Quello che ti rende speciale (Life)
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Quello che ti rende speciale (Life)

  1. 304 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Quello che ti rende speciale (Life)

Informazioni su questo libro

Maggie Sanders ha diciassette anni, un'ironia tagliente e un pessimo carattere. Ma in effetti ha delle buone ragioni per essere arrabbiata con il mondo: una malattia l'ha da poco resa cieca e l'ha costretta ad abbandonare la sua più grande passione, lo sport. Da quel momento tutto è cambiato. Ha cominciato a frequentare una scuola in cui si sente fuori luogo, il rapporto con i genitori si è raffreddato, le amiche sono sparite. E, come se non bastasse, le è stato affibbiato un assistente sociale che tiene sotto controllo i suoi voti e la sua condotta. È proprio nel suo ufficio, però, che conosce Ben, dieci anni e un'intelligenza fuori dal comune. Un incontro sconvolgente che cambierà la sua vita. Perché Maggie riesce a vedere lui e tutto ciò che lo circonda. Ma anche perché, grazie a Ben, capirà finalmente che oltre allo sport ci sono molte cose che la rendono speciale. Come la musica dei Loose Cannons, band emergente che la conforta nei momenti più difficili, e il loro magnetico cantante Mason Milton, il ragazzo dei suoi sogni... Aiutata da Ben, Maggie si impegnerà con tutte le forze per scoprire dove si terrà il prossimo concerto del gruppo e, soprattutto, per capire come mai quando è con lui è in grado di vedere. Le risposte alle sue domande, però, si riveleranno molto diverse da quelle che si aspettava. E per non perdere ciò per cui ha faticosamente lottato, Maggie dovrà trovare il coraggio di affrontare la realtà. Che non è mai quella che sembra.

