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L’eclissi della destra
Con le elezioni politiche del 24 febbraio 2013 una storia si è conclusa, ma una certa idea dell’Italia continua il suo travagliato percorso. La storia è quella della destra politica, almeno così come ho contribuito (certo non da solo) a far sì che fosse negli ultimi vent’anni. L’idea che continua è quella della nazione italiana in cammino verso una coscienza più piena e matura della sua odierna, multiforme identità già così diversa da quella del Novecento. In cammino verso più efficaci modelli di governance istituzionale e quindi di democrazia. In cammino verso più elevati ed equi standard di vita nel campo dei diritti civili e di quelli sociali. In cammino verso l’Europa dei popoli e di quella democrazia sovranazionale che ha di fronte a sé sfide inedite e che necessita di un orizzonte largo, come del resto l’evoluzione geopolitica e geoeconomica mondiale sempre più impone nell’era della globalizzazione.
La prospettiva di una Italia ottimista, volitiva, che richiamando Gioacchino Volpe possiamo definire «in cammino», ha riempito le pagine più significative della migliore cultura di destra del dopoguerra, ma è difficile negare che oggi sia debole, quasi assente dal dibattito politico-culturale. È sommersa, resa quasi invisibile o comunque afona dalla esplosione di nuovi particolarismi ed egoismi, non solo individuali; dalla emersione di populismi spesso impastati di neonazionalismo, antieuropeismo, xenofobia, pulsioni demagogiche, a volte paraeversive. Sono fenomeni complessi, che riguardano in misura diversa tutte le democrazie occidentali e che si alimentano anche dalla mancanza di fiducia nel futuro scatenata dalla acutezza della crisi economica e dalla conseguente insicurezza sociale che porta con sé ansie, paure, rinunce, chiusure.
Per quanto oggi sia debole, la prospettiva di una Italia che guarda in avanti rimane comunque indispensabile; ma per affermarsi ha bisogno di un motore, di un centro di gravità, di un nucleo duro di valori e princìpi elaborati e garantiti dalla politica nel senso etimologico e più autentico del termine: la salute della polis, la cura della dimensione pubblica, plurale del vivere civile. Impresa ardua in tempi in cui dilaga l’antipolitica, il rifiuto disgustato e totale di tutto ciò che riguarda i partiti, le istituzioni, il Parlamento, divenuti sinonimi di incapacità, privilegi di casta, corruzione. Al momento, l’azione della politica sembra difettare di una visione strategica, appare tattica più che di ampio respiro. Va detto, a onor del vero, che il predominio del cosiddetto pensiero debole è diretta conseguenza, peraltro ampiamente prevista e studiata, della fine delle ideologie e del mutamento epocale causato dai due decenni che abbiamo alle spalle.
La stessa irruzione dei social media nella vita quotidiana ha determinato conseguenze di primo piano anche nelle dinamiche politiche, perché da un lato ha aumentato il livello della partecipazione popolare (il web come agorà del XXI secolo), ma dall’altro ha indebolito l’esercizio della leadership da parte delle classi dirigenti. Al riguardo è stato giustamente messo in evidenza che il venir meno del ruolo dei partiti nella formazione delle classi dirigenti e la pressione esercitata da parte delle nuove tecnologie su chi è chiamato a decidere ha reso più evidente, e comunque nuovo rispetto al passato, il rischio che nella democrazia i gruppi dirigenti siano propensi a seguire gli umori popolari, facendosene condizionare, più che guidarli. Una riprova clamorosa si è avuta durante le votazioni per l’elezione del capo dello Stato, quando un nutrito numero di parlamentari del Pd, scelti con le primarie, ha disatteso le indicazioni del vertice del partito e ha assecondato la richiesta, espressa per via telematica dai loro sostenitori, di non votare il candidato indicato dal partito stesso, nemmeno quando si trattava di una figura di indubbio rilievo come l’ex presidente del Senato Franco Marini.
