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Il sogno era sempre uguale. All’improvviso Michele capiva di poter volare, saltava e rimaneva sospeso per aria. Muovendo le braccia e le gambe, scopriva poi di essere in grado di salire, scendere e compiere evoluzioni che spesso diventavano vere e proprie acrobazie. In alcuni sogni si ritrovava ad assecondare forti correnti che lo trascinavano fin sopra le nuvole o lo spingevano al largo in un mare che appariva all’improvviso.
«Ma tu ci hai mai provato?» gli domandò Rebecca dopo il resoconto del suo ultimo sogno. Poi si lasciò cadere sul prato all’ombra degli alberi del parco. L’estate era quasi finita, ma Milano era bollente. La scuola era cominciata da pochi giorni e i due ragazzi fingevano di essere ancora in vacanza.
«A fare cosa?» chiese Michele.
«A volare, da sveglio.»
«Certo che no, non sono pazzo.»
«Magari invece lo sei e non lo sai» disse Rebecca. «Io ogni tanto credo di essere pazza.»
«Perché pensi troppo.»
«Dici che è quello il motivo? Quindi la differenza tra i pazzi e i normali è che i pazzi pensano e i normali no?»
«Pensare è una cosa strana» disse Michele destando la curiosità dell’amica che si tirò a sedere.
«Lo è per gli esseri umani» disse Rebecca.
«In che senso?»
«Ho letto un articolo che sosteneva che ci sono anche degli animali che pensano, tipo i cani, le scimmie, ma persino le api.»
«Sì, ma che pensieri saranno? Mangiare, dormire, mordere e pungere.»
«Guarda che è proprio ciò che pensa la gente normale. Gli uomini pensano a mangiare, dormire, mordere e pungere, come gli animali, solo in una maniera inutilmente più complicata. Per questo pensare sembra un’attività tanto strana.»
«Se lo dici tu.»
Rebecca si alzò in piedi e si stiracchiò. La maglietta si sollevò scoprendo la pancia alla quale Michele rivolse uno sguardo furtivo.
Era una cosa sciocca, in fondo. Qualche giorno prima erano stati insieme in piscina e lì aveva visto ben più di una striscia di pancia. Ma quella era chiaramente un’altra inevitabile stranezza degli esseri umani, un genere al quale lui, al contrario di Rebecca, credeva di appartenere.
«Secondo me nessuno ci prova mai sul serio» disse Rebecca.
«Ora di cosa stai parlando?»
«Magari è questione di tempo» continuò lei senza rispondergli. «Ti alleni tre mesi e poi ci riesci. Tu sai di qualcuno che si è allenato seriamente per volare?»
«Effettivamente no.»
Rebecca gli rivolse un sorriso ammiccante.
«Non se ne parla nemmeno» disse Michele, ridendo di quella folle idea, contenuta implicitamente nello sguardo dell’amica. Non molto più folle della volta in cui da bambini avevano passato un pomeriggio a cercare di comunicare telepaticamente, o di quando avevano deciso di insegnare a parlare a un cane. Alla fine di quella giornata demenziale, durante la quale chiunque li avesse visti avrebbe pensato che fossero ubriachi, Rebecca sosteneva che erano riusciti a ottenere un discreto «salve».
«Perché no? Tanto non abbiamo niente da fare.»
«L’hai detto tu, ci vogliono minimo tre mesi, dovevamo cominciare all’inizio dell’estate, adesso non ha senso.»
«E invece sì, per Natale saremo in grado di volare, è perfetto.»
Rebecca si guardò attorno, non c’era nessuno. «Se ti vergogni, voltati.»
«Sei pazza sul serio, avevi ragione.»
Lei corrugò la fronte e socchiuse gli occhi verso un obiettivo invisibile in mezzo al prato. Poi iniziò a correre, prima piano, poi sempre più veloce. Infine saltò, allargando le braccia e sollevando il mento. A Michele parve per un attimo di vedere se stesso, durante i sogni, quando si librava in volo all’improvviso. Ma Rebecca ricadde in piedi, incespicando sul prato e rischiando di perdere l’equilibrio.