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Informazioni

Print ISBN
9788891517647
eBook ISBN
9788865974889

1

Odio i bouquet. Non ho nulla contro i fiori però, quando vengono strappati dalla terra e raccolti in mazzetti, mi danno sui nervi. Li trovo anche un po’ inquietanti, perché sembrano gridare: «Ci attende una morte lunga e orribile, ma guardate quanto siamo belli!». Ora che ci penso, la prima volta che ho incontrato Benjamin Milton, nella stanza c’era un bouquet… Forse era un presagio? Ero cieca da sei mesi e, in tutto quel periodo, non mi ero imbattuta in nessun mazzo di fiori.
La maggior parte delle persone immagina che chi è cieco veda solo oscurità, invece si sbaglia. Noi non vediamo un bel nulla. Niente nero, niente grigio: zero assoluto. Quindi non avevo idea di che fiori componessero il bouquet quando mi sedetti nella sala d’attesa di Mr Sturgis. Sapevo soltanto che era sul bancone all’ingresso, contro cui avevo sbattuto entrando, e che aveva il profumo tipico delle signore anziane; probabilmente nel mazzo c’erano delle gardenie.
Come al solito, ero circondata da criminali e giovani delinquenti. Aspettai almeno mezz’ora, poi finalmente la receptionist – Cari, Staci o qualcosa di simile – chiamò il mio nome. Non potevo vedere Mr Sturgis, l’assistente sociale alla libertà vigilata che mi era stato assegnato, ma nella mia testa era altissimo e aveva la coda di cavallo, zoccoli consumati e un tatuaggio ormai sbiadito con il simbolo della pace. Il nonno, tuttavia, sosteneva che fosse calvo e tarchiato, e che avesse la pessima abitudine di indossare pantaloni troppo corti. È questo il bello di essere ciechi: si vedono le persone per ciò che sono davvero.
Appena misi piede nel suo ufficio, Mr Sturgis disse: «Salve, Miss Margaret».
«Preferisco Maggie, ricorda?» risposi, facendomi strada fino alla sedia, poi ripiegai il bastone e lo infilai nella borsa. Secondo me Margaret è il nome di una persona di almeno trecento anni o dell’erede al trono d’Inghilterra.
«Allora, Margaret» proseguì lui, mentre io dondolavo il piede al ritmo di una canzone dei Loose Cannons che mi ronzava in testa da tutto il giorno. «Miss Olive mi ha informato che hai terminato il ciclo di lavori socialmente utili. Ti ha descritta come…» Si schiarì la voce. «… Una ragazza sveglia, bravissima a mostrarsi impegnata anche se non fa assolutamente nulla.»
Calò un pesante silenzio; credo si aspettasse una risposta, ma restai zitta e mi limitai a togliere un pelucco immaginario dai miei shorts: un gesto ridicolo dato che non avrei potuto comunque vederlo.
Dopo qualche istante, aggiunse: «Come va la scuola?».
«A meraviglia» ribattei. Era la verità: l’anno scolastico si era appena concluso, e quel giorno avevo dormito fino a tardi, mangiato un chilo di biscotti, fatto una doccia di tre ore e poi mi ero trascinata nell’ufficio di Mr Sturgis.
«Ti andrebbe di parlare dei tuoi voti?» chiese ancora, scrivendo qualcosa su un foglio.
«Non molto.»
«Che media hai?» domandò con una risatina.
Un paio di mesi prima avevamo raggiunto un tacito accordo: io sarei stata sarcastica, e lui avrebbe riso alle mie battute. Preferivo parlare il meno possibile con Mr Sturgis perché, ogni volta che gliene davo la possibilità, lui attaccava con una predica infinita sull’importanza di essere attivi nella società, di ripulire il proprio karma e via discorrendo.
Scrollai le spalle. «Sufficiente… più o meno.» Sarebbe stata più alta, se non fosse stato per Mr Huff, il professore di letteratura, che non mi sopportava dal giorno in cui, qualche mese prima, avevo causato un piccolo incidente nella sua aula. A mia discolpa, bisogna precisare che l’improvviso trasferimento alla Merchant, la scuola per non vedenti, era stato un brutto colpo; da una parte non avrei voluto lasciare la South Hampton High, e dall’altra la Merchant era un vero incubo, piena di gente che tentava di rassicurarmi ripetendomi che sarebbe andato tutto bene. Però non era vero: nel mondo reale inciampavo in ostacoli di cui ignoravo l’esistenza, non ero in grado di distinguere una banconota da dieci dollari da una da venti e avevo capito che non avrei mai più giocato a calcio.
Insomma, la Merchant era un disastro. E la cosa peggiore era Mr Huff: aveva un alito terrificante e parlava lentissimo, scandendo le parole a una a una come se avesse di fronte degli idioti. Anni prima aveva avuto un tumore ai testicoli e ogni lezione ci ripeteva allo sfinimento che era sopravvissuto al cancro, che sapeva bene cosa significa convivere con le avversità e che le aveva superate. In tutta risposta, io sospiravo e alzavo gli occhi al cielo, sperando che notasse la mia insofferenza.
Un giorno se n’era accorto e mi aveva chiesto a bruciapelo: «C’è qualcosa che vorresti condividere con il resto della classe, Maggie?».
Non mi ritengo responsabile per ciò che è accaduto dopo; ho semplicemente risposto. E avrei potuto dire di peggio, se fossi stata totalmente sincera. «Be’… Non capisco cosa c’entrino le sue palle con la nostra vista» avevo replicato, agitando un braccio per indicare gli altri poveri studenti che dovevano sorbirsi i suoi sproloqui.
Com’era prevedibile, ero stata catapultata nell’ufficio del preside, al quale avevo spiegato la mia opinione sulle palle del professore. Da quel momento avevo trascorso i pomeriggi in punizione, e Mr Huff aveva preso a parlarmi con una vocina stridula e a darmi voti bassissimi.
Mr Sturgis mi riportò al presente. «Come sta la mamma?»
Alzai la testa di scatto. «Perché? Le ha telefonato?»
«Non l’ho sentita. Ci sono problemi a casa?»
«No.»
Sospirò come fanno gli assistenti sociali – un misto di sospetto, preoccupazione e fastidio – e poi disse: «Ci vediamo il mese prossimo. Sei una brava ragazza, Margaret… Stai lontana dai guai».

