IL CAPPOTTO
INTRODUZIONE
Dallo studio dei manoscritti, autografi e non, risulta che Gogol’ lavorò a questo celebre racconto in almeno quattro riprese: il testo più antico, scritto di pugno dall’amico M. Pogodin1 sotto dettatura di Gogol’, risale al mese di luglio dell’anno 1839: Gogol’ si trovava a Marienbad, dove l’aveva raggiunto Pogodin. Rimasero a Marienbad un mese, e Gogol’ si trovava in uno dei suoi più felici, creativi momenti. A questa prima fase risale la prima stesura dell’inizio del racconto, che porta il titolo Storia di un funzionario che rubò un cappotto. È probabile che l’aneddoto o storietta del funzionario che aveva perduto un fucile, che era diventato l’unico scopo della sua vita, della sua disperazione e poi della colletta fatta dai suoi colleghi per ricomperarglielo, sia stata l’idea prima, il germe del futuro racconto: questa è la testimonianza del letterato P.V. Annenkov,2 come riferisce il Kotljarevskij.3
L’impressione che Gogol’ ne trasse può riferirsi al periodo 1833-1836. Non risulta in nessun modo, però, che lo scrittore si mettesse al lavoro prima del 1839. L’argomento e il sottogenere (il racconto avente come protagonista un piccolo funzionario, un impiegato di rango inferiore) avevano, come vedremo, una notevole fortuna nella letteratura degli anni Trenta: in due versioni, l’una comico-grottesca, l’altra sentimentale o elegiaca. La prima redazione4 del racconto gogoliano presenta un’intonazione prevalentemente comica. Gogol’ proseguì dunque il lavoro a Vienna, dove si trasferì con il Pogodin alla fine di agosto: in agosto e settembre Gogol’ apportò di suo pugno aggiunte e correzioni al testo di Marienbad, e trascrisse le pagine già composte: fra le aggiunte, l’episodio della nascita di Akakij Akakievič (che in questa fase porta il cognome di Tiskevič). I critici chiamano le pagine di Marienbad prima redazione del Cappotto, e quelle di Vienna seconda redazione. Il 22 settembre Gogol’ partì per Mosca: qui, nei mesi di novembre e dicembre, continuò a lavorare al racconto: vari brani risalgono a questa terza redazione, e anche aggiunte e correzioni diverse. La tonalità è cambiata: prevale ora (come del resto anche nella seconda redazione, in confronto con la prima) l’intonazione patetica. Alla fine del dicembre 1839, Gogol’ parte per Pietroburgo e poi, nel 1840, ritorna a Roma: proprio a Roma, ma un anno dopo, e cioè nel periodo febbraio-aprile 1841, Gogol’ termina il racconto (è la quarta redazione). Il racconto verrà pubblicato nel terzo volume delle Opere, uscito a Pietroburgo nel 1843. Correzioni di vario genere, in gran parte ortografiche, l’autore apportò al testo, nel preparare la seconda edizione delle Opere, che sarebbe stata pubblicata qualche anno dopo la sua morte, e cioè nel 1855.5
Il lento lavoro di Gogol’, l’evolversi delle intonazioni e quindi il mutare delle linee stilistico-intonazionali «dominanti» sono testimoniati, in parte, dalle quattro fasi della redazione. L’analisi di queste fasi, a parte le informazioni preziose sul lavoro più direttamente e anche esternamente linguistico dello scrittore, ci permette di capire come Gogol’ sia riuscito ad arrivare a un punto perfetto di integrazione fra tali varie sollecitazioni intonazionali, a evitare, da una parte, di cadere nel patetico (possiamo anche definire Il cappotto un racconto «spietato»), e dall’altra di mettersi dalla parte dei derisori, i colleghi di Akakij Akakievič, il mondo che lo schiacciava: una prima, notevole, realizzazione artistica di Gogol’, per cui Il cappotto è già diverso dagli altri, numerosi racconti con tematica analoga, è stata appunto quella di liberare il suo personaggio da una più facile risonanza comico-grottesca, per sottolinearne il carattere emblematicamente tragico: difatti, Akakij Akakievič, proprio per la sua «storia» che lo riferisce a un particolare destino, cioè a una particolare collocazione sociale, poteva essere sì, oggetto comico per la crudeltà (innata o indotta) dei suoi colleghi, ma non lo poteva essere da un punto di vista più profondo, umano e sociale, che era quello dell’autore. Ma, ancora dietro questo modo di vedere Akakij Akakievič da parte del narratore, ce n’era un altro, in cui, come vedremo, consiste la sostanza del racconto, e cioè Akakij Akakievič come emblema e oggetto di un destino umano generale. La fortuna critica del racconto è assai complessa: venne, quando fu pubblicato, recepito come racconto patetico, poi si sottolineò l’aspetto comico, quindi l’aspetto fantastico. Andrej Belyj in un breve saggio dedicato a Gogol’ e pubblicato nella raccolta Lug Zelenyj (Il verde prato), saggio dal quale sarebbe poi «uscito» il grande «trattato» sullo stile di Gogol’,6 così si esprime: «Non so chi sia Gogol’: