Un invito imprevisto
«Verresti con me al museo delle cere?» mi chiese nonno puntellandosi sul bastone. Era proprio elegante, col gessato Zegna, le Church’s che luccicavano e la sciarpa di mohair, nonostante un settembre afoso. Da quando era entrata in casa Niceta, la badante rumena, il nonno era sempre lindo e pinto, con camicie e vestiti impeccabili e l’odore di Paco Rabanne che lo annunciava dalle scale. Glieli andavano a pigliare nonna e Niceta da Rafael, in centro. Lui mugugnava: «Roba griffata addosso a un socialista? Tutti questi consumi e questi panni borghesi? Peggio di Martelli. Un gagà . Che dico, peggio di Bertinotti!». Ma poi alle spiegazioni di nonna cedeva, misurava, indossava. Sì, erano griffati però stava proprio bene.
«Un professore deve mantenere la sua dignità » accomodava nonna.
«Soldi benedetti si piglia questa ragazza» osservava mia madre, «sacrificati e benedetti. Dovrebbe guardarseli un po’, ma alla fine sono fatti suoi.»
Niceta era di Timisoara, aveva trentasei anni, era minuta e nervosa, consumava quintali di detersivi e si fucilava lo stipendio in vestiti. Firmatissimi. Era tutta una griffe. Tutta estetista e parrucchiere. Solo così si sentiva moderna e occidentale. E reagiva a una giovinezza di merda: «Grande politica di socialisti, di grande scienziato ladro Ceausescu». L’avevo sorpresa spesso a parlare da sola, spolverava e parlava da sola, con la polvere e con i pavimenti. O mentre preparava Lavazza rossa per sé e per i nonni. Per nonna a essere sinceri, perché nonno non poteva.
Ora da dove se ne usciva ’sta storia del museo? No che non ci potevo andare, non sono allergico ai musei, ma avevo un mezzo appuntamento con Alfredo e Lena al Mozart Cafè: mi restava giusto il tempo per chiudere un esercizio di matematica e scappare. Eravamo a inizio di anno scolastico, un anno che si annunciava tosto per lo spauracchio degli esami di maturità . Io ero scarso in matematica! E ci tenevo un casino a quell’appuntamento!
Lena, una che stava da due anni con Alfredo, malata per la musica afrocubana e che non stava mai zitta e abbozzava di continuo passi latinoamericani, come shakerasse il corpo per averlo sempre allenato, mi aveva fatto una promessa: avrebbe convinto Mara a incontrarmi. Erano compagne di classe ma erano anche amiche storiche, nonostante i caratteri opposti. Si scambiavano musiche scaricate dalla Rete e indumenti, perché a occhio e croce avevano la stessa taglia anche se gusti diversi, andavano al cinema ogni venerdì dopo lunghi e noiosi affondi in tutti i grandi magazzini della zona industriale, tuttavia non litigavano mai. Come strette da un patto di sangue.
«Dà i Andrea! Tu la fai lunga. Mi devi dire chi non litiga per cazzate così» aveva provato a smontarmi Lena. «Non vi siete mica presi a coltellate.»
Invece avevamo litigato di brutto con Mara.
«Se lo dici tu.»
«È come dico io, Andrea. Tu sei un bel tipo. Tale e quale al tuo compagno. Tale e quale.»
«Sarà .»
Quella mi sembrava una buona occasione per rivederla. Lena in parte aveva ragione, io non sono uno facile, accomodante, vado in bestia per niente e guai a essere contraddetto. Sono un figlio unico per costituzione. E amavo Mara di un amore litigioso.
Avevamo fatto storie a fine agosto davvero per una cazzata, un battibecco: sposarsi o convivere? «Ormai convivono tutti, si prova a stare insieme, dove sta scritto che siamo nati per star bene insieme? Sì, l’amore l’amore, ma l’amore va messo alla prova della convivenza. Oggi si separano tutti dopo tre giorni di matrimonio.» Restare a Bari o andarsene a Parigi, Londra, New York? Avere un conto in comune o conti separati? Tutto di là da venire ovviamente! «Voglio stare lontano da questa città di mercanti e di bastardi. Lontano da tutti, i miei e i tuoi. Ok?»
