Il maestro di scherma
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Il maestro di scherma

  1. 286 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il maestro di scherma

Informazioni su questo libro

Madrid 1868. Nelle strade corre voce di un complotto contro Isabella II, ma nulla sembra toccare Jaime Astarloa, maestro di scherma fedele ai valori del passato il cui unico scopo è perfezionare l'arte della spada a livelli sublimi. Astarloa è un solitario, e vive un'esistenza immutabile, dedicata unicamente ai valori di cappa e spada, all'orgoglio, alla lealtà, all'eleganza del colpo perfetto. Ma quando la misteriosa Adela de Otero gli chiede di fare di lei un'eccellente spadaccina, il mondo di Astarloa cambia improvvisamente: la bella sconosciuta coinvolge ben presto il vecchio maestro negli intrighi che preparano la tempesta che si abbatterà sulla Spagna. Cosa cerca davvero Adela nella lama affilata di una spada? Un grande romanzo storico ricco di suspense e sensualità, sullo sfondo di un mondo pronto a cambiare, tra la passione della gioventù e la saggezza dell'esperienza.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
Print ISBN
9788817074360
eBook ISBN
9788858668986

1

Dell’assalto

“Un assalto tra uomini d’onore, diretto da un maestro animato dagli stessi sentimenti, è una di quelle diversioni proprie del buon gusto e della fina creanza.”
Molto tempo dopo, quando Jaime Astarloa volle riunire i frammenti dispersi della tragedia e cercò di ricordare come tutto fosse cominciato, la prima immagine che gli venne in mente fu quella del marchese. E quel salone aperto sui giardini del Retiro, con i primi caldi dell’estate che irrompevano dalle finestre, accompagnati da una luce tanto violenta che obbligava a socchiudere gli occhi quando colpiva il fodero brunito dei fioretti.
Il marchese non era in forma; ansimava come un mantice e, sotto la giubba, la camicia era fradicia di sudore. Di sicuro espiava così qualche eccesso della notte precedente, ma Jaime Astarloa si astenne, come d’abitudine, dal fare commenti inopportuni. Si limitò a parare di terza un pessimo attacco che avrebbe fatto arrossire un principiante, e vibrò la stoccata. La flessibile lama italiana si curvò, infierendo un robusto colpo di bottone sul petto dell’avversario.
«Toccato, eccellenza.»
Luis de Ayala-Velate y Vallespín, marchese de los Alumbres, soffocò una maledizione degna del suo rango mentre si strappava, furibondo, la maschera che gli copriva il volto. Era congestionato, rosso per il calore e lo sforzo. Spesse gocce di sudore colavano dall’attaccatura dei capelli, inzuppandogli sopracciglia e baffi.
«Che io sia maledetto, don Jaime!» C’era una nota d’umiliazione nella voce dell’aristocratico. «Ma come è possibile? È la terza volta in meno di un’ora che mi fate mangiare la polvere.»
Jaime Astarloa si strinse nelle spalle con la dovuta modestia. Quando si tolse la maschera, sotto i baffi spruzzati di fili bianchi la bocca disegnava un sorriso gentile.
«Oggi non è la vostra giornata, eccellenza.»
Luis de Ayala scoppiò in una risata gioviale e a lunghi passi attraversò il salone decorato con preziosi arazzi fiamminghi e panoplie di antiche spade, fioretti e sciabole. I suoi capelli, crespi e folti, ricordavano vagamente la criniera di un leone. In lui tutto era vitale, esuberante: il corpo grande e ben piantato, la voce energica, l’inclinazione per gli atteggiamenti ampollosi, gli accessi di passione e di allegro cameratismo. A quarant’anni, scapolo, prestante e, a detta di tutti, in possesso di una considerevole fortuna, giocatore e donnaiolo impenitente, il marchese de los Alumbres era il prototipo dell’aristocratico scapestrato tanto comune nella Spagna del XIX secolo: non aveva mai letto un libro in vita sua, ma poteva recitare a memoria la genealogia di qualsiasi cavallo famoso negli ippodromi di Londra, Parigi o Vienna. Quanto alle donne, gli scandali che di tanto in tanto regalava alla società madrilena costituivano l’argomento dei salotti, sempre avidi di novità e di chiacchiere. Portava i suoi quarant’anni splendidamente, e il solo nominarlo evocava, tra le dame, slanci romantici e passioni tempestose.
