Il Paradiso per davvero
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Il Paradiso per davvero

Un biglietto per il cielo andata e ritorno

  1. 234 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il Paradiso per davvero

Un biglietto per il cielo andata e ritorno

Informazioni su questo libro

Colton Burpo non ha ancora quattro anni quando viene ricoverato d'urgenza per un'appendicite perforata. Mentre lo stanno operando i medici "perdono" il bambino per tre lunghi minuti. Al termine dei quali Colton si risveglia, come per miracolo. L'intervento è riuscito e il piccolo si ristabilirà perfettamente, ma in quei tre minuti è successo qualcosa: mentre il suo corpo giaceva sul tavolo operatorio il bimbo ha compiuto un incredibile viaggio, fino al Paradiso e ritorno. Trascorreranno diversi mesi prima che Colton riveli ai genitori - sempre più sconcertati - gli incredibili dettagli della sua grande avventura. In questo libro il padre, Todd, riporta il racconto del bambino, che dice di aver osservato "dall'alto" il medico mentre lo "aggiustava"; di aver incontrato Gesù - che lo ha preso in braccio - e Dio, che è "grandissimo"; di aver conosciuto la sorellina mai nata e di cui nessuno gli aveva mai parlato. La straordinaria esperienza che ha illuminato la vita di una famiglia come tante ed ha toccato il cuore di milioni di persone in tutto il mondo, nutrendo in ciascuno di noi una dolce speranza.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2015
Print ISBN
9788817085083
eBook ISBN
9788858682524

