Lettera a mia figlia sull'amore
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Lettera a mia figlia sull'amore

  1. 200 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Lettera a mia figlia sull'amore

Informazioni su questo libro

Cosa deve insegnare un padre a una figlia, se non il potere dell'amore? Cinque anni fa, quando è nata Beatrice, Nek ha scoperto una delle forme d'amore più travolgenti, quella che si prova per un figlio, ma prima di allora ne aveva vissute, cantate e raccontate tante altre: per la musica innanzi tutto; per la moglie Patrizia, un legame che dura da vent'anni ma che gli fa battere il cuore come il primo giorno; per Dio, più padre che dogma, riscoperto nel 2007 grazie a un incontro speciale; per la sua terra: l'Emilia e Sassuolo che sono come l'America; per il suo grande eroe, il padre Cesare, scomparso dopo aver sofferto molto. In questa lunga lettera, con parole dolci e toccanti, Nek spiega l'amore in tutte le sue sfumature, da quello spassionato che fa fare le acrobazie, all'amore maturo che fa le sue scelte e vive le sue sofferenze. E, pagina dopo pagina, ecco svelato il segreto di una vita felice con la raccomandazione alla sua piccola di usare tutta l'energia che possiede per amare in modo esagerato e vivere al massimo. Grazie al talento speciale di Nek di emozionare con le parole, questo libro è un tuffo nella vita piena di passione di un artista amatissimo.

