Parte terza
XIX
Fece un gran freddo, l’altr’inverno, sui vetri della finestra c’erano i ghiaccioli, gli argini del Terzolle s’intravedevano appena. Così le facciate delle case, il motore sembrava le dovesse incrinare. Fu cotesto giorno: avevo l’impressione di lasciarmi alle spalle un rovinìo di cristalli; acceleravo il più possibile, dolcemente e con frenesia, finché non mi mancava il respiro. Sulla fronte il velo di sudore diventava brina. Lungo via del Romito, al di là del cavalcavia, la conchiglia della Shell illuminata, con la sua pozza gialla, segnava una striscia d’arrivo: curvai, normale, aiutandomi col piede; e la moto mi scappò. Mi ritrovai bocconi, a mezzo metro da una Giulietta frenata di schianto, un po’ intronato e senza sgraffiature. In quello stesso momento il suo treno si fermava sotto la pensilina.
Tempo prima avevo creduto di sapere tutto di lei, poi me n’ero dimenticato. Allora s’era ragazzi, di certo l’anno avanti delle elezioni, perché all’epoca delle elezioni io avevo già lasciato la tipografia per entrare all’Istituto Industriale; e mi capitava di rimpiangere Borgo Allegri e la Merker B 2 che dovevo controllare quando suo padre parlava coi clienti o andava a bere il bicchiere di vino. Tornava: “Non è mica venuta la mia figliola?”. Noi, era come se ci rincorressimo su e giù per le scale di un palazzo con due uscite: lei veniva che io ero sempre fuori a pagare una cambiale, a consegnare lo stampato, alla Sala Corse o al botteghino del lotto dove suo padre mi mandava per conoscere i risultati e per giocare. Un giorno arrivò una lettera. “Questa è della mia figliola.” Così seppi che lei era partita. Ma prima ci dovemmo certamente incontrare lungo Borgo Allegri e via Ghibellina, e io avrò desiderato di farle un complimento come ad ogni ragazza che ci sfiora e non mi è mai riuscito. Mi piace e non mi basta l’animo. È diverso da quando siamo in compagnia; sembra che le parole diventino dei sassi e possano far male. Ma forse no: allorché qualche settimana dopo, da un’altra lettera, suo padre tirò fuori la fotografia, guardandola l’avrei riconosciuta. Nella foto, lei appariva com’era la sera che spinse la porta, s’inoltrò d’un passo verso di me che trafficavo nel corridoio attorno al motore, e sentii la sua voce.
«Oh scusi, mi scusi.»
II carburante s’era ingrippato, lo stavo smontando, avevo le mani nere d’unto, mi alzai sfregando le palme sulla tuta. Fuori c’era il buio dell’inverno con la nebbia che saliva dal Terzolle, la sigla del telegiornale e qualcuno che diceva: «Vieni a sentir due bugie?». Lei era rimasta sulla soglia, indecisa.
«Entri» la invitai. «In questa casa non siamo più cannibali da almeno quattro generazioni.»
«Oh, non ne dubito.»
Marionette, dapprincipio. Io in obbligo di fare lo spiritoso, lei di apparire eccessivamente confusa. Aveva posato la valigia a sacco e sembrava ripigliar fiato. Indossava il cappotto malva, svasato, la sciarpa attorno al collo, una idea di rosso sulle labbra, i capelli tagliati come i miei, ma pieni di riflessi naturali, rossi e oro. Gli occhi, il suo sguardo, li avrei scoperti dopo. Adesso, pur studiandosi, ci s’avvicinava, lei col fiato grosso, io con le mani unte di nero che le porgevo il mignolo e le dicevo: «Cos’ha, dei lingotti, dentro la valigia?».
«Mi scusi sul serio, forse ho sbagliato piano.»
«Soprattutto casamento. Hanno cambiato la numerazione e probabilmente nessuno l’ha avvisata.»
«Oh già, ma.»
«Suo padre la tipografia l’ha ancora in Borgo Allegri, ma ad abitare è venuto dalle nostre parti, come vede.» Mi divertiva farla impazzire; sempre più un burattino insomma, ero un ragazzo che recitava. «Questo è Rifredi, io ci sono nato. Siamo contornati dalle fabbriche, dal complesso ospedaliero e dal nuovo Quartiere dov’hanno confinato i profughi dalla Grecia e gli istriani. Ci si troverà bene, la nebbia non è di rigore. Qui sotto, per andare alla messa, c’è Santo Stefano in Pane.»