1

Il Regno del Ragno

Il viaggio tramutatosi in incubo, in realtà, doveva essere l’occasione per festeggiare la fine di un periodo nero. Ai primi di marzo del 2003 sarei andato a Greeley, in Colorado, per una conferenza della Chiesa wesleyana a cui partecipavano tutti i pastori del nostro distretto. A partire dall’agosto precedente, la nostra famiglia aveva attraversato tempi duri: sette mesi di infortuni e malattie uno dietro l’altro, tra cui si contavano una gamba rotta, due interventi chirurgici e il sospetto di un tumore. Tutto ciò aveva contribuito a prosciugare il nostro conto in banca a tal punto che, quando arrivavano gli estratti conto, mi pareva quasi di sentire il risucchio di una cannuccia sul fondo di un bicchiere ormai vuoto. In qualità di pastore avevo continuato a percepire uno stipendio, per quanto modesto, ma la nostra principale fonte di sostentamento era la ditta di porte per garage che gestivamo, e tutti quei problemi di salute ci erano costati cari.
Con l’arrivo di febbraio, però, sembrava che ci fossimo lasciati tutto alle spalle. Perciò, dal momento che avrei dovuto partire comunque, decidemmo di trasformare il viaggio «di lavoro» in una gita speciale, una sorta di spartiacque per voltare pagina con rinnovata speranza dopo quel periodo difficile e ritemprare la mente e lo spirito.
Sonja era venuta a sapere di un bel posto dove portare i bambini, poco fuori Denver: il Butterfly Pavilion. Le pubblicità lo definivano «lo zoo degli invertebrati»: aveva aperto nel 1995, con lo scopo di introdurre il pubblico alle meraviglie degli insetti e della fauna marina che vive nelle piccole piscine naturali che si formano al ritrarsi della marea. Oggi ad accogliere i giovani visitatori all’ingresso c’è un’imponente scultura metallica che rappresenta una mantide religiosa. Ma nel lontano 2003 l’insetto gigante non aveva ancora occupato quella posizione, e al nostro arrivo ci trovammo davanti un basso edificio in mattoni, non particolarmente allettante agli occhi di un bambino. Invece all’interno racchiudeva un mondo di meraviglie da scoprire, soprattutto per piccoli curiosi come Cassie e Colton.
Per prima cosa facemmo tappa nel Regno del Ragno, una stanza piena di terrari che ospitavano vari animaletti, dai coleotteri agli scarafaggi agli aracnidi. Un’attrazione in particolare calamitò l’attenzione dei miei figli: la Torre della Tarantola, un’alta pila di contenitori in vetro dove, esattamente come recitava il dépliant, vivevano ragni dalle zampe grasse e pelose. Del tipo che, o ti affascina, oppure ti mette i brividi.
Cassie e Colton fecero a turno per salire su una scaletta pieghevole che permetteva di sbirciare gli inquilini ai piani alti. Acquattata nell’angolo di un terrario, c’era una tarantola bionda di Tucson con l’esoscheletro coperto – stando alla targhetta esplicativa – di una peluria dalle «adorabili» sfumature pallide. Un altro contenitore era occupato da una tarantola rossa e nera originaria dell’India, mentre uno degli esemplari più inquietanti era la «tarantola scheletro», così chiamata perché le sue zampe nere sono segmentate da strisce bianche, creando una sorta di effetto raggi X. Scoprimmo poi che quel ragno in particolare era un piccolo ribelle: una volta, non si sapeva come, era riuscito ad architettare un’evasione, aveva fatto incursione in «casa» del vicino e se l’era mangiato per pranzo.
Mentre Colton saltava sulla scaletta per dare un’occhiata alla tarantola birichina, si girò a guardarmi con un sorrisone che mi scaldò il cuore. Sentii un nodo di tensione sciogliersi all’altezza del collo, e da qualche parte dentro di me si aprì una valvola di sfogo, l’equivalente emotivo di un lungo sospiro. Per la prima volta dopo mesi, potevo godermi la mia famiglia senza preoccupazioni.
«Wow, guardate quella!» esclamò Cassie, indicando un terrario. Mia figlia, sei anni, alta e magrolina, era scaltra come una volpe; caratteristica, quest’ultima, che aveva preso dalla mamma. Stava puntando il dito verso una targhetta che recitava: «Tarantola Golia… le femmine possono raggiungere una lunghezza di oltre 27 centimetri».
Quella nella teca era relativamente piccola, ne misurava all’incirca 15, ma il suo corpo era spesso come il polso di Colton. Che la fissava a occhi spalancati attraverso il vetro. Vidi Sonja storcere il naso.
Evidentemente anche uno dei custodi che prestavano servizio volontario nello zoo doveva aver notato la sua espressione, perché accorse subito in difesa dell’aracnide. «La tarantola Golia viene dal Sudamerica» annunciò con il tono di un cicerone amichevole, come per sottintendere: Non è poi così disgustosa come credete. «Le tarantole del Nord e del Sudamerica sono molto docili. Laggiù potete provare a prenderne una in mano.» E indicò un collega che teneva sul palmo una piccola tarantola per mostrarla da vicino a un gruppo di bambini.