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in concerto

DITE AL PAPA
DI ASPETTARE

Mi dispiace ma non posso, Laura c’è.
Laura non c’è
Roma, 1997.
«Se vuoi ci amiamo adesso,
«se vuoi, però non è lo stesso tra di noi,
«da solo non mi basto, stai con me
«solo è strano che al suo posto ci sei te, ci sei te…»
Sento la mia voce che esce dalle casse, sempre più bassa, man mano che cammino e mi allontano dallo showcase dove ho appena suonato. Centinaia di mani mi toccano, cercano di attirarmi verso di loro. Loro chi? Non riesco a distinguerle: so che hanno occhi azzurri, castani o verdi. Capelli corti oppure lunghi, legati in una coda o lasciati liberi sulle spalle. Sono alte, basse, esili o robuste. Non me ne accorgo nemmeno, non vedo le differenze. Sono ragazze, una massa che urla, mi chiama e mi tocca per avere un autografo. Qualcuno apre un varco davanti a me, riesco a passare e andare verso la macchina.
Non c’è più tempo per gli autografi, non c’è più tempo per niente, nemmeno per una stretta di mano, il mio manager cerca di scusarsi. Io sono carico e sorrido facendomi trascinare via. Mi spiace per quelle che non sono riuscite a farsi la foto o ad avere la firma sul disco. Sarà per un’altra volta, ma mi aspettano altrove.
La macchina parte, guardo appena fuori dal finestrino quello che mi lascio alle spalle. Ci buttiamo nel traffico della capitale. Non ne sono sicuro, ma potremmo essere sulla Salaria e quelli che si stagliano nel cielo terso romano sono i pini di Villa Ada, credo… Almeno le strade e i posti non sono un problema mio. Io salgo sulla macchina, il manager parla con l’autista e mi portano alla casella successiva del gioco. È così da mesi.
Incrocio gli occhi dell’autista, mi guarda, chissà cosa pensa, forse la mia gamba che si muove su e giù proprio dietro il suo sedile gli dà noia... Dobbiamo sbrigarci, siamo in ritardo.
Non ho tempo di rilassarmi. Batto con le mani sulla coscia un ritmo che mi gira nella testa, tum tu tum, tum tu tum, scarico la tensione come posso. Non mi ricordo neppure quando è stata l’ultima volta che ho suonato per i fatti miei la batteria.
Il cellulare squilla, adesso proprio non ho voglia di parlare con nessuno, lo ignoro. A ruota suona anche quello del manager che invece risponde. Lui deve. Qualcuno urla, dall’altra parte. «Tranquilli, arriviamo, abbiamo appena finito!» risponde. La voce non sembra tranquillizzarsi e lo vedo agitato: «Se ho detto che stiamo arrivando, arriviamo… Sì, siamo appena partiti». Non sa più che cosa inventarsi per placare i discografici. So che sono loro, ci stanno aspettando per le prove.
Stasera suono in Vaticano per il Papa.
Lo sento farfugliare ancora e poi perdo la pazienza. Gli strappo il telefono di mano. «Siamo in ritardo, e va be’, dite al Papa di aspettarmi! Scusa, sono un ospite, è anche una questione di rispetto!»
Capito, Bea, com’ero messo? Il successo di Laura non c’è mi aveva dato letteralmente alla testa. Capita di prendersi cotte colossali per qualcosa che invece andrebbe trattato con la giusta distanza. Il successo è una di queste e a volte può farti perdere il senso della misura. Io l’avevo smarrito, insieme a quello della realtà. Infatuato di qualcosa che mi faceva camminare tre metri sopra i comuni mortali, sarei impazzito se non avessi avuto alle spalle tutto quello che mi aveva trasmesso una famiglia equilibrata, di sani valori e principi, che mi ha insegnato a ridimensionare ogni cosa. Non saprei dirti bene come sono rientrato, ma sono rientrato. Per fortuna.
Così oggi posso dirti che amo il successo e ho imparato a trattarlo dandogli il giusto valore e tenendolo alla distanza che merita.
È una cosa che vorrei trasmettere anche a te che cominci a capire che non sono proprio come gli altri papà dei tuoi compagni di asilo. Vorrei che ti stampassi nella testolina che nonostante la notorietà, non sono meglio degli altri, anzi sbaglio come tutti, a volte pure di più. Cancella dai tuoi pensieri che sono il “migliore” solo perché famoso. È divertente quando con le tue amichette mi chiamate e cantate qualche mia canzone, va bene, ma è solo un gioco, è bello riderci sopra, non pensare che la popolarità sia tutto e che il valore di una persona si misuri in base a quanta ne ha.
Nel periodo di Laura non c’è avevo perso il senso del limite. Una volta ero a Riccione, ospite in uno show televisivo. Arrivai all’ultimo momento, giusto in tempo per fare le prove prima dell’inizio della diretta. Dall’albergo, il palco distava pochi metri. Lungo il tragitto, che feci a piedi, incrociai una famiglia: padre, madre e figlioletta. Ero stanco, ma soprattutto nervoso, non ricordo per che cosa in particolare. La donna con in braccio la bambina mi affiancò e mi chiese se potevo fare una foto con la bambina. «NO!» risposi. Un “no” secco e scandito, con un tono di voce forte. Non mi ricordo benissimo chi c’era lì con me, se il mio assistente o chi… Chiunque fosse, rimase allibito dalla mia reazione e tentò di farmi cambiare idea, ma io continuai dritto senza fermarmi. La piccolina ci rimase male e si mise a piangere. La portarono via dicendomene giustamente di ogni. Io ancor più contrariato incalzai rispondendo che ero stanco. Una scena pietosa. Ogni volta che ci penso, provo vergogna.

Non mi fermavo mai,
ero come su un treno in corsa
lanciato verso una meta
fantasmagorica.

Un treno così veloce che mi impediva di guardare fuori dal finestrino, scorgere i contorni delle immagini, i panorami. Come se la realtà non ci fosse più. Il rischio di un successo che non riesci a gestire è proprio questo: perdi il contatto e non ti accorgi più di quanto ti accade attorno. Non è una gran cosa, sai? Allontanarsi dalla gente, da quello che sente, ti preclude automaticamente la possibilità di entrargli nel cuore con una canzone.