«Interessante» esclamò. Si ricompose i capelli sulla fronte, fece l’atto di riprendere la valigia. «Ma io…»
«Lei è Lori, reduce da Milano.»
Tra i due occhi, alla radice del naso, quel viluppo di pieghe, quando è inquieta. Le mani si toccavano appena, fu lei a trattenere un attimo la mia.
«Ecco, ora s’è sporcata» dissi.
E le rivelai il mistero della fotografia per cui potevamo considerarci amici. Mentre io parlavo e lei mi ascoltava, un po’ ironica un po’ incuriosita, si sentiva la voce del lettore TV bubare di Kennedy di Nixon e d’Algeria, poi la musica del carosello della pubblicità. Ormai, se non le strappavo un appuntamento, mi pareva di restare mutilato. S’era appoggiata di spalle contro la porta, le mani sui gomiti; e sorrideva.
«Ho capito tutto» disse. «Ora so con precisione dove abito e dove dovrei venire domani sera. No, esco da me» m’interruppe, «non si disturbi, non s’incomodi» e ridiscese le scale, ripetendo le mie parole: «Verso quest’ora, sotto il lampione. Non c’è che quello, non mi posso sbagliare. Prima del ponticino, dove finisce il canneto e il fondo del Terzolle è pieno di macerie».
Io la guardavo dalla finestra, allontanarsi nel buio come se fuggisse. Ma c’eravamo incontrati; né lei né io potevamo più scappare.
L’indomani le dissi: «Sai dapprincipio per chi t’avevo preso? Una di quelle ragazze che vengono a far la reclame dei detersivi e lasciano i campioni in regalo».
«Ho fatto anche questo» disse, «lassù a Milano.» Mi fissò com’è suo garbo, inclinando la testa su un lato. E m’incominciò a impaurire. Ci si indovina come se ci si vedesse in una palla di vetro. «A me, un momento prima che tu parlassi del palazzo con due uscite, era venuto in mente il ragazzo di tipografia. Mio padre non faceva che decantarti. Potrebbe essere lui, mi dicevo, sono passati quattro anni. Eppure in tutto questo tempo non ci avevo mai pensato. E nemmeno sapevo com’eri fatto, nulla.» Sospirò scuotendo il capo. «Davano così poco. E la sera, un mal di piedi! Tu non hai idea come sia povera di spirito l’umanità vista attraverso le massaie. Piena di diffidenza all’inizio, basta tu le offra un balocco, e dietro le spalle gli potresti svaligiare la casa.» Poi, nell’andirivieni del pensiero cui mi avrebbe abituato: «Curioso, ora mi sembra passato tanto più tempo da ier sera».
«Come da vita a vita» mi sfuggì.
Cavai il pacchetto delle sigarette; mi ci vollero tre fiammiferi, per via del vento, ma come se mi tremassero le mani davanti ai suoi occhi, mentre le porgevo il fuoco. Sedevamo sulla spalletta del Terzolle, sotto il lampione, al bivio dove si trova il ponticino e una strada conduce a Monte Morello, una alle Gore. La nebbia era sparita; c’era il buio intorno, il cono di luce sopra di noi, le folate di vento che veniva giù dalle colline e sibilava come una mola sul canneto.
«Parla, invece di guardarmi, dicevi?»
Dentro i suoi occhi, tante scaglie luminose, verdi e nere, su un fondo grigio, compatto, di lamina. E un’ironia, una crudeltà e una dolcezza mischiate, da sentirmi, a fissarla, imbattibile e terribilmente sfinito. Con Elettra, con Rosaria, per un momento con Paola addirittura, poi con le ragazze insieme alle quali si ballava nello stanzone che ultimamente noi amici avevamo preso in affitto e che io avevo proposto di battezzare «la tana», era accaduto lo stesso. Ma ora non c’era più la pantomima, i gestri e l’impaccio che bastava un movimento deciso a ribaltare. Lei, la sua presenza, erano cose vere. M’impegnava tutto, guardarla.
«Aspettavi ti baciassi?» le chiesi.
«Ora non più.»
«Ne ho una gran voglia, ma avanti vorrei spiegarti che specie di voglia.»
«Fare l’amore, immagino.»
«Questo sarebbe normale.»