Cassie sfrecciò dall’altra parte della stanza per vedere che cosa c’era di tanto interessante, e noi la seguimmo a ruota. In un angolo, che riproduceva l’interno di una capanna di bambù, il custode stava esibendo la star indiscussa del Regno del Ragno: Rosie, una tarantola sudamericana coperta di peluria rosa, con un corpo grande quanto una prugna e zampe lunghe 15 centimetri, spesse come matite. Ma l’aspetto più interessante di Rosie, dal punto di vista di un bambino, era che se avevi abbastanza coraggio da tenerla in mano, anche solo per un attimo, vincevi un adesivo.
Ora, se avete dei figli, saprete già che certe volte non c’è proprio partita: per loro un bell’adesivo vale più di un mucchio di soldi! E il premio in questione era davvero speciale: sullo sfondo bianco spiccava il disegno giallo di una tarantola, e la scritta: «Io ho tenuto in mano Rosie!».
Non un trofeo qualsiasi, insomma, ma un vero e proprio attestato di coraggio!
Cassie si chinò sopra la mano del custode. Colton guardò in su, verso di me, gli occhi azzurri spalancati. «Posso avere l’adesivo, papà?»
«Devi prendere in mano Rosie per averlo, piccolo.»
A quell’età mio figlio parlava in un modo tutto suo, a mio parere adorabile: in parte era serio e compito, in parte pieno di stupore estasiato. Era un tipetto sveglio, Colton, simpatico, con le idee ben chiare. Per lui le cose o erano bianche o erano nere. Divertenti (i Lego) oppure noiose (le Barbie), appetitose (la bistecca) o disgustose (i fagiolini). C’erano i buoni e i cattivi, e i suoi giocattoli preferiti erano i pupazzetti dei supereroi. Li adorava, e non si separava mai da Spider-Man, Batman e Buzz Lightyear. Così, che si trovasse in macchina, in una sala d’aspetto o sul pavimento della chiesa, poteva inventare delle scenette in cui gli eroi salvavano il mondo. Di solito usando la spada, la sua arma prediletta per sconfiggere il male. A casa, poi, diventava lui il supereroe: spesso lo trovavo armato fino ai denti, una spada giocattolo infilata nella cintura e un’altra in pugno. «Sto facendo Zorro! Vuoi giocare, papà?»
Abbassò lo sguardo sulla mano del custode. Immaginai che in quel momento desiderasse di avere una spada con sé, almeno come sostegno morale. Chissà come sembrava enorme quel ragno agli occhi di un bambino alto un metro e poco più! Mio figlio era un vero maschietto: un ragazzino vivace e scalmanato, che stringeva amicizia facilmente con formiche, scarafaggi e altre creaturine striscianti. Ma nessuno di quegli insetti era grande quanto la sua faccia, né coperto di peli lunghi quasi come i suoi capelli!
Cassie si raddrizzò e sorrise a Sonja. «La prendo io, mamma. Posso prendere in mano Rosie?»
«Va bene, ma dovrai aspettare il tuo turno.»
Si mise in fila dietro ad altri due visitatori, e Colton non staccò gli occhi da Rosie mentre prima un bambino e poi una ragazzina la prendevano in mano, conquistando gli ambitissimi adesivi. Pochi attimi, e arrivò il momento della verità per Cassie. Colton allora mi si aggrappò alle gambe: voleva stare abbastanza vicino da vedere sua sorella, ma allo stesso tempo cercava di ritrarsi; lo sentivo spingere contro le mie ginocchia. Cassie tese davanti a sé il palmo e Rosie, che ormai alle schiere di piccoli umani curiosi doveva averci fatto il callo, sollevò una gamba pelosa alla volta e zampettò, come su un ponte, dalla mano del custode a quella di mia figlia, per poi tornare indietro.
«Ce l’hai fatta!» esclamò l’uomo trionfante mentre io e Sonja esultavamo con un applauso. «Bravissima!» Staccò un adesivo bianco e giallo da un grosso rotolo e glielo consegnò.
Quel gesto non rese certo le cose più facili a Colton: a quel punto non solo si era fatto rubare la scena dalla sorella, ma era l’unico bambino in famiglia a non possedere l’adesivo. Scrutava con desiderio il premio, poi tornava a guardare Rosie, cercando di domare la paura. Alla fine strinse le labbra e guardandomi annunciò: «Non voglio prenderla».
«Okay» dissi.
«Posso avere lo stesso l’adesivo, però?»
«Eh, no. L’unico modo è prendere in mano il ragno, lo sai. Come ha fatto Cassie. Vuoi provarci, anche solo per un attimo?»
Colton tornò a fissare il ragno, poi ancora sua sorella. Cassie c’è riuscita. Non è stata morsa, dicevano i suoi occhi.
Scosse la testa con decisione: no. «Però voglio lo stesso l’adesivo!» insisté. Di lì a due mesi avrebbe compiuto quattro anni, ed era già molto bravo a non cedere terreno quando si metteva in testa qualcosa.
«Te l’abbiamo detto, l’unico modo per averlo è prendere Rosie» gli spiegò di nuovo Sonja. «Sicuro che non vuoi tentare?»
Per tutta risposta lui le afferrò la mano, cercando di trascinarla via. «No. Voglio andare a vedere la stella marina.»
«Sicuro sicuro?»
Colton annuì e si avviò veloce verso l’uscita del Regno del Ragno.