Per la verità il nome del marchese de los Alumbres alimentava leggende perfino nella timorata corte di Sua Maestà Cattolica. Si diceva, sussurrando dietro i ventagli, che in una bettola di Cuatro Caminos, durante un festino, fosse stato il protagonista di una lotta a coltello, ma non era vero, e che, nel suo podere di Malaga, avesse fatto da padrino al figlio di un famoso bandito che era stato poi giustiziato, e questo era rigorosamente certo. Della sua vita politica si sparlava poco, perché era stata fugace, ma le sue storie di sottane erano sulla bocca di tutta la città, e si bisbigliava che alcuni eminenti mariti avevano ottime ragioni di pretendere soddisfazione; che lo facessero o no, era un’altra storia. Quattro o cinque di loro gli avevano mandato i padrini, più che altro per non sfigurare davanti a tutti, e il gesto, oltre all’inevitabile levataccia, si era irrimediabilmente risolto nell’attesa dell’alba dissanguandosi sull’erba di un prato qualunque appena fuori Madrid. Le malelingue dicevano che tra coloro che avevano preteso una riparazione ci fosse nientemeno che il re consorte. Ma tutti sapevano che, se don Francisco de Asís aveva una qualche passione, non era precisamente la gelosia nei confronti dell’augusta sposa. In fondo, che la stessa Isabel II avesse o no ceduto all’incontestabile fascino del marchese de los Alumbres era un segreto che apparteneva solo ai presunti interessati, o al confessore della regina. Quanto a Luis de Ayala, lui non aveva un confessore e, secondo le sue stesse parole, non ne sentiva il benché minimo bisogno.
Il marchese, toltasi la giubba trapuntata e rimasto in maniche di camicia, abbandonò il fioretto su un tavolino su cui un servitore aveva appoggiato senza rumore un vassoio d’argento con una bottiglia.
«Per oggi basta così, don Jaime. Non ne faccio una giusta, meglio lasciar perdere. Beviamoci uno jerez
Concludere con un buon bicchiere l’ora quotidiana di scherma era diventato un rito. Jaime Astarloa, maschera e fioretto sotto il braccio, si avvicinò al suo anfitrione, accettando il calice di cristallo sfaccettato in cui il vino risplendeva come oro liquido. L’aristocratico ne aspirò l’aroma con evidente piacere.
«Bisogna riconoscere, maestro, che in Andalusia sanno imbottigliare molto bene» inumidì le labbra con il liquore e fece schioccare la lingua, soddisfatto. «Guardatelo in controluce: oro puro, sole di Spagna. Niente da invidiare a quei vinelli da femmine che si bevono all’estero.»
Don Jaime assentì, soddisfatto. Luis de Ayala gli piaceva, e gli piaceva che lo chiamasse maestro, anche se non si trattava esattamente di uno dei suoi alunni. In realtà, il marchese de los Alumbres era uno dei migliori spadaccini di corte, e da tempo non aveva bisogno delle lezioni di nessuno. Il suo rapporto con Jaime Astarloa era di altro tipo: l’aristocratico amava la scherma con la stessa passione che provava per il gioco, le donne e i cavalli. Perciò dedicava un’ora al giorno al salutare esercizio di tirare con il fioretto, attività che d’altra parte, dato il suo carattere e i suoi interessi, risultava estremamente utile al momento di risolvere questioni d’onore. Per godere di un avversario del suo livello, Luis de Ayala era ricorso, cinque anni prima, al miglior maestro d’armi di Madrid; poiché tale era ritenuto don Jaime, sebbene i tiratori alla moda considerassero il suo stile un po’ troppo classico e antiquato. Così, alle dieci di ogni mattina, eccetto il sabato e la domenica, l’insegnante di scherma giungeva puntualmente al palazzo di Villaflores, residenza dell’aristocratico. Lì, nell’ampia sala d’armi, costruita e disposta secondo i più esigenti requisiti dell’arte, il marchese si dedicava agli assalti con impegno ostinato, benché generalmente l’abilità e il talento del maestro finissero per imporsi. E da vero giocatore, Luis de Ayala sapeva essere un buon perdente. Inoltre, lo rallegrava la singolare abilità dell’esperto maestro.
L’aristocratico si tastò il petto che gli doleva ed emise un sospiro.
«Per le piaghe di suor Patrocinio, maestro, mi avete conciato come si deve... Avrò bisogno di un buona frizione di alcol dopo questo incontro.»