«Sarebbe aver furia» lei disse. «È perfin presto per rifugiarsi al caldo d’un caffè, vicino a casa mia. Ma è poi casa mia? È nuova in ogni senso per me, non solamente perché è costruita da poco e non hanno ancora messo il telefono e non funzionano i radiatori. Debbo sempre conquistarmi lo scaffalino del bagno e il permesso di far marciare il giradischi a una cert’ora. Sono una ragazza giudiziosa, anche se non ci se n’accorge, dapprincipio!» Aperse e chiuse la borsetta senza uno scopo. Il passato si perpetuava nel presente ed io per lei ero un estraneo che acconsentiva. «Se non trovo subito un lavoro» aggiunse, «con quell’impiastro di donna, la moglie di mio padre, la convivenza non sarà ideale. È cambiata soltanto la numerazione, da quando son partita! Ma da stamani ho ripreso confidenza col mondo di una volta. Sono andata da mia sorella, siccome ho una sorella sposata che abita sui lungarni, a un pianterreno naturalmente, ossia in un sottosuolo.»
«Veniva di tanto in tanto in tipografia. Non mi sembra ti rassomigliasse.»
«Invece sì. Una volta eravamo uguali.» Tacque. Scrollò il capo liberandosi d’un pensiero ch’io non ero in grado di indovinare. «Sicché, la vita dicevi? È un argomento impegnativo!» Mi posò le braccia sulle spalle, faccia contro faccia stropicciò il naso sul mio. «Mi accompagni?» disse. «Su, te lo consento.» E subito saltò a terra, due passi distante mi tendeva la mano. Ci salutammo alle prime case dei greci, al di là del fossato; la finestra di Rosaria era illuminata: la figurai dietro i vetri ad aspettare il segnale.
«Osserva quella luce. Facendo un certo fischio, anche stasera la voglia-voglia me la potrei levare.»
«E lo farai?»
«Credo di no. Ma era per spiegarti quello che intendevo, dianzi.»
«Vuoi non l’abbia capito?» disse. «Su, pensa piuttosto se non è perché io sono nuova di Rifredi.» E staccò la corsa, agitando la mano. «Ciao, a domani.»
Neanche entrai alla Casa del Popolo. Non cercai né Dino né Armando né Benito. Accosto al marciapiede dove l’avevo lasciata, c’era la moto; partii lavorando di manopole, per scaricarmi e tremotare le strade.
«Come mai arrivi a quest’ora?» mi accolse Ivana, in piedi sulla soglia di cucina.
Cenavamo insieme, “altrimenti non ci saremmo mai visti in viso durante quasi tutta la giornata”. Lustrati i pavimenti i mobili i vetri, avanti d’uscire, lei preparava la pentola del minestrone, il tegame delle patate, la verdura già lessata. Sette ore di botteghino; e chiusi i conti, doveva fare pochi passi dal cinema all’autobus, dall’autobus a casa dove sapeva di trovare la tavola pronta e il gas acceso. “Bruno!” la sua voce si annunciava dalle scale. Le aprivo la porta e ci sfioravamo le gote. Rientravo prima di lei, tra le dieci e mezzo e le undici, ogni sera. “Un riflesso condizionato” Dino diceva. “Mamma e zuppa, compagno.” E la stanchezza, d’una giornata incominciata alle sette di mattina. Lei, come sempre, aveva voglia di parlare; e la vivacità, l’ironia medesima con cui si dilungava sulle circostanze più banali, riuscivano ad interessarmi. Personaggio costante era adesso il cavalier Sampieri, direttore del cinema e suo principale. “Diventa sempre più nonno, lumacone, scontroso… Con quella pancia che ha preso l’aspetto di un baule, per come sgrana, e per un fatto idropico lui dice.” Ora erano le beghe delle maschere, “ciascuna con una propria vita”; ora il romanzo a puntate dell’operatore geloso che costringeva la moglie a sedersi in platea dal primo all’ultimo spettacolo. “Non ti dico Sampieri!” E i giorni in cui la gente si presenta tutta con fogli da cinque e diecimila. “Il sabato, il ventisette del mese, gli si legge in tasca anche a coloro che fuori la strada parcheggiano i macchinoni… Hai buttato un occhio su quello che c’è da cena?” Si cambiava in un baleno. “Oooh, ora mi sento a mio agio. Sarà fatica lavorare