«Era solo un primo tentativo» urlò. «Dai muoviti! Devi provare anche tu!»
Poi prese la rincorsa nella direzione opposta e si lanciò in aria atterrando a un metro da lui.
«Ora tocca a te» disse, tirandolo per un braccio.
«Scordatelo.»
«Avevi promesso che provavi anche tu» insistette lei. Era un loro gioco, si attribuivano per scherzo frasi che nessuno dei due aveva pronunciato.
Michele rise. Era veramente una cosa da pazzi, eppure tante volte, svegliandosi al mattino, gli era sembrato di possedere quel dono magico e aveva avuto la tentazione di ripetere i semplici movimenti che faceva nel sonno e a causa dei quali una volta era caduto dal letto.
Piegò le ginocchia, lanciò un’occhiata attorno. A un centinaio di metri da loro c’erano due donne, una stava spingendo un passeggino, l’altra parlava al telefono. La città si intravedeva appena dal punto in cui si trovavano, gli alberi nascondevano la vista dei palazzi e il profumo del prato dava l’illusione di essere in mezzo a un bosco e non alla periferia di Milano.
Michele inspirò ed espirò tre volte. Poi saltò sul posto cercando di sollevare il corpo per ritardare la caduta. Era così che faceva nel sogno, dove tutto iniziava in maniera estremamente realistica, generando ogni volta le stesse sensazioni di stupore e meraviglia: incredibile, sto volando, non è possibile, ed è così semplice! Il suo inconscio gli regalava quelle esclamazioni di entusiasmo e l’illusione delle emozioni provate permaneva a lungo al mattino, abbandonandolo del tutto non prima dell’ora di pranzo.
Il suo corpo cadde goffamente, accasciandosi a terra.
«Si vedeva che non ci credevi sul serio» gli disse Rebecca porgendogli la mano per aiutarlo a rialzarsi. «Proviamo con la rincorsa.»
«No, nel sogno non prendo la rincorsa, è una specie di esercizio di… come si chiama il contrario della concentrazione?»
«Non lo so, distrazione?»
«Ecco, sì, ti devi distrarre del tutto, liberare di ogni pensiero e allora rimani sospeso in volo.»
«Funzionerà con te, io non riesco a non pensare, per me è meglio la rincorsa.»
«Solo una volta allora. E se qualcuno ci vede…»
«Ma chi ci deve vedere? Non c’è nessuno, dai!»
Corsero assieme, uno accanto all’altro, le magliette appiccicate alla pelle per via del sudore, l’orizzonte di cemento che appariva e scompariva tra le fronde degli alberi. Michele inizialmente si sentì stupido e anche un po’ ridicolo, gli sembrava di essere in uno di quei film dove due innamorati corrono sulla spiaggia al rallentatore. Eppure, quanto avrebbe desiderato volare, che ingiustizia concedere quel dono incredibile ai piccioni e non a lui.
Rebecca contò fino a tre e poi saltarono.
Michele la vide sospesa a mezzo metro da terra, gli occhi spalancati, le guance arrossate, il corpo elastico che si tendeva libero dalla gravità.
«Funziona!» urlò Rebecca. «Stiamo volando!»
Lo disse con tanta convinzione che Michele per un istante credette veramente che l’amica avesse spiccato il volo e lui con lei. Subito dopo rotolarono a terra ritrovandosi sdraiati uno di fianco all’altra.
Rebecca si voltò, i capelli biondi spettinati, gli occhi luminosi, le labbra socchiuse, il petto che si sollevava in un respiro affannato.
«Io te l’ho detto che era possibile» disse, ansimando. «E questo è solo l’inizio.»
Michele era incantato da lei, avrebbe voluto sfiorarle la fronte e la punta del naso, sussurrarle i suoi desideri, stringerla a sé, lasciarla andare.
Rebecca era una calamita.
«Forse siamo finiti dentro al tuo sogno» disse lei.
«No, non credo.»
«Raccontami cos’altro c’è nel sogno, così verifichiamo.»
