1
Giorgia
Da qualche giorno la mia tranquillità era stata spazzata via.
Da qualche giorno il mio cuore aveva ripreso a martellare nel petto e le farfalle ad agitarsi impazzite nello stomaco. Era come se il mio corpo fosse stato addormentato per un lungo periodo e si fosse svegliato all’improvviso, sconvolgendomi con un mare di emozioni.
Ingenuamente avevo creduto che non sarebbe più successo. Pensavo che sarei rimasta intrappolata in quello spesso involucro per sempre. A stento avevo trovato la mia sofferta pace interiore e la conservavo con rassegnazione.
E invece… Tutto a un tratto la mia vita era stata scombussolata di nuovo.
Ero elettrizzata!
Scossi la testa e mi concentrai su ciò che stavo facendo: ultimamente l’attenzione mi abbandonava con troppa facilità .
Accesi il computer e mentre i programmi si avviavano estrassi dal cassetto della scrivania cavi e memory card, pronta per scaricare le tante immagini catturate con la mia Canon, scegliere le migliori e condividerle con il mondo virtuale tramite il mio blog: Instant Moment.
Lo avevo creato qualche tempo prima, in forma anonima, e lo usavo per pubblicare la maggior parte dei miei scatti, che altrimenti sarebbero finiti in una delle tante cartelle senza nome sul desktop.
Nessuno conosceva la mia identità e non caricavo mai foto di volti o persone che avrebbero potuto far risalire a me, soltanto dettagli o paesaggi per cui avevo avuto un colpo di fulmine.
Quella era una delle pochissime attività che mi dava soddisfazione; ogni volta che ricevevo commenti o mail di apprezzamento, il cuore mi si gonfiava di gioia.
Gattino che si arrampica su un ramo, o gattino che si lecca una zampa? Quale posto sul blog?
Ecco, quello era il mio dilemma momentaneo, che venne cancellato in un battito di ciglia non appena udii una voce.
Non una qualsiasi, ovviamente.
Ma quella che sognavo da sempre e che, dopo una lontananza durata un anno intero, ero tornata ad ascoltare con delizioso piacere dei miei sensi di ragazza innamorata.
Stavo per abbandonarmi alle solite romantiche fantasticherie, quando se ne aggiunse un’altra che mi strappò dal mio idillio.
La nostra nuova coinquilina! Era sempre fra i piedi! E tra l’altro non era una coinquilina qualsiasi: sembrava una modella uscita direttamente da una pubblicità di intimo.
Mi alzai dalla sedia e mi sedetti sul tappeto indiano al centro della stanza in una scomoda posizione yoga, perché lo yoga mi rilassava. Tuttavia qualche secondo dopo la splendida venticinquenne sfoggiò una risatina maliziosa e seducente a cui fece da contrappunto la voce di lui, quel tono allusivo basso e roco, quella risata che gli vibrava in gola.
Dio, ero proprio innamorata persa!
Mi sollevai con uno scatto fulmineo e in due falcate raggiunsi la porta. Aprii uno spiraglio: Annabelle e Alessandro erano a qualche metro da me, immersi in una conversazione che aveva un non so che di erotico. Lei ammiccava come una cerbiatta, lui le sussurrava qualcosa con un sorrisino dannatamente provocante.
Con una calma che non possedevo affatto, continuai a osservarli. Quanto avrei voluto essere nei panni di Annabelle in quel momento! Il mio desiderio era immenso e duraturo, come la delusione che mi frustava ogni volta che Alessandro mi trattava come se fossi stata la sua sorellina.
Certo, parlavamo, scherzavamo, spesso uscivamo insieme, era capitato persino che dormissimo nello stesso letto, ma fra di noi c’era un muro invisibile, lungo quanto la Muraglia cinese. Fra di noi vigeva il primo comandamento, una vera e propria legge inviolabile: il cosiddetto non s’ha da fare, che vietava agli amici di mio fratello Carlo di avere delle mire sessuali su di me.
