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Il Giubileo di Giubbileo
«Quando papa Francesco ha indetto un Giubileo mi è venuto in mente il mio Giubileo. Anzi, Giubbileo con due b. È il nome (o meglio il soprannome) del protagonista di una storia che si svolge in quella che viene definita la “Città Invisibile”. La città dei barboni e degli homeless. È molto teatrale, l’ho pensata per la messa in scena, ma forse si può anche raccontare. Ve la racconto?»
Tutti i giovani attori e attrici che sono attorno a me mi pregano di farlo: sono curiosissimi.
«Quest’idea mi precipitò addosso all’improvviso qualche anno prima del Giubileo del 2000. Mi spaccò la testa e me la riempì delle immagini e dei suoni di un mondo che non si conosce e che non ha nessuna voglia di conoscere se stesso, la Città Invisibile, perché nessuno la vuole vedere… ma siete sicuri di volerla ascoltare?»
Tutti: «Dài, racconta!».
«Ok.»
È buio. Nell’aria, in alto, magicamente appaiono le note gialle di un famosissimo tema disneyano… I sogni son desideri… la voce che lo intona, fuori scena, è bianca, tesa, come quella del pastorello pucciniano (Tosca) capitato lì per caso. Nella strada, silhouettes di figure si muovono rapide nel buio, dando l’impressione di una violenza terribile. Bastoni, luccichii di lame, calci e urla di dolore dell’uomo aggredito si mixano stridenti alla voce infantile che va avanti per nulla turbata… chiusi in fondo al cuor… urlo… nel sogno ti sembran veri… urlo più lancinante. L’uomo aggredito cade. Si accendono torce. Si intuisce che vogliono dargli fuoco. Sghignazzano con voci soffiate, concitate. Ma, improvviso, un acquazzone spegne tutto, anche la foga omicida degli aggressori che fuggono.
La vocina si allontana come nel tempo… non giunga la felicità non disperar… in assolvenza un chiarore viene su e ci consente di vedere un mucchio di stracci rimasti a terra, fumanti, sotto le ultime goccioline ritardatarie. Il canto è svanito. L’atmosfera è quella tipica del dopo-temporale. Ferma. Rumori lontanissimi, ovattati. Sbuca, non si sa bene da dove, forse dalle crepe di qualche monumento, un uomo, un barbone. Ha due grossi baffi neri che ricadono ai lati della bocca. Di solito indossa una camicia bianca e una strana giacca nera, sembra un vecchio frac.
Si chiama Silvestro, come il gatto dei cartoon. Lo segue uno strano personaggio. È un giornalista vestito secondo un’ineffabile interpretazione personale del suo mestiere. Pantaloni anni Cinquanta larghi, beige, punto vita ad altezza del torace, giacca a quadrettoni e, ciliegina, papillon giallo e bianco floscio.
Sta cercando di mettere insieme un servizio per la Rai, facendo interviste in quel mondo che definisce misero, povero, degradato, e dà queste definizioni quasi piangendo in empiti e improvvisi scoppi di pietas, al punto che sono gli stessi barboni che, impietositi, a tratti cercano di tirarlo su con pacche sulle spalle: «Coraggio, Piagnò».
Così lo chiamano: Er Piagnone.
«È morto?» domanda Er Piagnone tra le lacrime fatte di pioggia, indicando il mucchio di stracci.
«No, tranquillo» risponde Silvestro. «Chillo dice che non può morire. È come nu’ cartone animato. Spesso je menano perché ha un progetto. Chi ha un progetto in questo Paese commette quasi nu’ reato. Lui vuole organizzare qui in città un grande raduno dei rappresentanti di tutti i barboni del mondo: Clochard, Vagabundos, Drop Out. E vuole celebrare l’evento con una Sacra Rappresentazione, da compiere in strada durante il Giubileo. Per questo lo chiamano Giubbileo. Dice di conoscere le lingue…»
«Yes, I do» dice una voce soffocata e dolente da sotto gli stracci.
È vivo!
Interrompo il racconto perché bussano alla porta.
Tutti: «Eh no, un momento! Continua, per favore…».
Dalla porta fa capolino Loretta, mia sarta da sempre. Preoccupata…
«È finita l’acqua, Giggi. Te la porto co’ ’na cunculina? E ti porto pure la saponetta che profuma de gladioli.»
Dico: «Ma che i gladioli profumano?».
«Boh! Forse erano tubberose, va’ a guardà er capello…»
Dico: «’Na sigaretta, niente?».
«No, nun devi fumare, vabbene? Però, vedrai, la saponetta ci ha un profumo che stordisce.»
«Allora portamela col filtro, che me fumo il profumo.»