Una certa idea della destra, repubblicana
In uno scenario in cui le formazioni politiche sembrano restie a interrogarsi su fenomeni così nuovi e gravidi di conseguenze, è certo che chi brilla per la sua assenza è soprattutto la destra politica o, meglio, la destra repubblicana. Con questa espressione intendo una destra caratterizzata da una cultura e da un’azione convintamente europeiste, perché consapevole della necessità di innovare e arricchire la identità nazionale contaminandola positivamente; una destra che indica nella libertà di mercato e di impresa il presupposto indispensabile per creare più ricchezza e in assenza delle quali, come dimostra la storia del secolo scorso, è impossibile garantire giustizia sociale e parità di diritti. Una destra repubblicana perché garante dell’autorità dello Stato e delle sue leggi, oltre che della efficienza e onestà delle istituzioni a ogni livello. Una destra laica e, proprio perché tale, consapevole del grande ruolo anche sociale delle religioni; una destra attenta alla cultura del dovere e delle regole poste a presidio dell’etica pubblica, e cosciente della forza pedagogica, specie per i giovani, degli esempi virtuosi.
Basterebbe questo semplice accenno, in un contesto in cui la pseudodestra berlusconiana vive la sua ultima stagione all’insegna del più palese disprezzo per la legalità e perfino per il principio che vuole la legge uguale per tutti, per far comprendere cosa intendo evocando «una certa idea della destra». È una dimensione che non può essere riferita, se non in minima parte, al Pdl, il soggetto politico che oggi rappresenta in modo quasi totalizzante sia gli elettori sia i movimenti e i partiti che si autodefiniscono di destra. Se oggi l’obiettivo strategico della missione e dell’azione della destra politica dev’essere soprattutto quello di ridare alla nazione un destino comune, un senso di appartenenza e di marcia condiviso, è evidente che non lo si può più sacrificare sull’altare degli interessi individuali, per quanto carismatica e vincente sia stata la leadership di Berlusconi.
Il nodo da sciogliere, quello che il Pdl non ha mai nemmeno individuato come il terreno su cui combattere la battaglia decisiva per l’affermazione di una destra autenticamente repubblicana, non è tanto e non è soltanto quello evidente del conflitto di interessi personali del suo fondatore, quanto il conflitto, permanente e sempre più grave, tra i particolarismi e gli egoismi di appartenenza sociale, territoriale e finanche personale e l’interesse nazionale. La destra è infatti autenticamente tale se è immune dalla tentazione di cavalcare, per ragione di mero consenso elettorale, i tanti fenomeni di localismo, populismo e demagogia che oggi attraversano la società italiana e la scuotono profondamente.
Dal 1994 la destra politica ha più volte governato, a livello nazionale come in tante amministrazioni regionali e locali. Ma la domanda che oggi, in sede di bilanci, deve porsi è se ha accompagnato o meno la sua azione di governo con un’azione culturale e metapolitica capace di individuare e far affermare nella società un nucleo di valori comunemente condivisi da tutti i cittadini e quindi come tali capaci di imporsi a fondamento di una nuova Italia.
Se la seconda Repubblica non è mai nata per davvero è anche perché, a una cultura politico-istituzionale conservatrice propria delle sinistre e ancorata alla difesa, anche per ragioni storiche, della sostanziale intangibilità della Costituzione, non si è quasi mai dialetticamente contrapposta la cultura politico-istituzionale di una destra riformatrice, consapevole della vitale necessità di contribuire attivamente alla stesura di un nuovo patto fondativo tra tutti gli italiani.
Questo era di certo l’obiettivo dichiarato delle tesi congressuali di Alleanza nazionale; e non credo si possa dire altrettanto delle linee strategiche su cui si è mosso complessivamente il centrodestra, che troppo spesso ha privilegiato, specie per l’influenza leghista e per il prevalente interesse di Forza Italia per le tematiche relative alla giustizia e al ruolo della magistratura, la via di riforme costituzionali non condivise e anche per questo finora mai realizzate.