realista, simbolista, romantico o classico. Gogol’ è un genio, al quale non ci si può avvicinare con definizioni scolastiche; io ho inclinazione per il simbolismo: di conseguenza mi è più facile vedere le tracce del simbolismo di Gogol’; un romantico vedrà in lui un romantico; il realista, un realista».7 Il cappotto venne, dunque, a suo tempo, recepito come espressione di un «realismo» che era poi un realismo «patetico», socialmente impegnato; poi vi trovarono una dimensione religiosa. Poi lo identificarono col suo particolare linguaggio (in tempi a noi vicini, col Nabokov, nel suo affascinante libro su Gogol’).8 Una lettura «microscopica» (il termine è del Gippius)9 ci permette di capire il tessuto narrativo del racconto, in cui elementi «comici» (ai quali si rivolse l’attenzione dell’Ejchenbaum)10 si alternano o si intrecciano con elementi «patetici» (solo sfiorati) e con elementi «descrittivi», in cui si riflette meglio l’impassibilità dell’autore. Il racconto, dunque, in nessun modo si può definire patetico, e tanto meno comico. E non si può neppure definire fantastico. Il saggio di Ejchenbaum è divenuto giustamente celebre, anche se alla sua fama hanno contribuito l’accorta propaganda della critica formale e il fatto che tale saggio rompeva una stanca tradizione di interpretazioni esterne, sociologiche in senso banale o religiose, anch’esse troppo facili. Ejchenbaum afferma, in sostanza, come la narrazione puramente comica, che «si serve di tutti i procedimenti di gioco stilistico propri di Gogol’, sia collegata con la declamazione patetica che costituisce il secondo strato compositivo. I nostri critici avevano ritenuto questo secondo strato come quello di base». Ejchenbaum esamina quindi i procedimenti principali della narrazione e poi il loro sistema di combinazione. Queste osservazioni sono valide e preziose. Tuttavia non possiamo essere d’accordo con l’idea di fondo, se consiste nel ritenere come fondamentale lo strato o elemento comico e nel considerare il risultato della tecnica gogoliana come un effetto «grottesco in cui la smorfia del riso si alterna con quella della sofferenza; e l’una e l’altra prendono l’andamento di un gioco in cui si susseguono convenzionalmente gesti e intonazioni» (il che è poi una ripresa, sia pure in una luce nuova di «gioco», della vecchia e scontata definizione, di «riso tra le lacrime»): perché il patetico e il comico sono due attributi di una sostanza che sta oltre; sono, in fondo, fatti superficiali, esterni, trucchi o gesti (e nel suo riferimento al «gesto» Ejchenbaum ha ragione). E così non si può essere d’accordo con la conclusione dell’Ejchenbaum, secondo cui «con il fantasma coi baffi tutto il grottesco sparisce nell’ombra e si dissolve nel riso». Così come, pur valutandone la genialità, non si può accettare la conclusione di Nabokov, per il quale l’uomo preso per il fantasma senza mantello di Akakij Akakievič è in realtà l’uomo che gli aveva rubato il mantello, per cui «il racconto descrive un cerchio completo: un circolo vizioso, come lo sono tutti i circoli, nonostante si atteggino a mele, a pianeti, o a visi umani».11 In realtà la comicità è esterna, al livello delle microfrasi, è apparenza, fantasma di comicità. Akakij Akakievič non ne viene minimamente sfiorato: è un personaggio-emblema troppo «tragico» per essere comico. E, proprio per la sua caratteristica, non è, in sostanza, neppure sfiorato dalla volgarità che è la caratteristica di base di gran parte dei personaggi gogoliani. Così sono investiti dal comico, a nostro parere, gli altri personaggi del racconto proprio perché, in quanto provvisti (o perché, ancor di più, si credono provvisti) di un’ombra di potere, sono, per questo stesso, anche volgari. Così, è trattato comicamente il personaggio importante, che entra a vele spiegate nella più pura tradizione gogoliana. Comicità apparente, dunque, puramente limitata al linguaggio, alla pellicola esterna, all’incresparsi dei giochi verbali. Il significato che ci viene suggerito è facilmente intuibile: in un contesto sociale «deforme», dotato di una diabolica, eccezionale, capacità di «piegare» nel modo più mostruoso le anime, di ucciderle, di trasformarle in automi, e cioè la società di Nicola I, tutti i personaggi che si credevano qualcosa pur non essendo nulla, non potevano che presentare un aspetto di comicità. L’unico personaggio che non si credeva nulla, che era al punto più basso della scala gerarchica, escludeva, per questo, la comicità. Ma anche il protagonista, come gli altri, era «oggetto» di una situazione più «larga» e senza speranza; una dimensione metafisica di «non esistenza» o di «vanità»: per cui anche Akakij Akakievič era colpito dallo «scherno». Degli dèi, del destino, della vita e della morte.