Eravamo al Coque Rock per un aperitivo e tenevo d’occhio dalla vetrina la mia 50 Special parcheggiata a cazzo sul marciapiedi. Gironzolavano un sacco di vigili e tipi strani di ogni razza che mettevano le mani dove posavano gli occhi.
«Ma è prematuro» aveva risposto lei. «È il lavoro a dettare legge. Poi non si può rompere col mondo degli affetti e dei luoghi che si amano.»
«Tu sei troppo ammammata, altro che!» dissi armeggiando col cellulare e sorseggiando un succo di mirtilli che trovai disgustosamente dolce.
«E tu sei un cretino che si atteggia» fece lei provando a distrarsi messaggiando con Lena.
«Bamboccia sei, bamboccia!»
«E tu fai lo spericolato per posa.»
«Uè, la scema!»
«Ma se ti fai preparare pure la colazione! Tu ti senti tanto cresciuto? Un figlio unico viziato ed egoista.»
Mi aveva perso dalle mani. Mi ero alzato, avevo affondato il Nokia e i pugni nelle tasche del mio Woolrich di resina panna, fulminato con gli occhi un rattigno che succhiava in piedi uno spritz e si guardava la scena come se gli appartenesse. «E tu che cazzo guardi?» avevo urlato sbattendo la porta. Lei non mi aveva fermato.
Erano scoppiati sms brutti e una ringhiosa telefonata finale.
«Per stare insieme bisogna chiarirsi subito.»
«Io non voglio un rompipalle così affianco.»
«Ma chi ti vuole. Aria! Ne trovo a palate come te. E meglio!»
Mi aveva chiuso il telefono in faccia ed era sparita. Da tre settimane. Tosta. Un acciaio. E un silenzio di stizza, offeso e di attesa.
«Peggio per lei» mi dicevo. E presi a fare come se non ci fosse più, pub nuoto jogging chat cinema. Se qualcosa mi impigriva, per sfregio mi costringevo a farlo. In realtà era per distrarmi. Perché non stavo bene come volevo far credere. Ero agitato. Soffrivo. Soffrivo da schiattare. E mi mancava. Mentre le scuole si riaprivano e l’afa estiva non accennava a scemare.
Alla prima prova di disegno trigonometrico, visto che so come usare squadre matite compassi, ci scambiamo i fogli con Alfredo, lui non ha proprio il senso della precisione. Macchia tutto come avesse sotto della carta assorbente. Gli do quattro botte e il nero di china. Geometrico come in una partita a biliardo. E pulito. Lui se lo guarda, si strofina le mani: un miracolo.
«Che dici, Andrea, ci proviamo con Mara?» mi fa all’uscita, per sdebitarsi. «Glielo dico a Lena. Magari sabato ci organizziamo un giro di pizze.»
«Manco se mi impiccano.»
«Ma dà i. A chi vuoi darla a bere?»
Adesso però si metteva di mezzo il nonno. Non potevo accettare il suo invito. Ne ero dispiaciuto ma non potevo proprio.
Mia madre arricciò il naso. Era una chioccia e una rompipalle. Abbandonare il suocero sui pullman e con quell’afa! Per come stava male lei non riuscivo a contraddirla. Guardai il nonno molto contrariato mentre entrava in bagno.
«Io non so che gli è preso» sospirò nonna, «da quando è in pensione non fa che scrivere. Scrive, cancella e da capo. Infila nella cartella, chiude e se la tiene stretta in mezzo alle gambe. Ma che avrà da scrivere?»
Era caduto in depressione, nonno Andrea, dovuta, secondo nonna, a ragioni politiche e all’età . Gli restava poco tempo, ripeteva, e voleva dedicarlo a ciò che gli stava più a cuore.
Uscì dal bagno e mi fece cenno con la mano di sbrigarmi. Una mano gentile, da vecchio professore. Di lettere.
«Dov’è ’sto museo delle cere, nonno?»
«Al porto. Dentro Villa Carafa. In fondo a un luna park se ho capito bene.»