La incapacità di comprendere che contribuire alla stesura di un nuovo patto costituente tra gli italiani avrebbe rappresentato l’evento storico, il crinale tra la prima e la seconda Repubblica, il certificato di nascita di una destra di governo in ragione del suo retroterra culturale ancor prima che per il suo mutevole consenso elettorale, ha impedito che in Italia avvenisse quanto accade in altri Paesi europei. Se guardiamo ad esempio alla Francia della quinta Repubblica non si può fare a meno di notare che, da De Gaulle a Hollande, c’è, al di là di ogni ovvia e profonda diversità programmatica, una linea di continuità della destra e della sinistra, frutto del comune richiamo a una condivisa identità repubblicana. Essa si basa su un forte sentimento di coesione nazionale e su una altrettanto forte volontà di attuare quei princìpi di libertà, uguaglianza, dignità della persona che dal 1789 sono alla base della società francese.
L’anomalia italiana è comunque da questo punto di vista antica. Ha ragioni storiche complesse e profonde. Si pensi ad esempio che, nell’immaginario collettivo, la identificazione tra destra e neofascismo è sopravvissuta per decenni alla fine della guerra; oppure si pensi alla particolarità della Dc, non solo partito dei cattolici, ma punto di riferimento popolare e di massa per chi si opponeva al comunismo filosovietico e si riconosceva nei valori liberaldemocratici; oppure si pensi alla condizione ultraminoritaria della cultura liberale e di mercato in una società come la nostra in cui, fin dalla unificazione nazionale del 1861, lo Stato ha avuto un ruolo di primaria importanza e presenza nella economia. Sono tre dati di fatto storici (e non certo i soli) già sufficienti per confermare quanto il nostro Paese sia molto diverso non solo da quello dei cugini d’oltralpe (dove un uomo «di destra» come De Gaulle fu a capo della Resistenza e l’unità statuale risale a Carlo Magno), ma anche dalla Spagna (dove Francisco Franco, giunto al potere anche grazie a Mussolini e Hitler, morì nel 1975 nel suo letto e il suo delfino e successore Suarez pilotò con il re il Paese verso la democrazia).
Al di là della storia patria, che ovviamente incide e non potrebbe essere altrimenti, come dimostra anche la dialettica politica tra Labour e Tory in Gran Bretagna, del tutto diversa da quella delle democrazie continentali, è comunque un dato di fatto che, ancora oggi, in Italia una cultura politica di destra intesa come «destra repubblicana» è pressoché inesistente e comunque non certo interpretata dal cosiddetto berlusconismo.
La destra che (non) c’è
Il fallimento elettorale di Fli unito al concomitante capolavoro politico di Berlusconi, capace di «perdere bene» le elezioni, ma soprattutto capace, anche per il collettivo suicidio del Pd, di stravincere il dopo elezioni con il varo del governo Letta-Alfano, rappresenta un dato di fatto che può essere legittimamente richiamato per liquidare queste pagine come il mio velleitario tentativo di nascondere la realtà, di giustificare una scelta sbagliata che gli elettori di destra per primi hanno bocciato.
Spero che queste mie considerazioni contribuiscano a fugare l’eventuale e legittimo pregiudizio. Certo non accadrà per chi pensa che, per la destra, sia naturale seguire acriticamente il leader, senza discutere e men che meno contestarlo, almeno in pubblico, finché le cose vanno bene. Fra i dirigenti del Pdl sono in tanti a pensarla così ma, a scanso di equivoci, va detto che ce n’erano anche in Alleanza nazionale e forse perfino in numero maggiore di quelli che militavano nella prima Forza Italia. A parte i seguaci del «credere, obbedire e… essere nominati parlamentari», spero quindi di fornire in queste pagine qualche motivo di serena riflessione, al di là del fatto che si condividano o meno le mie opinioni.
Questo libro non vuole essere solo testimonianza personale e men che meno atto di accusa nei confronti di chicchessia, ma suggerimento e incitamento, specie per i più giovani, perché in futuro la destra politica non commetta alcuni errori che l’hanno caratterizzata nei venti irripetibili anni che vanno dal 1993 al 2013. Errori rispetto ai quali non ho alcuna intenzione di tirarmi fuori non assumendomene la responsabilità, in alcuni casi tutt’altro che lieve.