Quello strato o lume comico, dunque, così come lo strato o lume patetico, erano i mezzi di cui si serviva Gogol’ per arrivare al nocciolo della sua creazione. Inoltre, c’era anche una tradizione letteraria in cui inserirsi, da rispettare: quella, appunto, del racconto avente come protagonista un piccolo funzionario. Di questo scrive il Gippius nel suo libro su Gogol’:12 negli anni Trenta si era imposta una tradizione letteraria, che si era sviluppata secondo due temi (e noi aggiungeremmo anche intonazioni) fondamentali: quello moralistico del «pover’uomo» (non necessariamente un impiegato), dal destino offeso, umiliato; e quello satirico-didascalico del funzionario (impiegato) del tutto privo di importanza, che valeva un nulla. Il racconto Jona Faddeevič di V. Ušakov,13 pubblicato nel 1832 nella rivista «Syn Otečestva»,14 costituì probabilmente la prima spinta letteraria che influì su Gogol’ e lo portò a scrivere Il cappotto. In questo racconto di Ušakov, in cui si sviluppa il tema moralistico, si hanno anche dei punti di contatto assai evidenti con Gogol’; per esempio, la nonna di Jona Faddeevič vorrebbe dare al nipotino, alla sua nascita, un nome insolito, e propone, proprio, Akakij (oltre a Mamont). Invece il prete decise per Jona. Jona era gobbo, butterato, calvo. Veniva deriso (specialmente al reggimento). Ma la conclusione è felice: Jona si sposa e vive contento. Non c’è, in questo racconto, altro che uno sviluppo di un tema moralistico (sul «perseguitato»), che si risolve bene, senza alcuna risonanza di carattere sociale o comunque più profonda. Lo strato comico è invece più evidente in un racconto di Grebénka,15 Luka Prochorovič, del 1838: costui è un segretario di governatorato, grande esperto nel pulire le penne, non povero, peraltro, e deriso per la sua nullità e il suo filisteismo. La conclusione è comica; egli, difatti, sposa la cuoca, in seguito a un grosso equivoco (Luka aveva ritenuto la cuoca vincitrice di una lotteria, ben centomila rubli: la cosa, poi, risultò falsa, ma ormai la frittata, cioè il matrimonio, era fatta). La linea del racconto dedicato al «povero funzionario» – alla quale Il cappotto di Gogol’ dette un impulso fondamentale – si sarebbe sviluppata negli anni Quaranta con ben centocinquanta racconti. Dostoevskij riprende questa tematica. Alla quale è pure legata, quindi, la cosiddetta «scuola fisiologica».16 All’interno di questa «linea», complessa, ricca di esiti nello sviluppo della letteratura russa, Il cappotto riflette, naturalmente, l’atteggiamento spirituale di Gogol’, dopo il soggiorno romano e italiano: e cioè il suo interesse interiore per i problemi che possiamo chiamare morali, sul senso della vita, e per le risposte di tipo religioso, che diverranno sempre più intense. Gogol’ ha in mente, ormai, il grande poema, le Anime Morte, che avrebbe dovuto essere la Divina Commedia della Russia, la storia di un viaggio dall’inferno delle «anime morte» a un riscatto dell’umanità russa. In realtà non era possibile uscire dall’inferno della Russia di Nicola I, e le «evasioni» non potevano che essere illusorie, e riportare proprio alla conferma di quelle strutture sociali e politiche e morali dalle quali l’intuito primo di Gogol’ avrebbe voluto liberarsi. Sarà il risultato dei Brani scelti dalla corrispondenza con gli amici. Sarà il pietismo del secondo libro delle Anime Morte. La prova della debolezza ideologica e di carattere di Gogol’, la sua sottomissione, a volte un po’ untuosa, alla chiesa e allo zar. Tuttavia non si può parlare di «debolezza» di Gogol’: qui è il luogo per ricordare i problemi dello scrittore, le sue