«E che ci sta?»
«Oh» rispose lui trattenendo i fischi che gli partivano dal petto e stringendo il manico della cartella, «che domande. Che ci può essere in un museo delle cere? Statue di cera. Credo.»
«È che avrei un appuntamento per le nove. Cose di scuola.»
«Su che ci puoi andare» intervenne mamma sollevandosi dalla poltrona e portandosi in cucina sorretta da Niceta che intanto aveva messo la teiera sul gas, «non fare sempre il difficile. Siete appena all’inizio dell’anno e hai tutta domenica per i compiti.»
«Ma abbiamo già una prova di matematica» dissi. «Lunedì. ’Sta cazzo di matematica! Volevamo combinare una strategia con Alfredo.»
«Allora lasciamo perdere. Ci vado da solo» tagliò corto nonno Andrea. Si affacciò alla finestra, come per accertarsi che nessuno gli facesse la posta.
Mamma Erminia mi fece cenno di raggiungerla e approfittando della distrazione del nonno mi sussurrò: «Devi proprio fare il prezioso? Va’ con lui e non perderlo d’occhio. C’è qualcosa che non capisco».
«Vuole andare solo a un museo, mamma. Magari a pigliarsi un po’ di frescura.»
«E tu lasci così uno di ottant’anni? Mah!»
Sbuffo, bestemmio ma entro in bagno a lavarmi le ascelle. Puzzo come un pesce sfatto, mi cambio t-shirt e Jeckerson, infilo le Nike e ci tuffiamo in una nube fetida di smog e sansa. Il caldo è proprio asfissiante, come fossimo a luglio.
Nonno arrancava, gli colavano i rigagnoli di sudore nel colletto, fetore e scirocco erano un toccasana per la sua asma, era agitato e sbatteva il bastone contro le basole dei marciapiedi. Doveva essere successo qualcosa.
«Allargati almeno la cravatta e togliti la sciarpa» dissi. «Con questo caldo la sciarpa? Questa vuoi darla a me?» Provai a sottrargli la cartella, ma lui la stringeva come un rapace e scosse la testa continuando a voltarsi preoccupato, tanto da contagiarmi. Cominciai anch’io a guardarmi intorno, temendo un inseguitore o un seccatore.
Per strada un gibillero di gente e di traffico, come formiche impazzite per la calura. In via Pasubio prendiamo l’8 barrato e ci sediamo in coda a un autobus stipato come una scatola di sarde. Tra sudore e puzza d’aglio che il suo Paco Rabanne faceva fatica a coprire. Era proprio un vomito di veleni.
Salendo dalla porta posteriore, un anoressico con capelli pieni di gelatina salutò mio nonno: doveva essere stato suo alunno. Lui mi guardò e si strinse nelle spalle, non lo aveva riconosciuto.
Scivolavano nei finestrini la chiesa russa di San Nicola, con la cupola a cipolla tappezzata di formelle verdemarcio, i giardini arrugginiti dal seccume, le prospettive squadrate del primo dopoguerra, il sottovia Sant’Antonio martoriato di graffiti e dove il traffico si impantanava, poi la stazione centrale dominata da una immensa fontana e da mandrie di ragazzi di colore che forzavano ad acquistare borse kleenex pashmine pelletterie e monili taroccati. Erano seccanti e petulanti. Un inferno! Il nonno era sempre agitato, stringeva la cartella e si guardava le spalle.
Alla fermata della stazione ferroviaria salirono due orche rom con certe angurie giganti sotto orrendi maglioni colorati, puzzavano di sudore e cominciarono a chiedere l’elemosina con fare insistente e lagnoso. Nonno scosse la testa e mi guardò negli occhi: «Non sono mai le stesse» disse. «Ne vedo tutti i giorni ma sono sempre facce diverse. Farei dormire un paio di notti nelle tane di queste qua quelle damazze della Caritas che si fingono tanto impegnate. Solo un paio di notti. Giusto per riempirsi di cimici e pidocchi!»
Abbozzai un risolino. Tanto per. La cosa non mi toccava proprio.