Il mio intendimento è in primo luogo quello di contribuire a diradare la fitta nebbia che oggi avvolge la destra politica. Nessuno sa più che cosa esattamente sia. La stessa parola «destra», un tempo impronunciabile, è oggi spesso evocata, e non solo dalla sinistra, unicamente in senso elogiativo o polemico, in obbedienza a una pulsione manichea, a un riflesso condizionato pro o contro Berlusconi, come se tutto il patrimonio ideale e culturale della destra italiana fosse racchiuso ad Arcore.
L’immagine odierna della destra è in definitiva un’immagine confusa, di comodo, buona per gli usi più svariati. E dire che la destra è sempre stata una presenza scomoda, prima per chi la detestava per la sua originalità e la sua diversità valoriale, poi per chi ne temeva la capacità di rinnovarsi, di sintonizzarsi con i mondi vitali della società.
Una vocazione italiana
Per queste ragioni, è venuto insomma il momento per provare a identificare in modo più netto la destra; per farlo è necessario ripercorrere in primo luogo le tappe del suo viaggio più recente, raccontandone il diario di bordo, la rotta e la stella polare, così come gli insuccessi.
È inoltre essenziale spiegare perché la vocazione più profonda della destra è nella sua capacità di mutare. Ovviamente non si tratta di trasformismo fine a se stesso e privo di valori duraturi, ma del progressivo avvicinarsi a una meta precisa: dopo aver fatto rientro in patria, al termine di un dopoguerra durato quasi mezzo secolo, contribuire alla sua rinascita. Ne consegue che il fine ultimo della destra non si può esaurire nell’imperativo categorico, e per taluni ossessivo, di battere le sinistre; la destra di cui l’Italia ha bisogno deve avere un obiettivo assai più ambizioso: incarnare la passione civile della politica, riformare la Repubblica attraverso uno sforzo concorde e unitario, ricomporre le fratture generazionali, sociali e territoriali, ridefinire la nostra identità nazionale che è parte imprescindibile dell’identità europea.
Dal congresso fondativo di An del gennaio 1995, la destra ha interpretato, se pur a intermittenza, questa vocazione italiana. La sua nascita è stata certo propiziata dalla fine della guerra fredda, dall’esaurimento dei partiti della prima Repubblica, dall’avvento del bipolarismo che ha fatto scoprire agli italiani l’alternanza di governo anche in una democrazia industriale come l’Italia dei primi anni Novanta, finalmente liberata dalle gabbie e dai muri dello scontro ideologico liberalcapitalismo/comunismo.
A determinare la nascita di An c’era però ben più della necessità imposta dal mutamento del sistema politico e da una nuova legge elettorale maggioritaria. C’era la coscienza che, caduto il Muro di Berlino, la storia si era rimessa in movimento: nulla sarebbe rimasto inalterato e quindi bisognava osare, spingersi in mare aperto, rinunciare a nostalgiche rendite di posizione, fare i conti in modo sincero e doloroso anche con le ambiguità dei nostri padri, denunciandone le colpe. An nacque e vinse perché interpretò un sentimento diffuso nella componente più dinamica della società: il dopoguerra era finito, era tempo di avviare una nuova stagione per pacificare in profondità il tessuto nazionale, per costruire una democrazia più forte con istituzioni più rappresentative e autorevoli capaci di sradicare il malaffare e moralizzare la vita pubblica; An nacque per saldare capitale e lavoro in un’alleanza che fosse appunto nazionale, tesa a garantire il legittimo interesse di tutti gli italiani.
Fu la sua volontà di costruire una nuova Italia, coinvolgendo tanti connazionali che mai avevano simpatizzato per il Movimento sociale italiano-Destra nazionale, a sancirne il successo. Furono la forza delle idee che esprimeva e la sua visione del futuro a riempire le urne, oltre che le pagine dei giornali. Non fu una legge elettorale e men che meno una manovra di Palazzo. La forte spinta al cambiamento che An rappresentava dopo decenni di democrazia bloccata e di degenerazione partitocratica s’incontrò con le pulsioni e le aspirazioni che provenivano da altri settori della società, che si raccolsero intorno a Berlusconi e a Forza Italia, e che al Nord avevano già portato alla esplosione leghista.