2

Nonno Keith era in ritardo. L’appuntamento era alle quattro in punto nell’ufficio di Mr Sturgis, ma secondo il mio telefono erano già le quattro e mezza. Non ne ero particolarmente sorpresa, dato che si spostava alla velocità di una lumaca e non era un campione di puntualità. Stavo armeggiando con il cellulare chiedendomi se fosse il caso di chiamarlo, quando la porta della sala d’attesa, immersa in un silenzio tombale, si aprì con un tintinnio.
«Era ora!» esclamai alzandomi e dirigendomi verso l’uscita senza estrarre il bastone dalla borsa. Un secondo più tardi mi resi conto che sul pavimento c’era qualcosa di scivoloso che nessuno si era preoccupato di pulire. Ovviamente, ci misi sopra il piede.
Mi piacerebbe poter dire di essere caduta con la grazia e la dignità di ogni ragazza cieca che si rispetti – la classica tizia che comprende e accetta il fatto che il mondo sia pieno di pericoli e che ogni tanto sbatterà da qualche parte –, ma purtroppo non andò così, e l’imprecazione che mi uscì dalla bocca, nell’istante in cui atterrai, risuonò forte e chiara.
Ero su un fianco, con gli occhi chiusi, circondata dall’odore nauseante di quel bouquet, e mi stringevo la testa come se potesse esplodere da un momento all’altro, quando udii la voce di un ragazzino: «È stata la caduta più incredibile che abbia mai visto».
Grazie tante, avrei voluto ribattere, però avevo colpito qualcosa di duro e non ero lucidissima. Non riuscivo a far arrivare le parole alle labbra, mi si agitavano nella mente, incapaci di trovare una via d’uscita.
«Tutto bene?» domandò lui, ma non pareva preoccupato.
«Alla grande» replicai dopo qualche secondo. Il risultato, però, fu un borbottio confuso e non la battuta ironica che avevo sperato. Avvertii un ronzio nell’orecchio sinistro, così ci infilai un dito e lo agitai un po’. Non servì a nulla, e mi girai sulla schiena sospirando.
«Vuoi una mano?» chiese ancora il ragazzino.
Qualcosa, nel modo in cui parlava – pieno di energia e vitalità –, mi spinse ad aprire gli occhi. All’improvviso mi accorsi che la caduta mi aveva provocato le allucinazioni.
Riuscivo a vederlo.
Sei mesi prima la meningite batterica mi aveva privata della vista. Adesso avevo un’allucinazione: forse avrei dovuto sbattere la testa più spesso.
Il ragazzino si chinò a osservarmi. Doveva avere otto, nove anni, però non ne ero sicura: d’altronde, non avevo mai avuto una visione. Era biondo, non molto alto e piuttosto magro; indossava degli shorts di almeno tre taglie più grandi e un cappellino da baseball, e sfoggiava un enorme sorriso.
Mi tirai a sedere, un po’ intontita. «Tu» cominciai, indicandolo. Lui mi fissò con aria confusa, facendomi perdere il filo del discorso.
Mi guardai intorno: non vedevo soltanto il ragazzino, ma anche qualche metro più in là, come se lui fosse una lampadina che emetteva la luce fioca dell’alba. Era passato talmente tanto tempo dall’ultima volta in cui avevo visto qualcosa che ai miei occhi appariva luminoso come un faro.
Sul pavimento, di fianco alle sue sneakers, notai una confezione accartocciata di Skittles. Era rossa… oh, quanto mi era mancato quel colore! Accanto c’era una sedia di plastica azzurra, su cui qualcuno aveva inciso a grandi lettere la parola FANCULO. E, sopra, un morbido e candido raggio di sole pomeridiano. Il resto invece era offuscato, come avvolto da una nebbia che sfumava nel nulla.
Era una situazione strana… persino per un’allucinazione.
Sollevai di nuovo lo sguardo sul ragazzino, e mi accorsi che si reggeva a un paio di stampelle; come se fossero una parte di lui, tipo il naso o un orecchio.