Mio nonno si chiamava Andrea come me, Andrea Mola «fu Pasquale», così gli piaceva dire nelle presentazioni; aveva mutato il castano dei capelli in un cinerino brillante e nonostante gli anni, l’asma e la lieve zoppia era un uomo fascinoso. Taciturno, riservato, ma gentile e proprio fascinoso. Viveva dalle parti del castello, in un appartamento al limite del centro storico e saliva raramente da noi, all’altro capo della città . Dalle parti dove il piano regolatore stava rubando terreni alla campagna. «A rimetterci sono le pianure e l’agricoltura. Se la mangiano i costruttori. La campagna sparisce chilometro dietro chilometro e noi lasciamo fare» brontolava. Per vederlo ci andavo con la mia vespa zigzagando tra le strettoie e le arcate basse, in un labirinto dove si spacciava di tutto. Una casbah di piccoli delinquenti e di megere. Mia madre aveva suggerito ai suoceri di vendere e acquistare un appartamento dalle nostre parti. Ma era come parlare al muro. Perché il nonno amava i quartieri proletari, le fogne del malaffare organizzato che erano «l’unica reazione vera alle deficienze dello Stato», le voci della strada, il dialetto strettissimo che Toti e Tata avevano portato su Telenorba con effetti caricaturali, gli sbuffi di cucina, la povertà della calce, l’odore degli interni. Un mondo che rinviava a un’Italia proletaria, organizzata in sezioni di partito, incazzata nera contro il Fascismo e la Diccì.
Negli ultimi tempi si andava a trovarli di rado perché io mi annoiavo da morire, mio padre non sopportava il padre per divergenze caratteriali e politiche (ma non aveva palle per dirglielo), e mia madre si era ammalata di qualcosa che aveva devastato il suo midollo spinale e non le permetteva di tenersi in piedi per molto tempo.
Nonno e nonna allora avevano preso a venire da noi. Pigliavano un taxi o telefonavano a papà , che brontolava ma li traghettava con la 156. Si sforzavano di far apparire alla mamma tutto normale. «Ci sgranchiamo le gambe, il medico ce l’ha tanto raccomandato…» accampavano.
Mio padre stava attorno alla mamma come poteva, perché le dedicava i ritagli di tempo che gli restavano tra gli impegni di lavoro e quelli personali. Era dirigente della Corte dei Conti, faceva la spola con Roma e non appena poteva si barricava al Circolo della Vela. Lui si chiamava Pasquale, come suo nonno, ed era tifoso del Bari calcio. Era un senza sangue. Una specie di ameba che lasciava le difficoltà dell’esistenza fuori del Circolo e patteggiava lì dentro una libera uscita di chiacchiere, raccomandazioni e burraco.
«Lo fa per te» giustificava mia madre cercando di convincersene, «per te e per me. Per mantenere i rapporti con l’università , il policlinico, i politici.»
I politici! Ma se in politica lui era un orecchiante! E quella tiepidità o quel disinteresse li aveva contagiati persino a me. Che mi sentivo tuttavia a disagio in quella condizione. E di più mi sentivo a disagio di fronte al nonno, che era uno tostissimo. Un cacacazzo deciso e passionale. Un professore rispettato e preparato. Amico di tanti che nominava di frequente: Sacco, Pedio, Vittore e Tommaso Fiore, «don Tommaso», un collega che aveva scritto libri sui poeti latini e sul comunismo. A casa di Fiore aveva conosciuto Carlo Levi, pensa te.
«Teste di minchia» li bollava mio padre mentre eravamo a pranzo, con gli occhi alla tivù, «gente che ha dato veleno a tutti, ha appicciato fuochi e frenato la democrazia del Paese!»
Era proprio un teatro. Mio padre forzista, il nonno socialista e io zero totale. Né governo né opposizione. Il nonno coi suoi proletari e malviventi di Bari vecchia (tutti in galera per camorra e taglieggiamenti) e mio padre coi suoi riccastri del Circolo della Vela (tutti ammanicati tra loro)!
Nel mio universo c’era il CUS, dove praticavo nuoto, c’era la Juventus, c’era qualche viaggio, la 50 Special ...