Ebbene, Alessandro era il migliore amico di Carlo, che doveva aver promulgato quel comandamento senza pensare alla sofferenza che mi avrebbe provocato. Infatti era da quando avevo tredici anni che Alessandro mi era entrato nell’anima a forza di sorrisi smaglianti e pacche fraterne.
A essere sincera, però, la cruda realtà era che lui non si accorgeva di me. Non si era mai accorto di me. E dal suo ritorno, la settimana prima, la situazione pareva addirittura peggiorata.
Eppure non ero brutta: in un passato abbastanza recente avevo riscosso un discreto successo nell’universo maschile, ma in Alessandro non avevo mai colto nessun segnale simile, mai un’occhiata complice, nulla che alleviasse il dolore del mio amore non corrisposto. Mai nulla che mi desse una flebile speranza.
Senza la speranza che ci vibra nel petto, che cosa siamo? Che cosa ci fa andare avanti?
In ogni caso, avanti ci andavo lo stesso, barcollando, stringendo il cuscino durante le notti insonni, sopprimendo ogni istinto e sognando attraverso le storie delle mie amiche, di qualche film o libro.
Mi schiarii la voce per attirare la loro attenzione. Alessandro fu il primo a voltarsi e a notarmi.
Ecco, mi bastava guardarlo per ricordare la scintilla che aveva acceso quel sentimento impossibile. Appena i suoi occhi azzurri incontrarono i miei, rammentai perché ero così pazza di lui. Il mondo circostante scomparve in un attimo. Rimanemmo soltanto io e lui in un luogo caldo e accogliente, silenzioso ma carico di parole.
Avevo fotografato tanti corpi e moltissimi visi, avevo cercato la bellezza anche dove non c’era, però non mi era mai capitato un soggetto come lui.
Alessandro era pieno di contrasti e contraddizioni, spigolosità e rotondità , ombre e luci accecanti che mi lasciavano senza fiato. Talvolta mi ero domandata se non fosse soltanto frutto della mia fervida immaginazione.
Aveva corti riccioli di un biondo scuro, che gli incorniciavano il viso in modo perfetto e si ribellavano a qualsiasi pettinatura. La mascella era squadrata, spesso ricoperta da un’ispida peluria color miele. La bocca era una fragola rossa e succulenta: avrei fatto di tutto pur di assaggiarla. E gli occhi erano intensi, di un azzurro limpidissimo che mi impediva di fissarli per più di qualche secondo senza morire di vergogna. La forma allungata e le ciglia folte, poi, gli donavano un aspetto da predatore.
«Ciao, stellina, non pensavo fossi a casa» mi salutò con un sorriso sardonico.
«Mi spiace aver rovinato i tuoi piani.»
A quel punto Annabelle mi degnò di un’occhiata verde smeraldo e con stizza indietreggiò fino alla sua camera. «Ti aspetto» miagolò ad Alessandro prima di rinchiudersi nella sua tana.
Credetti di esplodere dalla rabbia frantumandomi in diecimila cocci acuminati, che avrebbero infilzato il corpo di Alessandro, disinvolto di fronte a me, con le mani affondate nelle tasche dei jeans e quella maglietta striminzita che avrei tanto voluto strappargli.
«Ti sei svegliata con la luna storta?»
«A dire il vero non mi sono mai sentita così di buon umore» mentii spudoratamente. Avrei trovato qualsiasi scusa per trattenerlo con me e perché non raggiungesse la dea mezza nuda di là .
«Hai bevuto latte acido, Jo?»
Jo. Jo. Jo! Mi chiamo Giorgia, eppure si ostinava a usare quel diminutivo sin da quando ero bambina, e non aveva perso il vizio nonostante avessi ormai ventitré anni.
«Come mai sei qui? Non hai altro da fare?»
«Sfortunatamente per te no, e poi abito qui di fianco, Jo, nel caso te lo fossi scordata.»