Sorrideva ancora, con un’espressione a metà tra il divertimento e l’incredulità. «Sei ubriaca?»
Era la prima allucinazione della mia vita, eppure mi parve piuttosto arrogante. O magari erano tutte così? «Non sono ubriaca» replicai indignata. «Ho una commozione cerebrale, il che spiega la tua presenza.» Agitai un braccio con fare teatrale.
Lui gonfiò le guance e poi sbuffò. «Quindi fumi le canne. Cavolo.» In un sussurro, continuò: «Quelle carine hanno sempre qualche difetto terribile…».
«Come?»
«Visto che me lo chiedi… Ero follemente innamorato di Jessica Baylor, era nella mia classe di matematica. Era davvero carina, capelli lucidi, occhi splendenti, sorriso luminoso… Ma un giorno mi ha detto che non le piacevano le torte, e io sono contrario a chi odia le torte. Poi c’è stata Hannah. Suonava nella banda e aveva le tette. Erano splendide, il solo pensiero faceva impazzire qualsiasi ragazzo…» Batté le palpebre, una volta sola ma con decisione, come per scacciare quell’immagine dalla mente. «Però l’ho beccata mentre lanciava un sasso a uno scoiattolo. Uno scoiattolo, ti rendi conto? Incredibile. E infine oggi, quando ti ho vista, ho pensato che fossi perfetta. La tua caduta è stata… uno spettacolo. E adesso scopro che ti fai le canne.» Sospirò di nuovo. «Terribile, davvero terribile.»
Forse ho sbattuto più forte di quanto credessi… «Io non fumo» puntualizzai, anche se non avrei saputo dire perché mi stessi giustificando con un’apparizione. Un’apparizione giovanissima e pure un po’ pervertita, a essere sinceri.
«E allora perché mi fissi così? Pallida e con gli occhi spalancati?»
Aveva ragione, però allo stesso tempo mi domandai perché un’allucinazione tenesse tanto al bon ton. «Be’, anche tu mi stai fissando. Altrimenti come faresti a sapere che ti sto fissando?» Non poteva ribattere a quella logica ferrea.
Il suo sorriso si allargò all’inverosimile. «Mi hai fissato tu per prima, quindi hai cominciato tu. Io sono solo un innocente passante che si è accorto che lo fissavi.»
Mi picchiettai il mento con l’indice: non c’è niente di meglio di una bella discussione per schiarirsi le idee. Dalla sua espressione capii che anche lui si era accorto che ero più lucida e che la sua teoria sulle canne non reggeva. «In realtà, quando ti ho visto, subito dopo la caduta, mi stavi già fissando, perciò hai iniziato tu. Insomma, la mia è una semplice reazione.»
Calò un lungo, lunghissimo silenzio.
Alla fine mormorò: «Mi sa che ho trovato la mia nuova fidanzata».
Scoppiai a ridere talmente forte che mi sfuggì un grugnito molto poco femminile. A quanto pareva esercitavo un certo fascino sulle allucinazioni… Ma non era lo stesso con le persone in carne e ossa: con loro non ero affatto brava.
Udii un ticchettio di tacchi alti che si avvicinavano. In un punto imprecisato alle mie spalle, la receptionist esclamò: «Ma che cosa…? Maggie? Che ci fai seduta sul pavimento? Stai bene?».
«Benone» biascicai, senza staccare gli occhi dal ragazzino. «Mai stata meglio. Sono inciampata e poi caduta… Sul pavimento c’è qualcosa di scivoloso.»
Lei dopo qualche istante gemette: «Oh, no, no, n...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. 1
  4. 2
  5. 3
  6. 4
  7. 5
  8. 6
  9. 7
  10. 8
  11. 9
  12. 10
  13. 11
  14. 12
  15. 13
  16. 14
  17. 15
  18. 16
  19. 17
  20. 18
  21. 19
  22. 20
  23. 21
  24. 22
  25. 23
  26. 24
  27. 25
  28. 26
  29. 27
  30. 28
  31. 29
  32. 30
  33. 31
  34. 32
  35. 33
  36. 34
  37. 35
  38. 36
  39. 37
  40. 38
  41. 39
  42. 40
  43. 41
  44. 42
  45. 43
  46. 44
  47. 45
  48. 46
  49. 47
  50. Ringraziamenti
  51. Indice