2

Pastore Giobbe

Nella stanza a fianco c’erano file e file di acquari e piscinette naturali ricreate sotto vetro. Passeggiammo dall’una all’altra, ammirando stelle marine, molluschi e anemoni di mare simili a fiori subacquei appena sbocciati. Cassie e Colton erano tutti un «Wow!» e un «Oooh» mentre immergevano le mani nelle vasche per sfiorare creature che non avevano mai visto.
Poi entrammo in un atrio immenso: un’esplosione di vegetazione tropicale, liane che scendevano dal soffitto, rami che si arrampicavano verso il cielo. Osservai le palme e i fiori esotici, sembravano appena usciti da uno dei libri di avventure di Colton. E tutto intorno a noi volteggiavano centinaia di farfalle, battendo impercettibilmente le ali.
Lasciai i bambini liberi di esplorare e con la mente tornai all’estate precedente, quando io e Sonja, come ogni anno, avevamo partecipato a un torneo di softball a squadre miste. Solitamente ci classificavamo tra le prime cinque, anche se la nostra squadra di «veterani» – cioè di gente «sopra i trenta» – sfidava i «ragazzini» dell’università. Riflettevo su quanto fosse ironico che quei sette mesi di disavventure mediche fossero cominciati con un infortunio durante l’ultima partita dell’ultimo torneo del 2002. Io giocavo nel ruolo di centrale, mentre Sonja in quello di esterna. All’epoca aveva terminato il master in biblioteconomia, e mi sembrava ancora più bella di quando l’avevo notata per la prima volta, da matricola, mentre passeggiava nel cortile del Bartlesville Wesleyan College.
L’estate stava finendo, ma la canicola non accennava a darci tregua, con giornate di caldo soffocante, assetate di pioggia. Avevamo fatto una trentina di chilometri per andare da Imperial a Wauneta, il paese dove si sarebbe tenuto un torneo a doppia eliminazione. Era quasi mezzanotte e, sotto l’alone azzurrino delle luci del campo, ci stavamo battendo per rimontare nel tabellone delle eliminatorie.
Non ricordo quale fosse il punteggio, ma stavamo giocando l’ultimo tempo della partita e ci mancava poco per passare in vantaggio. Dopo la battuta ero riuscito a conquistare due basi. Il nostro battitore successivo prese posizione e rispose al lancio degli avversari spedendo la palla nell’erba di centrocampo. Era la mia occasione. Mentre un difensore correva a raccoglierla, mi lanciai verso la terza base.
Sentii la palla che solcava l’aria, diretta al campo interno.
Il nostro suggeritore in terza base si agitava freneticamente urlandomi: «Tuffati! Tuffati!».
Con l’adrenalina che mi pompava nelle vene, mi lanciai a terra e sentii il terreno rosso scivolarmi sotto il fianco sinistro. L’avversario in terza base allungò il guantone per prendere la palla e…
Crac!
Il rumore della mia gamba che si spezzava fu così forte che immaginai che la palla avesse attraversato il campo come un proiettile e mi avesse colpito. Sentii un’esplosione di fuoco nel polpaccio e alla caviglia. Caddi sulla schiena e mi rannicchiai in posizione fetale, raccogliendo il ginocchio al petto. Provavo un dolore lancinante e ricordo che in pochi secondi il terreno attorno a me si trasformò in un andirivieni confuso di gambe e visi preoccupati, mentre due miei compagni di squadra, entrambi operatori di primo soccorso, accorrevano in mio aiuto.
Rammento vagamente anche Sonja, che si era precipitata a vedere come stavo. Dalla sua espressione intuii che la mia gamba era piegata in modo innaturale. Si tirò indietro, per lasciare spazio ai paramedici. Dopo la corsa in ambulanza, le radiografie rivelarono un paio di brutte fratture. La tibia aveva subìto quella che in gergo medico si chiama «frattura spiroide»: in altre parole, nel punto in cui si era rotto, l’osso aveva assunto l’aspetto a spirale di una punta di trapano. In più mi ero spezzato a metà la caviglia. Era quella, probabilmente, l’origine del rumore secco che avevo sentito. Più tardi mi dissero che era stato talmente forte che se n’erano accorti persino gli spettatori seduti vicino alla prima base.