Michele arrossì e distolse lo sguardo da Rebecca che invece aveva l’abitudine di fissarlo negli occhi.
«Sposti oggetti? Viaggi nel tempo? Quali altri superpoteri sogni?»
«No, niente, nel sogno volo e basta, e poi sono sempre da solo, tu non dovresti esserci…»
«Be’, questa potrebbe essere una novità, no?»
Michele sollevò lo sguardo e le parole gli uscirono spontaneamente dalla bocca. «Il sogno in cui ci sei tu è un altro.»
Lei lo scrutò con l’accenno di una domanda dipinto in volto. Michele non disse nulla, trasformando quel silenzio imbarazzato in un’eloquente risposta.
Rebecca arrossì, poi abbassò gli occhi, scosse appena la testa, sorrise, rendendo impossibile per Michele decifrare la sua reazione.
«Scusa» disse lui.
«Perché ti scusi?»
«Perché ti ho detto questa cosa.»
«Non mi hai ancora detto niente.»
Michele capì che fino a quel momento Rebecca non doveva aver sospettato di nulla. Ma come poteva non essersi accorta dei suoi sguardi, del suo desiderio, di tutte le volte in cui aveva cercato di trasformare un gioco in un contatto, un saluto in un bacio?
«Cosa succede… poi… nel tuo sogno?» chiese Rebecca con voce tremante.
Michele si sentì avvampare. Stava accadendo davvero. Se aveva una possibilità che questo sogno si avverasse, doveva agire subito. Si sporse in avanti e la baciò. Lei d’istinto si ritrasse e lui quasi perse l’equilibrio, sbilanciandosi in avanti e rimanendo attaccato alle sue labbra. Per quasi un minuto restarono immobili. Poi Michele inclinò il capo, esercitò una leggera pressione sulle sue labbra, socchiuse la bocca e sentì il contatto delle lingue, un frutto dolce e vivo si muoveva nella sua bocca. Gli venne il dubbio di avere troppa saliva, deglutì, aprì gli occhi e vide quelli di Rebecca. In quel tempo sospeso, indugiò sul suo viso: l’ovale perfetto del volto, la pelle chiara che si arrossava sulle guance, gli occhi piccoli e vivaci, le labbra leggermente arricciate e il naso sottile, con una minuscola gobbetta, unica imperfezione che sottolineava tuttavia l’armonia dei suoi lineamenti. I lunghi capelli biondi incorniciavano le guance tonde e piene, senza nascondere il sorriso da bambina. Era bellissima, lo era sempre stata. Il riflesso del sole baluginò nelle pupille di Rebecca, disegnando una linea bianca sopra l’iride, una fiammella che crepitò fin tanto che i due ragazzi rimasero a fissarsi.
All’improvviso lei si alzò in piedi e corse via, senza dirgli niente. Michele rimase a guardarla mentre si allontanava, senza avere idea di cosa significasse quella fuga improvvisa. Si chiese se anche quello non fosse un sogno, se non l’avesse baciata solo nella sua immaginazione. Poi la vide scomparire in un orizzonte che appariva molto più vicino di quanto avrebbe dovuto essere, poche centinaia di metri e lei era già scomparsa tra i palazzi e le strade. Quell’immagine gli fece tornare alla mente una frase che aveva sentito un giorno, non si ricordava nemmeno dove: l’orizzonte è sempre irraggiungibile, eppure è ciò che ti fa andare avanti a camminare.
2
Rebecca stava rientrando dopo la giornata trascorsa con Michele, il viso bollente, la pelle umida di sudore. Nonostante fossero passate da poco le sette di sera, l’afa non accennava a diminuire, non pioveva da diversi giorni e l’asfalto emanava un penetrante odore di catrame ed erba.
Entrò nel suo palazzo, salì le scale fino al terzo piano e infilò piano le chiavi nella toppa. Varcò di soppiatto la soglia di casa, percorse rapidamente il corridoio passando davanti alla cucina, dove intravide un’ombra attraverso il vetro smerigliato, e si chiuse nella su...