nevrosi (di cui sono un segno vistoso il suo correre per le città europee, e specialmente per le città e i luoghi termali, alla ricerca di un’impossibile guarigione: Roma sarà per lui un rifugio per diverso tempo, poi anche Roma non gli dirà più nulla. E così sarà, in sostanza, una delusione anche Gerusalemme). Belinskij,17 nell’accusare Gogol’ di aver tradito gli ideali democratici, a proposito dei Brani Scelti, semplificava le cose, e teneva conto di un aspetto dell’opera gogoliana che non era il principale: Gogol’, difatti, non aveva mai creduto in un vero rinnovamento della Russia e aveva sempre cercato, anzi, di confutare, con i suoi commenti teorici, il quadro spietato e accusatorio che veniva fuori dalle sue stesse opere d’arte. Nel Cappotto, che non ha alcun intento sociale, ma è solo la descrizione profonda e autentica di una situazione (e l’accusa sociale deriva per così dire liberamente dalla situazione stessa), l’autore, da una parte, cerca proprio di evitare ogni accusa o condanna aperta: si sforza di dimostrare che i superiori di Akakij Akakievič in fondo non sono cattivi e dispotici, e neppure lo è il Generale, il personaggio importante. Così, gli uomini non sono, sostanzialmente, cattivi, anche gli schernitori di Akakij Akakievič: è l’ambiente, il doversi mostrare «duri», il rapporto di gerarchia e di potere, che li rende tali. Tuttavia non è affatto detto che Gogol’ approfondisca questa situazione, o questa problematica: di fatto, quali che siano le cause, i personaggi del Cappotto, salvo qualche eccezione (il giovane impiegato, per esempio) si comportano con Akakij Akakievič in modo crudele o indifferente. Di qui la tensione che deriva direttamente dalla proiezione, certo attraverso l’esagerazione dell’iperbole (metodo fondamentale dell’arte gogoliana), di una situazione umana, morale, sociale, rappresentata dall’umiliato e deriso Akakij Akakievič, personaggio costruito come «passivo», quasi un capro espiatorio. E tutti questi elementi diversi, a volte contrastanti, trovano nella particolare «luce» del racconto il loro compimento, il loro realizzarsi in poesia: determinata da questo ambiguo intrecciarsi di «linee stilistiche». Del resto, più che di «linee stilistiche» o di «strati» si potrebbe meglio parlare di «aure» o «aureole», termine, quest’ultimo, usato dal Vinogradov nel suo saggio su Gogol’,18 un saggio di grande densità: con riferimenti a riflessi, a luminosità, appunto, diverse, che esprimono meglio il carattere non meccanico, non scheletrico, dell’annodarsi delle varie intonazioni, e del loro reciproco rapporto. Così tutto diventa «modo» (non «gioco»: respingerei questo termine), «strumento» per rendere una situazione esistenziale che, nello stesso tempo, esprime lo stato determinato, preciso, dell’epoca e, nella sua ambiguità, nella sua sottesa inquietudine, si riferisce o si può riferire a una condizione umana considerata perenne: il conflitto tra bisogno di amore e giustizia e lo scherno del destino che lo delude. Filosofia che nasce da una concezione della vita, che non esitiamo a definire desolata. Del resto, la «debolezza» di Akakij Akakievič e la crudeltà degli altri costituiscono una «struttura» psicologica e sociale che non è certo limitata ai dipartimenti ministeriali della Russia dell’epoca di Nicola I. È una costante che si riproduce sempre, in modo più o meno volgare, truccato o raffinato, in tutte quelle società (e microsocietà) in cui il principio del «dominio» (del «potere», quindi) prevale sulla speranza e sull’utopia o sulla realtà della fratellanza. Così sono legittime l’interpretazione «realista», anche ...