Tutti ridono. «Dài, Gigi, continua.»
Dico: «È un po’ tardi, devo leggere una cosa, ripassare la parte e poi truccarmi. Tanto avremo tempo; riprenderemo il racconto in un altro momento, andate a prepararvi per lo spettacolo».
Ah, dimenticavo.
Sono nel camerino di un vecchio teatro di Roma, in attesa che inizi lo spettacolo. Si va sempre molto presto in teatro (non tutti lo fanno, a dire la verità). Alcuni, più seri di me, si chiudono per concentrarsi. Io, lo confesso, amo fare di tutto: scrivere, disegnare, spettegolare… a volte suonare la chitarra. Ma raccontare o sentire racconti è ciò che preferisco. Il camerino, specie in tournée, è un luogo di cui solo chi fa l’attore conosce le peculiarità. Può essere tutto: sala di lettura, di studio, di musica, di incontri di lavoro… può diventare perfino alcova… ehm.
Mi guardo un po’ allo specchio e non posso fare a meno di sorridere per una vecchia scritta sul muro lì accanto: «Si preca di non rimanere oggeti de valore nel cammerino».
Un capolavoro! Mi sono raccomandato di non cancellarla. Cerco di immaginarmi il volto di chi l’ha scritta, sono sicuro che avesse grossi baffi rossi e fosse un po’ claudicante. Chissà perché.
Penso alle scritte sui muri di Roma. Sono forse fra le poche cose rimaste a ricordarci lo spirito di un popolo che, ahimè, sta perdendo pian piano la sua proverbiale ironia. Violente, volgari, a volte tenere, geniali. Leggendone molte, e di seguito, paiono quasi frutto di un unico disegno. Come un percorso che sembra dire: «Ehi, ci sono anch’io. Voglio farti ridere, pensare, scandalizzarti o minacciarti: ti invito a fare come me. Scrivi anche tu sui muri, almeno qualcosa resterà di noi, perché le facciate dei palazzi, soprattutto quelli popolari, non le puliranno mai, e se crollano, almeno qualche nostra sillaba sopravviverà fra i calcinacci…».
Come rimanere seri leggendo: «È tanto brutto che la madre lo chiama bello de zia»?
A volte si sfiora il blasfemo: «Dio c’è». E sotto: «O ce fa». Geniale!
C’è una vecchia scritta a San Lorenzo, esisteva già ai tempi dei figli dei fiori: «Se avessi le ali volerei».
E sotto hanno aggiunto: «E grazie al cazzo». Me ne ricordo un’altra in un ascensore: «Se preca de chiute». Mentre in un ristorante, che forse voleva far sapere che lì si mangiava pesce cucinato come a casa, c’era un cartello: «Cucina marinareccia». Formidabile crasi fra marinara e casareccia…
Me ne ricordo un’altra: «Con mia madre tutto bene». Firmato dottor Freud.
Oppure: «Di te mi piace il rumore dei tuoi passi mentre vai aff…».
«Il piacere l’ha creato Dio. Peccato che sia peccato.»
«Non desiderare la donna d’altri. Tanto rompe i cojoni come la tua.»
«In vino veritas. In grappa figuratevis.»
«C’è vita dopo Marzullo?»
«Tiro a campari.»
«Odiami tu, che io ci ho da fare.»
«Non ho peli sulla lingua. E se li ho non sono miei.»
Il gusto di mettersi lì a scrivere sul muro lo capisco. Io faccio le parole crociate e spero sempre che qualcuno si accorga che sono stato in grado di risolverle. Lascio in giro le prove per casa, ma non gliene frega niente a nessuno. Scrivo le soluzioni sui rebus ma non faccio mai i cruciverba in camerino. Non è serio…
Vabbe’, trucchiamoci.
Non ho mai considerato il trucco come un fatto estetico. Mi viene in mente, a volte, che uno strato di fondotinta e un po’ di matita sugli occhi non siano altro che l’estenuazione e l’ultimo inconsapevole residuo della maschera usata dagli antichi attori classici. Sì, è un po’ azzardato, ma se dimentico di truccarmi e me ne accorgo solo quando sono in scena, mi sento nudo, scoperto, come còlto in flagrante. D’altronde, fare il mio mestiere è un po’ come commettere un atto impuro. O almeno questo pensa qualche critico.
Le prime volte che ho avuto in scena accanto a me le mie figlie, ho provato un senso di colpa misto a imbarazzo e vergogna, come se mi fossi sottoposto a un esame severissimo. Probabilmente perché, abituato per anni a stare da solo sul palco, sentivo il mio territorio invaso, sia pure da persone amate. Ovviamente era una mia percezione, perché credo che loro avessero ben altri problemi che non quello di stare lì a giudicare. Debuttavano.