Jaime Astarloa sorrise con umiltà.
«Vi ho già detto che oggi non è la vostra giornata, eccellenza.»
«Certo che no. Se i fioretti non avessero il bottone sulla punta, a quest’ora sarei sotto terra. Temo di non essere stato quel che si dice un degno avversario.»
«Gli stravizi si pagano.»
«Ebbene sì! Soprattutto alla mia età. Non sono più un ragazzino, che diamine. Ma non c’è rimedio, don Jaime... Non indovinereste mai quello che mi sta succedendo.»
«Immagino che vostra eccellenza si sia innamorato.»
«In effetti» sospirò il marchese, servendosi altro jerez. «Mi sono innamorato come un damerino qualunque. Brucio d’amore.»
Il maestro di scherma si schiarì la voce lisciandosi i baffi.
«Se non sbaglio» disse «è la terza volta in questo mese.»
«Fosse solo quello. Il guaio è che quando mi innamoro, mi innamoro sul serio. Come un adolescente. Capite cosa voglio dire?»
«Perfettamente. Anche senza metafora, eccellenza.»
«È curioso. Più gli anni passano e più m’innamoro; è più forte di me. Il braccio è sempre forte, ma il cuore è debole, come dicevano i classici. Se vi raccontassi...»
A questo punto, il marchese de los Alumbres si lanciò a descrivere, con mezze parole ed eloquenti sottintesi, la sconvolgente passione che lo aveva lasciato esausto alle prime luci dell’alba. «Una vera signora, naturalmente. E il povero marito...»
«Alla fine» un sorriso cinico spuntò sul volto del marchese «oggi sono ridotto così a causa dei miei peccati.»
Don Jaime scosse il capo, ironico e indulgente.
«La scherma è come la comunione» ammonì con un sorriso. «Bisogna riceverla con la dovuta disposizione d’animo e di corpo. Contravvenire a questa legge suprema comporta infallibilmente il castigo.»
«Diavolo, maestro. Questa me la scrivo.»
Jaime Astarloa portò il bicchiere alla bocca. Il suo aspetto contrastava con la vigorosa umanità dell’allievo. Il maestro di scherma aveva superato da qualche anno il mezzo secolo; era di media statura, e l’estrema magrezza gli dava una falsa apparenza di fragilità, smentita dalla fermezza delle membra, asciutte e nodose come sarmenti di vite. Il naso leggermente aquilino sotto una fronte spaziosa e nobile, i capelli bianchi ma ancora abbondanti, le mani affusolate e ben curate, tutto emanava un’aria di serena dignità, accentuata dall’espressione grave degli occhi grigi, incorniciati da un’infinità di piccole rughe che, quando sorrideva, li arricchivano di vivace simpatia. Portava baffi ben curati, come si usava una volta, ma non era questo l’unico aspetto anacronistico che si poteva notare in lui. Le sue risorse gli permettevano appena di vestirsi in modo dignitoso, ma lo faceva con un’eleganza decadente, lontana dai dettami della moda; gli abiti, anche i più recenti, erano disegnati su modelli di vent’anni prima, il che alla sua età contribuiva a conferirgli un certo tono. Tutto ciò dava al vecchio maestro di scherma un aspetto fuori dal tempo, insensibile alle nuove usanze dell’agitata epoca in cui viveva. Di certo lui stesso se ne compiaceva intimamente, per oscure ragioni che forse neanche il diretto interessato sarebbe stato capace di spiegare.
Il servitore portò per entrambi un catino d’acqua e spugne affinché maestro e allievo si lavassero. Luis de Ayala si tolse la camicia; sul petto muscoloso, ancora lucido di sudore, si notavano i segni rossi dei fendenti.
«Per tutti i diavoli, maestro, mi avete ridotto come un flagellante... E pensare che vi pago per questo!»
Jaime Astarloa si asciugò il viso e guardò il marchese con benevolenza. Luis de Ayala si bagnava il petto, sbuffando.
«Certo che » aggiunse «la politica di stoccate ne dà di più. Sapete che González Bravo mi ha chiesto di dargli il voto? Pare che ci sia un nuovo incarico in vista. Deve trovarsi con l’acqua alla gola, se si vede obbligato a ricorrere a un dissoluto come me.»
Il maestro di scherma accennò un’espressione di cordiale interesse. In realtà la politica non gli importava granché.
«E che cosa pensa di fare vostra eccellenza?»