L’alleanza della destra con Berlusconi e Bossi è stata l’elemento che più ha caratterizzato l’ultimo ventennio della politica italiana ed è inevitabilmente intrecciata in modo stretto con il suo percorso in questo lasso di tempo. La durata e la natura stessa dell’alleanza mi sono state contestate sia da coloro che hanno compreso e approvato la rottura con Berlusconi del 2010 sia da coloro che, all’opposto, l’hanno fortemente disapprovata. Per taluni è avvenuta troppo tardi, per altri non doveva avvenire mai. Sulle ragioni dello «strappo» mi soffermerò diffusamente. Quel che mi interessa fin d’ora porre in rilievo è che la vicenda della destra italiana dal 1994 a oggi dev’essere letta e raccontata nelle sue motivazioni più autentiche e profonde, nella sua dinamica d’insieme, non solo nelle sue vicende contingenti, nei rapporti altalenanti tra i suoi protagonisti, nella bontà o meno di questa o quella scelta del momento.
Se si è capaci di individuarle, si scopre che in queste motivazioni di fondo c’è la spiegazione sia dei cambiamenti positivi e durevoli che la destra ha prodotto nella società sia la ragione dei ritardi, delle inadeguatezze, degli errori che ha compiuto. E naturalmente c’è la genesi degli eventi degli ultimi tre anni, che così dolorosamente hanno investito il nostro mondo politico, oggi lacerato come non mai e squassato dalle reciproche accuse di tradimento. Tornerò su questo aspetto particolare, tutt’altro che secondario per chi sa quanto sia importante definire, nella comunità della destra politica, il significato autentico del valore della lealtà, che certo non è sinonimo di acritica fedeltà.
Forse è ancora troppo presto per sottrarre gli avvenimenti al fuoco della vis polemica, ma è comunque necessario provarci, con la consapevolezza che, per quanto mi sforzi di essere oggettivo, la mia è pur sempre una storia di parte. Anche se, nello scriverla, ho cercato di tenere a mente una massima di Giuseppe Mazzini: «Posso ingannarmi, ma non ingannarvi».
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Una svolta attesa da cinquant’anni
È vero che la destra è uscita dall’isolamento politico e ha assunto responsabilità di governo solo grazie a Berlusconi?
Sulla questione si è affermata una superficiale semplificazione: il presunto sdoganamento operato da Berlusconi a beneficio dei «postfascisti», come nei primi anni Novanta, in omaggio all’imperante moda del postmoderno, veniva definita la destra.
Coniato da Eugenio Scalfari nell’estate del 1994, il termine piacque subito a molti e certo anche al Cavaliere che, in qualche occasione, lo arricchì con la sua fervida immaginazione. Nel gennaio del 1997, ad esempio, così Berlusconi definì se stesso in rapporto alla classe dirigente di An: «Sono stato come la Fata Smemorina della favola di Cenerentola: erano zucche e li ho trasformati in principi».
L’equivoco dello «sdoganamento»
È certo incontestabile che, senza l’alleanza con Forza Italia, la destra non avrebbe varcato la soglia delle stanze di governo nella primavera del 1994, ma è altrettanto innegabile che, senza l’alleanza con An, Berlusconi non avrebbe mai vinto le elezioni ad appena due mesi dalla fondazione di Forza Italia. E fu, il nostro, un contributo di peso: 13,5 per cento dei voti pari a cinque milioni di persone, più di un terzo dell’intero elettorato di centrodestra.
Bisogna quindi intendersi su che cosa significhi «sdoganamento». Se lo intendiamo come semaforo verde all’ingresso di un partito di destra nel governo nazionale, per la prima volta nella storia della Repubblica è indubbio che l’alleanza con Berlusconi rappresentò una notevole opportunità, colta appieno. Se invece intendiamo «sdoganamento» come legittimazione democratica a governare e come punto di partenza del processo di costituzionalizzazione della destra, allora il termine è non solo fuorviante, ma addirittura mistificatorio. La legittimazione della destra come forza di governo fu infatti un processo che si era avviato, ancorché in fase embrionale, ben prima che il Cavaliere decidesse di scendere in campo. Un processo – vale la pena sottolinearlo – che sarebbe proseguito e maturato, se...