Quello stesso crac mi risuonava nella testa mentre guardavo i miei figli superarci di corsa nell’atrio del Butterfly Pavilion. Si fermarono su un ponticello e sbirciarono giù, verso un laghetto di carpe koi, parlottando e indicandole con il dito. Nugoli di farfalle ci volavano intorno; aprii la guida che avevo comprato all’ingresso per cercarne i nomi. C’erano le «morfo blu», con ali di un intenso color acquamarina; le «farfalle aquilone» bianche e nere, che volavano lentamente, con grazia, simili a coriandoli di carta di giornale piovuti dal cielo; e poi le «sulfuree», farfalle tropicali con le ali della stessa sfumatura del mango fresco.
A quel punto, pensai, ero già felice di poter finalmente camminare senza zoppicare. Oltre al dolore tremendo della frattura, la conseguenza più immediata dell’incidente era la ricaduta sulle nostre finanze. Credetemi, è piuttosto dura salire e scendere da una scala per installare la porta di un garage trascinandosi dietro un’ingessatura di quasi cinque chili e un ginocchio che non si piega! Il nostro conto in banca, all’improvviso, iniziò a precipitare in picchiata. Con il mio esiguo stipendio di pastore, i pochi risparmi che avevamo messo da parte si volatilizzarono nel giro di poche settimane. E, nel frattempo, le entrate si dimezzarono.
Le difficoltà, però, andavano oltre l’aspetto economico. Prestavo servizio come volontario nei vigili del fuoco ed ero istruttore di wrestling nelle scuole superiori, impegni che ovviamente risentirono della gamba rotta. Anche le domeniche diventarono più faticose. Dovete sapere, infatti, che quando pronuncio il sermone ho l’abitudine di camminare avanti e indietro. Intendiamoci, non sono uno di quei predicatori che si agitano e gridano minacciando i fedeli con la dannazione eterna, ma nemmeno un pastore timido, che si limita a leggere i testi liturgici dal pulpito. A me piace raccontare storie, e per farlo ho bisogno di muovermi un po’. Ebbene, dopo l’infortunio mi toccò predicare stando seduto, con la gamba sollevata e appoggiata su un’altra sedia che sporgeva in fuori come il fiocco di una barca a vela. Chiedermi di tenere il sermone da seduto è come chiedermi di non respirare. Nonostante mi sforzassi di superare tutti quei disagi, non immaginavo neppure che quella sarebbe stata soltanto la prima tessera del domino a cadere.
Una mattina di ottobre, quando mi ero finalmente abituato a trascinarmi in giro con le stampelle, mi svegliai con delle fitte tremende alla schiena. Riconobbi all’istante il problema: calcoli renali.
C’ero già passato: la prima volta mi avevano trovato un calcolo di sei millimetri, che aveva richiesto un intervento. Adesso, dopo gli esami del caso, i medici conclusero che i calcoli erano abbastanza piccoli perché potessi «farli passare». Non so se sia stata una cosa positiva, però, perché ci impiegai tre giorni. Una volta mi sono chiuso un dito nel portellone della macchina, e mi è saltata via la punta. Credetemi: una passeggiata rispetto ai calcoli! Persino rompermi la gamba in quattro punti non era stato così dolor...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Prologo - Angeli al fast food
  5. 1 Il Regno del Ragno
  6. 2 Pastore Giobbe
  7. 3 Colton resiste
  8. 4 Segnali di fumo
  9. 5 L’ombra della morte
  10. 6 North Platte
  11. 7 «È finita»
  12. 8 Infuriarsi con Dio
  13. 9 Un’attesa straziante
  14. 10 Preghiere fuori del comune
  15. 11 Colton Burpo, recupero crediti
  16. 12 Vedere il Paradiso con i propri occhi
  17. 13 Luci e ali
  18. 14 L’orologio del cielo
  19. 15 Confessione
  20. 16 Babbo
  21. 17 Due sorelle
  22. 18 La sala del trono di Dio
  23. 19 Gesù ama davvero i bambini
  24. 20 Vivere e morire
  25. 21 La prima persona che incontrerai
  26. 22 Nessuno è vecchio in Paradiso
  27. 23 Una luce superiore
  28. 24 Il momento di Ali
  29. 25 Le spade degli angeli
  30. 26 La guerra che verrà
  31. 27 Un giorno vedremo
  32. Epilogo
  33. Cronologia
  34. Ringraziamenti
  35. La famiglia Burpo e Lynn Vincent