in piedi, ma ore ed ore sopra un cuscino, e senza spalliera!” Usciva dal bagno con le pantofole e il grembiule. “Un minuto e ci siamo.” Trafficava ai fornelli, faceva le porzioni. “E tu?” mi domandava. Le raccontavo ciò che m’era accaduto in officina e con gli amici. “Benito ha sempre certe idee per il capo?” “È uno scontento, mamma, bisogna saperlo interpretare.” “È uno scontento o un ragazzo un po’ toccato?” “È un poeta!” Vedendomi serio, lei assentiva. Sedevamo di fronte, al tavolo di cucina, discutendo del lavoro, e più spesso, dei delitti e dei processi che appassionano loro vecchi più degli sputnik e di Berruti. “Io sono innocentista” lei diceva. E come se il pensiero le sorgesse all’improvviso: “Queste figliole dei greci, davvero sono così leggere?”. “Sono pesogallina.” Distraeva un momento lo sguardo: “Lo so, perciò sono tranquilla, tu aspetti Eva”. Mi recavo in camera a leggere, mentre lei rigovernava; quindi lei veniva a fumare l’ultima sigaretta e a tenermi compagnia, in silenzio, seduta sulla sponda del letto. “È mezzanotte passata” mi sussurrava. Spogliandomi, le riassumevo il libro o l’articolo che avevo appena studiato. “Ora ciao, mamma, buon riposo.” “Figurati! Con le cose che mi restano da fare.” “Soltanto il tempo da perdere coi bigodini…” “E la faccia no?” Le sue creme! “Sto a tu per tu col pubblico, io, cosa credi?” Riapriva la porta. “Perché ridi? L’ho detto anche ieri sera?” “Good night, ciciornia!” Oppure decidevamo di andare a prendere un caffè, una birra, un ponce, un gelato, secondo la stagione. Ritrovavo gli amici, c’era il juke-box e lei si faceva pregare, poi si concedeva: ballava come una ragazza, con della classe e un senso del ritmo preciso. “Apposta stasera non ti sei struccata” le dicevo. “Bravo signor censore.” Eravamo “due esseri incredibili” secondo Dino. “E considerati sotto il profilo dell’invidia, fate anche un po’ senso.” Qualcosa come Gioe e sua madre, in definitiva. Tanto da prestarci, via via che ci rivelavamo o reciprocamente intuivamo le nostre debolezze, una discrezione tenerissima e mai vile. Questa solidarietà, quest’intesa, mi apparivano naturali. Era il mio modo di curarla, pensavo. Perfino lo sgomento con cui assistevo al perdurare della sua fissazione (manifestata sempre più di rado ma ancora annidata nella sua mente, “quasi a dilaniarla certe notti”) si placava mentre la consolavo, come per un vizio dopotutto innocente, che le fosse necessario. Ci rispettavamo. La sua ambiguità era pari al mio voler sapere. Un equilibrio che bastarono poche parole ad alterare.
«Stavo in pensiero, non te l’immaginavi?»
«C’è qualcosa di caldo? Sono marmato.»
«Tra poco sarà il tocco, lo sai?»
«Non è la prima volta.»
«Di solito mi lasci un biglietto, in questi casi.»
«Sono allegro, mamma, non m’immalinconire.»
«Ti faccio quest’effetto, ho capito.»
«Ma no, no.»
«Non me lo vuoi dire?»
«Ho una gran fame.»
«Una discussione con Benito?»
«Fameee!»
«In officina col Parrini?»
«No, macché!»
«Allora, di che si tratta?»
«Splendori!… Non mi torturare.»
Dovetti sorridere; e della mia reticenza, neanche io mi rendevo esatta ragione. Ma come non le avevo parlato dell’apparizione di Lori la sera prima, più che mai ora sentivo il bisogno di tacere. Mangiammo muti, lei non venne a salutarmi avanti di coricarsi.
XX
La felicità, dicono, è uno stato di grazia, si prova il desiderio di farne partecipi gli altri, di arricchire l’universo come la neve cova il seme e il sole indora la spiga. Menzogne. Quando si manifesta esteriormente, non è la felicità, ma la sua parodia, e spesso sono i poveri di spirito a scambiare le soddisfazioni materiali per il suo esaltante equilibrio. Paola, di già compresa della sua parte di ostessa, ne è una perfetta raffigurazione. Ed è felice Gioe con sua madre, nei limiti di una tenerezza domestica che invece di nutrire l’int...