Il marchese si strinse nelle spalle, sdegnoso.
«Fare? Assolutamente niente. Ho già detto al mio illustre omonimo che in quel genere di avventura coinvolga piuttosto il suo signor padre. Con altre parole, si intende. A me interessa la dissolutezza, un tavolo da gioco in un casinò qualsiasi e un bel paio d’occhi accanto a me. Del resto possiedo già abbastanza.»
Luis de Ayala era stato deputato nelle Cortes, occupando per un breve periodo un importante incarico di segretario al ministero degli Interni durante uno degli ultimi gabinetti di Narváez. Il termine del suo mandato, durato appena tre mesi, aveva coinciso con la morte del titolare del ministero, lo zio materno Vallespín Andreu. Poco tempo dopo, Ayala si era ritirato di sua spontanea volontà dal ruolo di parlamentare al Congresso, e aveva abbandonato le file del partito moderato, nel quale, fino ad allora, aveva militato con scarso impegno. La frase “possiedo già abbastanza”, pronunciata dal marchese in una conversazione tra colleghi all’Ateneo, aveva avuto fortuna, passando al linguaggio politico quando si voleva esprimere profonda delusione rispetto alla funesta realtà nazionale. A partire da allora, il marchese de los Alumbres si era mantenuto al margine di qualsiasi attività pubblica, negando la propria approvazione agli accordi civico-militari avvenuti sotto i diversi gabinetti della monarchia, e si limitava a osservare l’agitazione politica del momento con il sorriso di chi è fuori dal gioco. Aveva un alto tenore di vita e perdeva, senza batter ciglio, enormi somme di denaro sui tavoli da gioco. Si mormorava che si trovasse continuamente sull’orlo della rovina, ma Luis de Ayala finiva sempre per rimettersi in sesto come se potesse attingere a risorse segrete.
«Come prosegue la vostra ricerca del Graal, don Jaime?»
Il maestro di scherma si stava abbottonando la camicia, e interruppe l’operazione per lanciare uno sguardo sconsolato al suo interlocutore.
«Non molto bene. Male, suppongo che sia la parola esatta... Mi domando spesso se l’impegno non sia superiore alle mie capacità. Ci sono momenti in cui, ve lo confesso sinceramente, rinuncerei volentieri.»
Luis de Ayala terminò le abluzioni, si passò un asciugamano sul petto e prese il bicchiere di jerez che aveva lasciato sul tavolo. Fece tintinnare il cristallo con un colpo d’unghia, e lo avvicinò all’orecchio con un’espressione soddisfatta.
«Sciocchezze, maestro. Sciocchezze. Voi siete sicuramente in grado di portare a termine un’impresa tanto ambiziosa.»
Un sorriso triste aleggiò sulle labbra del maestro di scherma.
«Mi piacerebbe condividere la vostra fiducia, eccellenza. Ma alla mia età si incontrano sempre più intoppi... Anche dentro se stessi. Comincio a sospettare che il mio Graal non esista.»
«Sciocchezze.»
Da molti anni Jaime Astarloa lavorava alla stesura di un Trattato sull’arte della scherma, la cui pubblicazione, a detta di quanti conoscevano le sue straordinarie doti e la sua esperienza, avrebbe costituito di sicuro una delle opere capitali sul tema, paragonabile solo agli studi di grandi maestri come Gomard, Grisier e Lafaugère. Ma l’autore stesso negli ultimi tempi aveva iniziato a porsi seri dubbi circa la propria capacità di sintetizzare per iscritto ciò a cui aveva dedicato la vita. Di fatto, esisteva una circostanza che contribuiva ad aumentare la sua inquietudine. Affinché l’opera fosse il non plus ultra in materia, era necessario che vi figurasse il colpo maestro, la stoccata perfetta, impareggiabile, la creazione più pura illuminata dal talento umano, modello di ispirazione ed efficacia. Don Jaime si era dedicato a questo compito dal primo giorno in cui il suo fioretto aveva incrociato un ferro avversario. Il suo inseguimento del Graal, come egli stesso lo chiamava, era risultato sterile fino ad allora. E ormai, iniziato il cam...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. 1 Dell’assalto
  4. 2 Attacco di seconda intenzione
  5. 3 Uscita in tempo su un falso attacco
  6. 4 Stoccata corta
  7. 5 Attacco glissé
  8. 6 Distacco forzato
  9. 7 Dell’invito
  10. 8 A punta nuda
  11. Indice