Il nostro è il mestiere più intimo e privato del mondo, nonostante si svolga di fronte a migliaia di persone.
Bussano. È Loretta. «Giggi, è arrivato ’sto copione, che faccio? Lo butto come gli altri?»
Una delle ossessioni di chi fa il mio mestiere sono i copioni. Tutti hanno scritto un copione. Te lo mandano e vogliono un giudizio. Non sanno che per leggere un copione ci vogliono minimo tre ore di tempo… Non gliene frega niente, si offendono.
C’è un filmato molto raro in cui si vede Petrolini, nella sua villa vicino al lago di Nemi, vestito da pittore ottocentesco, immerso in un’atmosfera tranquilla. Mentre dipinge, all’improvviso si sente la sirena degli allarmi aerei e poi, da lontano, viene inquadrato un gruppo di persone che corrono sventolando ognuna un copione. Lui si mette a urlare: «Oddio, i copioni! Scappamo!», e fugge con la famiglia.
Il copione che mi è arrivato si intitola Maledetti vecchi.
Dico a Loretta: «Be’, lascialo, va’!». Mi chiedo che parte mi si offra. Il personaggio si chiama Eugenio… Ma è la parte di un vecchio! Aiuto! Sfoglio freneticamente. È una bellissima parte, però…
Come passa il tempo: «La vita è come ’na facciata de finestra.»
No. «La vita è come la cipolla che si sfoglia giorno dopo giorno con le lacrime agli occhi.»
Aspetta, fammi di’ qualcosa di più poetico.
«La vita è come l’ombra di un sogno fuggente.» Shakespeare.
«La vita fugge e non s’arresta un’ora.» Petrarca.
«Chi ha tempo non aspetti tempo.» Mi’ nonna.
Be’, pora nonna, pure lei ha diritto alla citazione.
Rido tra me e me. La parte di un vecchio! Sta’ a vedere che mi si apre una nuova carriera cinematografica. Rido forte e, di colpo, mi volto bruscamente verso lo specchio per vedere se rido come un maledetto vecchio… troppo tardi, la mia faccia mi ha preceduto; lo specchio mi rimanda la recitazione di uno che fa una strana smorfia. È falsa. Per ridere decentemente, non bisogna specchiarsi mentre lo si fa. La faccia resta nello specchio; chissà che farà quando distolgo lo sguardo. Può suonare improprio, ma tutto ciò ha a che fare con il misteriosissimo mondo della Maschera teatrale, che nelle scuole di recitazione non si studia quasi più. È uno studio troppo complesso ed è retaggio dell’attore. I registi, soprattutto i «ricercaroli», si sentirebbero esclusi. Ma affermo che è dietro la maschera che va ricercata la grande Verità del Teatro, cioè la Finzione: io fingo di essere Amleto e tu, spettatore, fingi di crederci. Più sono bravo a fingere e più tu sei disposto a credermi. O a fingere di credermi.
D’altro canto, fingere di crederci, a teatro, è come crederci sul serio. E forse anche nella vita… O no? Boh!
Dio che strane idee vengono nei camerini.
Anni fa ho scritto un sonetto atipico per parlare di questa dicotomia tra finto e vero. La questione è filosofica, ma io ne ho discettato in romanesco.
Viva il teatro dove tutto è FINTO
Ma niente c’è di FARSO, questo è VERO.
E tu lo sai da prima se s’è tinto
Otello er Moro, oppuramente è NERO.
Nessun attore VERO vo’ fa’ crede,
Sottolineanno qualche intonazione,
Ch’è tutto VERO quello che se vede.
Lui VOLE fa’ sapè ch’è ’na FINZIONE.
SE je tocca morì sopra le scene,
È VERO che nun more VERAMENTE.
Sennò che morirebbe così bene?
Capischi sì com’è? Famme er piacere,
Si morisse sul serio, è evidente,
Nun potrebbe morì tutte le sere.
Ebbene, sì. Confesso. Sì, scrivo roba in versi. Mi dichiaro rifugiato poetico. Spesso compongo sonetti. A volte rispettosi delle regole per le rime (A-B AB A-B… eccetera), altre no. Chiamiamole licenze. Sì, so’ licenzioso… E, volendo, a richiesta, do consigli su come recitarli ad alta voce.
Istruzioni per leggere un sonetto:
Per esempio, in questo io ho scritto maiuscole alcune parole che con le intonazioni vanno comunque un po’ sottolineate per far risaltare la dicotomia tra finto e vero.
È importante poi fare una pausa prima dell’ultimo verso, una sospensione che prepara alla battuta finale con molta log...