Tanto per cambiare il destino si era accanito di nuovo contro di me. L’anno precedente, subito dopo aver piantato Paolo e la partenza di Alessandro, mi ero trasferita da Carlo nella casa che ci aveva lasciato in eredità nonna Lina. Lì per lì mi era parsa un’ottima idea: avevo i miei spazi, la libertà e la certezza di non trovarmi più Alessandro tra i piedi, dato che viveva con la famiglia nell’appartamento sopra quello dei miei genitori. Avevo infatti stabilito che era decisamente meglio che stesse lontano dai miei occhi.
Ma adesso che era rientrato all’improvviso da Londra aveva affittato il monolocale sul nostro stesso piano, ed ero obbligata a vederlo in continuazione e a struggermi in silenzio sotto le coperte quando sentivo la sua voce o riconoscevo i suoi passi sul parquet.
«Purtroppo lo so. Sono costretta a sopportarti, però la PlayStation è rotta e Carlo è agli allenamenti di karate» gli rammentai mentre girovagavo per la stanza, sistemando qualche oggetto.
Lui rimase sulla soglia, alto e con il suo fisico atletico, a dondolarsi sui talloni seguendo i miei movimenti. «Speravo che fossi a lezione.»
«Perché non hai portato Annabelle da te?» sibilai fra i denti passando davanti allo specchio dell’ingresso.
Oh mio Dio, fui colta dal panico. Ero impresentabile! Come mi era venuto in mente di uscire dalla mia stramaledettissima stanza in quelle condizioni? Indossavo delle culottes bianche e sopra una maglia nera sformata, il tutto completato da calzettoni a strisce rosse e verdi. I capelli, castani proprio come gli occhi, erano raccolti in un’improbabile crocchia.
«Annabelle è convinta che nell’appartamento di un uomo single siano annidati milioni di virus e batteri che attenterebbero alla sua persona, per cui non ho molta scelta» ribatté scettico.
«Io attenterei volentieri alla sua persona, e non sono certo un virus.»
«Stellina…» Alessandro mi richiamò, pronto a dirmi qualcosa, poi sembrò ripensarci e cambiò anche tono di voce. «Stellina, sei…»
No, ti prego, no!
Inghiottii una palla da baseball e mi pietrificai.
«Ecco… dovresti venire in palestra.»
Mi girai di scatto, Alessandro aveva lo sguardo celeste e innocente, un paio di riccioli color del sole gli accarezzavano la fronte. Era rilassato, mentre io ero una molla sul punto di scattare.
Ignorai il suo consiglio e il significato intrinseco di quelle parole. «Ti hanno ripreso a lavorare alla Best Gym?» gli chiesi sorpresa.
Lui annuì soddisfatto. «Inizio la prossima settimana, quindi passa e vedrai che ti rimetto a nuovo, sono il migliore nel mio campo» si autogratificò, il futuro ortopedico dei miei stivali.
Mi scagliai verso di lui per tempestargli con foga il petto di pugni, ma scoppiò a ridere stringendomi in un abbraccio che mi paralizzò con sommo piacere.
«Sei uno stronzo, bastardo, maschilista.»
«Ah, ah» mi rimproverò. «Non ti azzardare.»
Allentò la stretta sfiorandomi la fronte con un bacio al sapore di dolci promesse – ma solo nelle mie fantasie più sfrenate – e poi mi mollò. «Comportati bene, Jo. Ci vediamo stasera.»
Te ne vai così in fretta? Eccolo, un uragano che semina morte e distruzione e dopo svanisce come se non fosse mai esistito, lasciando solo il suo nome che aleggia nell’aria.
«Era ora che levassi le tende» replicai, dandogli le spalle. Sapevo che probabilmente avrei sentito la porta di Annabelle aprirsi e richiudersi, concedendole ciò che io desideravo da anni e che il destino non aveva alcuna intenzione di concedermi.
Chiusi l’uscio e ci poggiai contro la fronte strizzando forte gli occhi.
Conoscevo bene quei momenti di impotenza e tristezza, e l’unico modo per non essere sopraffatta dallo sconforto era spegnere la mente e concentrarmi su altro.
Come guidata da...