Se non ti fermi
nemmeno per un attimo,
vuol dire che stai lavorando
solo per il successo.
E allora c’è qualcosa che non va

e i conti non tardano ad arrivare. Se le parole di mio padre non mi fossero risuonate continuamente nella testa, se non ci fosse stata tua madre, la bussola forse non l’avrei più ritrovata.
Anche nel lavoro il contributo della mamma è fondamentale, è una delle persone cui mi rivolgo per avere consigli, indicazioni sulle scelte che devo fare. Rema dalla mia parte, non ha interessi personali come possono averne altri e so che è sincera, mi dice sempre quello che pensa, nel bene o nel male. Al mio fianco c’è anche Gabriele, un manager molto capace che sa consigliarmi, ma mi faccio guidare anche da lei: ha un talento innato, che poi ha pure affinato nel tempo, nel riconoscere la forza di una canzone. Non tutti sono in grado di farlo: io per esempio non ne sono capace con i miei pezzi, perché quelli che scrivo diventano tutti importanti allo stesso modo, proprio come dei figli. Amo tutto quello che ho fatto, non ci sono canzoni che odio, neppure che mi hanno stancato, solo che sento un po’ più lontane perché hanno un linguaggio che appartiene a un periodo che è passato. Tutto qua.
L’unico scontro furioso che ho avuto con la mamma è avvenuto proprio per il lavoro. Un giorno, mi ricordo, arrivai a casa con quella che mi sembrava una notizia fantastica.
«Oh, Patty, fanno il film di Laura non c’è e vogliono che io sia il protagonista» le dissi quasi incredulo.
Lei mi guardò sgranando gli occhi. «Be’, io rifiuterei. Un conto è fare il cantante, un altro è fare l’attore!» disse senza pensarci due secondi.
Le sue parole furono una mazzata, non me le aspettavo. Io che sono molto permaloso mi offesi a morte. Litigammo come non avevamo mai fatto prima. Da una parte c’era chi, motivato dai soldi che ci avrebbero dato, mi spingeva a provarci, dall’altra la mamma che pensava fosse la cosa più stupida che potessi fare in quel momento della mia carriera.
A me sembrava una buona opportunità: a chiunque lo avessero proposto, forse, sarebbe sembrata tale. Passata la rabbia di quel giorno, e pure l’euforia, cominciai a riflettere sul serio. L’ho sempre ascoltata molto e lo feci anche allora. Aveva ragione lei: non ero Dio e non me ne rendevo neppure conto. Credo di essere bravo a cantare, ma non so recitare. Non sono Robert De Niro e sono pochi i musicisti che riescono bene anche nel cinema. Io non mi sarei distinto e mi sarei solo reso ridicolo. Alla fine accettai di fare un cameo negli ultimi cinque minuti, dove recito la parte di me stesso.
Laura non c’è, il film, non è granché, però sono contento di poterti raccontare che una mia canzone ha ispirato una pellicola, ne vado molto fiero!

Sono convinto
che il caso non esista
e che la mamma
mi sia stata affiancata
per guidarmi,

