Delfino].
LETTERA V
LA MARCHESA DI MERTEUIL AL VISCONTE DI VALMONT
Ma sapete, visconte, che la vostra lettera è di una singolare impertinenza, e che dipende soltanto da me che me ne adonti? Però m’ha dimostrato chiaramente che avete perduto la testa, il che soltanto vi salva dal mio sdegno. Sensibile e generosa amica, dimentico l’affronto per non occuparmi altro che del pericolo vostro; e per noioso che sia il ragionare, consento al bisogno che in questo momento voi ne avete.
Voi, conquistare la presidentessa di Tourvel! oh, che ridicolo capriccio! Ma ci riconosco la vostra testa matta, che vi fa desiderare soltanto ciò che crede impossibile ottenere. Ma che cos’è mai quella donna? lineamenti regolari, se volete, ma nessuna espressione; fatta discretamente, ma senza grazia; sempre vestita in modo buffo! tutta impacchettata di scialli sul petto, e il busto che le risale al mento! Ve ne avverto da amica, non occorrono due donne così per farvi perdere tutta la considerazione di cui godete. Ma ricordatevi quel giorno che faceva la questua a San Rocco, che mi ringraziaste d’avervi procurato simile spettacolo. Mi par di vederla ancora, a mano di quello spilungone coi capelli lunghi, sempre lì lì per cascare a ogni passo, sempre addosso a qualcuno con quel suo madornale guardinfante; a ogni riverenza arrossiva. Chi v’avrebbe mai detto allora: « Un giorno desidererete codesta donna? ». E via, visconte, arrossite voi, ora, e tornate in senno. Vi giuro che non fiaterò.
E poi, considerate un poco i fastidi che vi aspettano! Che rivale vi tocca combattere? un marito! Ma non vi sentite umiliato soltanto a codesta parola? Che vergogna, se fallite! e che magra gloria, se riuscite! Dico di più: non andate a immaginare di poterne cavare qualche piacere. Che piacere ci può mai essere, con codeste pinzochere? Dico quelle in buona fede. Contegnose anche in mezzo al piacere, non vi offrono che monchi godimenti. Quell’intero abbandono di sé, quel delirio della voluttà nel quale il piacere si purifica col suo stesso eccesso: son doni dell’amore che codeste donne ignorano del tutto. Voglio farvi una predizione: nella più felice delle ipotesi, la vostra presidentessa sarà persuasa d’avervi favorito al...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Nota
- Dedica
- Avvertenza dell’editore
- Prefazione del redattore
- I legami pericolosi
- Indice