per farmi rientrare dai miei sbandamenti, per farmi riconoscere i limiti. Credo davvero che sia uno dei miei angeli custodi.
Mi piace il successo, te lo ripeto, ma ho imparato con il tempo a conviverci in una maniera che mi sembra sana. Oggi mi godo quello che faccio dandomi anche il tempo di pensare e di metabolizzare. Vent’anni fa no. Forse dal punto di vista fisico ero in grado di affrontare tutto, anche una mole di lavoro esagerata, ma in fondo non avevo il tempo di apprezzare niente.
Pure tu che sei piccola cominci a essere attratta dal successo. Te lo leggo negli occhi e nell’attenzione che hai quando siamo in giro insieme, soprattutto a Milano, dove le occasioni in cui mi fermano per chiedermi un autografo sono maggiori che a Sassuolo, dove la domanda potrebbe giusto farmela un alieno appena giunto sulla Terra… Che poi al massimo dovrebbe dire: «Ma tu chi sei?».
Sai una cosa? Nonostante io conviva con la notorietà da più di vent’anni, ogni volta che mi fermano mi riscopro ancora un po’ timido, come quando ho cominciato a fare questo lavoro. C’è stata una volta, poco tempo fa, che avrei voluto addirittura sprofondare.
Ti ricordi la mattina al Bakery con i tuoi cuginetti che erano anche loro a Milano? Avevamo deciso di stare fuori a pranzo e tu eri parecchio gasata, quando poi hai scoperto che potevi mangiare hamburger e patatine la felicità è schizzata alle stelle. Peccato che l’hamburger l’ho finito io, visto che gli hai dato solo un morso… Le patatine no, quelle le hai divorate come sempre. Per te è stata una giornata speciale, forse per quello non hai mangiato tutto.
Appena siamo entrati, una ragazza mi ha fermato e mi ha chiesto di fare una foto insieme. Tu stavi giocando con i cuginetti, ma li hai mollati e ti sei attaccata ai miei pantaloni. Ho dovuto chiederti di scostarti, perché non mi va che il tuo faccino finisca in rete se non lo decido io. Eppure hai continuato a guardarci con interesse. Quando ci siamo seduti al tavolo, ho visto un’altra ragazza che mi stava fissando. Era insieme a una comitiva di amici che non mi aveva ancora notato… Per un attimo mi sono sentito spacciato, avrei passato tutto il tempo a fare selfie? La tipina era una di quelle che tentenna, mi guardava e non riusciva a prendere coraggio. Si vedeva lontano un chilometro e se ne sarebbe accorto anche un bambino. E infatti… «Vuoi farti una foto anche tu con il mio papà?» hai chiesto con il tuo accento emiliano che fa troppa simpatia. Tra i denti ti ho detto di stare zitta, ma ho continuato a sorridere. La ragazzina si è avvicinata e con molto garbo mi ha detto che sì, in effetti, una foto le sarebbe piaciuto averla. Il tempo dello scatto e tu praticamente ti sei messa in piedi sulla sedia a gridare: «Chi vuole farsi una foto con il mio papà?». Nel locale tutti, ma proprio tutti, anche i camerieri, sono scoppiati a ridere e io, rosso per la vergogna, mi sono limitato a sussurrare: «Basta Bea…».
Siamo poi usciti e mi hai guardato seria. Siccome devi avere sempre l’ultima parola hai messo ordine alle cose.
«Papi allora… quando canti sei Nek e quando non canti sei Filippo.»
E così hai risolto ogni tipo di dubbio, laddove ce ne fosse stato qualcuno.
Anche l’ultimo Festival di Sanremo per te non è stata una cosa normale. La mamma mi racconta che, da allora, quando mi vedi in televisione ti emozioni e finisci per baciare lo schermo. Se invece siamo insieme e vedi qualcuno che ci passa accanto, mi fai sempre la stessa domanda: «Papà, lo sanno chi sei, glielo vuoi dire papà? Ma se ti chiamano per una foto, glielo dici di sì?».

Mi fai sempre sorridere
perché sei candida,
ma lo sarai per sempre?

O ti monterai la testa? Vorrei sapessi che la realtà è fatta di cose normali, come l’asilo in cui vai che è lo stesso di Martina e che ho frequentato io. Nessuna scuola inglese, nessuna scuola particolare, bensì un istituto religioso, uno dei più vecchi di Sassuolo, con le maestre e con le suore. È così che mi sembra di poterti proteggere dagli effetti negativi del successo, offrendoti l’opportunità di fare un’esperienza normale in una dimensione giusta, pulita, con valori semplici che a me hanno fatto bene. Poi, quando sarai più grande, andrai alla scuola pubblica dove, io penso, sarai trattata come tutti gli altri e dove, se servirà, dovrai anche difenderti da sola.
Vorrei che tu e Martina ce la faceste con le vostre forze, senza che io vi spiani la strada, che vi renda tutto troppo facile. Così come fece mio padre quando fui bocciato in quarta superiore. Io in testa avevo già la chitarra e la musica, ma il nonno ci teneva troppo che avessi il diploma da contabile. Per questo non la prese bene quando tornai a casa con la notizia della bocciatura. Dovevo “pagare”, second...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Ti spiego l’amore
  4. Io, papà?
  5. Notte insonne
  6. Cronaca di una follia
  7. Acrobati romantici
  8. Dite al Papa di aspettare
  9. Istantanee
  10. Rapporti difficili
  11. L’America a Sassuolo
  12. Il mio eroe
  13. Dolore è forza
  14. La vita rimane la cosa più bella che ho
  15. La fragilità umana
  16. Pane e salame
  17. Spettatore emozionato del mondo
  18. Un segno per sempre
  19. Un passo avanti
  20. Indice